ca'foscari short film festival

2.NDA edizione

 

Venezia 28 / 31 marzo 2012

 

recensioni

di Gabriele FRANCIONI

> amore necessario di Alessandro Tamburini

> AWFUL WEDDED WIFE di Brendan Sweeney

> De la mutabilité... di Anna Marziano

> QUELL'ESTATE AL MARE di Rivaroli e Tommasi
>
KWAISHQAEI di Anil Lakhwani

> LUCKY SEVEN di Claudia Heindel

> PAVELS LETZTER SCHUSS di C.Heimer

> placebo di Itamar Moreno

 

QUELL'ESTATE AL MARE

di Anita Rivaroli e Irene Tommasi

Italia 2011, 11’49’’

 

In Concorso

 

Gli anni Sessanta, tra sogno e realtà, servono a Rivaroli e Tommasi per definire i piani di un racconto lieve e intenso, sui quali la fantasia di un bimbo va a disporre le istantanee - diremmo 24 al secondo - prodotte dalla sua mente immaginifica, quasi cinematografica. Lo spunto per il soggetto (una madre inventata) viene da un portafoglio perduto e raccolto dal piccolo protagonista mentre è in fila con altri coetanei in attesa della canonica visita medica prima delle vacanze estive in colonia. Siamo dalle parti di Cervia, romagna felliniana anno 1964, quindi onirica e piena di amarcord che sanno di santino, come la Cinquecento del medico buono (Roberto Citran), al quale viene affidato il ragazzino. Durante la visita, interrogato dal dottore, raccoglie i pochi elementi a disposizione (i dollari, una foto di donna) per sceneggiare un viaggio a Hollywood, al centro del quale sta la “madre” attrice, lì accompagnata da un ricco signore. QUELL’ESTATE AL MARE è ben condotto e altrettanto ben costruito, tanto da giustificare l’attesa per altre prove da parte del duo registico al femminile.

AWFUL WEDDED WIFE

di Brendan Sweeney

Australia 2011, 8’08’’

 

In Concorso

 

Uh, Sweeney Brendan...!

Scanzonato accumulo di citazionismi diretti e indiretti (la scena iniziale di KILL BILL Vol. 1, qui parodiata, da una parte; le locandine di “A Fistful of dollars” e “Star Wars” appiccicate al muro della stanza, dall’altra, etc), “A.W.W.” è specchio fedele di una cinematografia, quella australiana, abbastanza marginale e necessitante nuove figure di transfughi alla Jane Campion o alla Peter Weir, perché si possa tornare a parlare di new wave o anche semplicemente di nuovi virgulti.

Una bride in procinto di finire tra le grinfie del poco desiderato groom di turno, viene rapita da un tizio vestito da cowboy (il banjo suona sempre in sottofondo…), che si rivelerà l’antico compagno di giochi, demenziale ma sincero, con a carico analoghi anziani e genitori.

Un po’ camp, o solo hippie (“sad old hippie”, la definisce il mancato    ) è anche la mamma di lei, che ha tramato col ragazzo e sovrintenderà a un nuovo, stavolta felice, matrimonio.

That’s all, folks!

LUCKY SEVEN

di Claudia Heindel

Germania/UK 2011, 27’

 

In Concorso

 

Nella triade dei nostri preferiti, LUCKY SEVEN avrebbe vinto, con poco margine, su LE JOUR e DE LA MUTABILITé e si sarebbe portato a casa lo “Spritz d’oro” assegnato virtualmente da Kinematrix (in omaggio al vivacissimo contesto di Campo Santa Margherita, a un passo dall’auditorium del festival).

L’aspetto più affascinante del CAFSFF  è stato senza dubbio il melting pot culturale, di cui si è avuto solo parziale riscontro a causa delle ristrettezze che hanno impedito di ospitare tutti i giovani registi in concorso, ma che ha segnato la ricca, incerta, multiversa matrice produttiva dei cortometraggi.

Italiani presenti con film indiani, rumene supportate da scuole di cinema tedesche o, come in questo caso, una bravissima regista teutonica che filma la realtà irlandese di Derry.

Il mutuo soccorso culturale è forse l’esito migliore, o il più immediato, di una realtà che nasce sul web e rimbalza sul campo di battaglia del pianeta, dove i confini, in senso lato, non esistono più. Claudia Heindel porta il suo sguardo secco, ma non naturalistico, in un viaggio di sorvolo sull’Irlanda del Nord, che ci restituisce un mondo di marginalità de-trainspottingate, ma ugualmente borderline. Là dove borderline è la normalità.

La perdita del padre conduce uno dei due protagonisti, Sean e Ryan, a trascinare le proprie giornate, stiracchiandole come un elastico tirato a caso, verso un non-luogo dove il passatempo preferito è quello d’individuare stocasticamente un nemico/vittima da prendere di mira, così, tanto per scaricare una vaga ansia o angst esistenziale.Da uno a sette (“One!”/”Seven!”) vengono contati, urlandoglielo in faccia, i passanti che inter/essano di più i ragazzi; da uno a “n” vengono individuati i target di una ribellione embrionale perché non verbalizzata, non analizzata (forse a causa del mostro internettiano, che tutto, specie il dialogon, fa implodere?). Un uomo polacco, cioè un pezzo di alterità concreta che si aggira per le strade (gli autobus) di Derry, sembra muovere il diagramma piatto di queste flat lives, ma la novità rientra presto e il quantum di violenza cresce sino al finale. La polpa, ad ogni modo, c’interessa molto meno della regia (come sempre dovrebbe essere).

Heindel propone  uno stile sicuro e perfettamente delineato, che alterna distorte - grazie all’uso del grandangolo -  still lives di paesaggi urbani assolati e desolati, asciutti segmenti quasi-handycam e folgoranti intuizioni astratte, come la contro-presentazione finale (scomparsa nel nero) dei ragazzi, che appaiono illuminati per un lungo istante, prima di rientrare nel nulla, davanti alla m.d.p.

Padrona di una narrazione sintetico-elusiva già pronta per il formato più esteso, Heindel fa a meno della parola e quasi anche della banda sonora, limitata a semplici ma efficaci drones, segnatamente negli sguardi istantanei e curvi rivolti verso l’immota sequenza di case colorate o in mattoni di Derry.

PAVELS LETZTER SCHUSS

di Christoph Heimer

Germania 2011, 30’05’’

 

In Concorso

 

Christoph Heimer mostra una regia già matura e consapevole, che si spiega solo con la qualità dell’insegnamento nelle scuole di cinema nordeuropee, alle quali l’Italia dovrebbe guardare come costante punto di riferimento. Marie-Elisa Scheidt, anche lei tedesca e vincitrice della prima edizione dello Short Film Festival, metteva la tecnica al servizio di un’intensa e attiva meditazione sulla quotidianità del dolore, mentre Heimer la utilizza per incrociare atemporalità della tragedia e action movie, realizzando un lavoro che si pone a metà strada tra Gangster Story e Romeo + Juliet, fotografato, però, come il livido Der Baader-Meinhof Komplex. C’è anche un brevissimo segmento da film giudiziario in Pavels Letzter Schuss, a dimostrazione di un talento non comune nella gestione dei differenti registri. La vicenda nel suo complesso sembra convocare Shakespeare e Natural Born Killers: seguiamo la parabola di Hanna e Pavel tra carcere, processo e fuga, partendo dal giorno in cui l’ipotesi di un figlio concepito dietro le sbarre, quindi potenziale amo lanciato in un futuro di libertà, si scontra con l’inattesa sentenza di condanna dell’uomo. Le linee di forza del racconto seguono tragitti opposti: alle rigide ascisse di Pavel - pragmaticamente e fatalisticamente fermo ai blocchi della Realtà immutabile - si contrappongono le folli ordinate della ragazza, che s’innalzano a descrivere il diagramma di una passione tutta mentale (la “finsterer wald” della didascalia iniziale). Hanna implode, come fa Blanche in A streetcar named Desire, nei meandrii della foresta oscura, traghettando il suo Pavel Kowalski in canottiera (la citazione racchiusa nel cognome è troppo esplicita) dalla claustrofobia tautologica della cella alle manette, non solo metaforiche, di una coercizione amorosa astratta. P.K - fissato alla portiera di un’utilitaria che fa molto Germania dell’Est pre-caduta del muro e quindi egli stesso epitome d’immobilismo degno di verdetto e punizione - viene sacrificato in nome di una disordinata ma necessaria esigenza di libertà. è vero, anche Hanna-Utopia morirà fuori campo, ma se il goffo contro-appeal dei poliziotti griffati CSI-Miami non ci distraesse nel finale, potremmo pensare persino a un messaggio politico capace di agganciarsi con sicurezza alla Storia.

De la mutabilité de toute chose et de la possibilité d’en changer certaines

di Anna Marziano

Francia 2011, 16’50’’

 

In Concorso

 

“Tem dias que a gente se sente/ Como quem partiu ou morreu/ A gente estancou de repente/
Ou foi o mundo então que cresceu/ A gente quer ter voz ativa/ No nosso destino mandar”
(1).

 

Anna Marziano è riuscita a condensare nei versi tesi e tersi di Chico Buarque (“Roda Viva”, 1967 ) il dramma infinito del terremoto abruzzese del 2009. Dopo aver messo in sequenza alternata racconto privato e dimensione collettiva - brevi testimonianze di perdite “versus” still lives degli spazi pubblici violentati dal sisma o del paesaggio attonito - la regista chiude il suo excursus doloroso con una sottolineatura inattesa di alta poesia. Senza soluzione di continuità passiamo dall’incerta banda sonora prodotta da un radiolone al viso intenso del cantautore brasiliano. L’accento posto su questa breve oasi d’irrealtà, è un cuneo di senso in cui va a insinuarsi il pensiero della Marziano. L’anziano terremotato, dopo aver raccontato la sua personale tragedia, sta ascoltando un cd, quindi Chico, sospeso nell’atemporalità di un azzurro apparentemente catodico o internettiano, non esce comunque da un televisore o da un computer, che eccederebbero la qualità basica, primaria delle funzioni offerte da un camper o da un tendone. La sua è una sorta di epifania (tecnologica e astratta) dell’arcangelo, annunciatore per definizione, che rende inutile ogni fastidioso voice over e raccoglie il commento dell’autrice. Nello stacco tra il vecchio che caracolla sul samba lento di “Roda Viva” e il primo piano del cantautore carioca, stanno sia l’universalità irreversibile della Fine, sia la vertigine poetica prodotta dal cinema. Grazie ad esso la regista può ricollocare un quantum di tecnologia - quindi di rassicurante consuetudine nei confronti di una modernità data per scontata - nel contesto apocalittico e primordiale in cui ogni cosa è rotta, spezzata e il tempo si riavvolge, come una “roda morta”, su se stesso, rendendo antico il Presente. Il segnale-tv non arriva più a L’Aquila o, se ciò è possibile, arriva solo sotto forma di miracolo o epifania che eccede il grado zero della distruzione fattasi status quo immutabile.
Tutto il cortometraggio, ad ogni modo, mostra una notevole padronanza nell' uso della m.d.p., nella costruzione dell' immagine in movimento o statica, nella capacità di alternare taglio-doc puro e sospensione meditativa, racconto e immagine pura.
Sino ad ora il nostro candidato al premio principale del Concorso Internazionale.

(1) Ci sono giorni che ci si sente/ Come chi è partito o chi è morto / Ci si è fermati all’improvviso/ O è stato il mondo che è andato avanti/ Vogliamo dire la nostra/

Poter guidare il nostro destino.

placebo

di Itamar Moreno
Israele
2011, 20'28''

 

In Concorso

 

Forse non è lecito intrecciare cinema di genere (horror) e malattia, eppure Itamar Moreno ci riesce, con risultati che vanno dal disturbante al poetico. Un ragazzo in fase terminale costruisce la doppia realtà che gli consente di sopravvivere il più a lungo possibile e, allo stesso tempo, di vivere una storia d' amore immaginaria. In un continuo andirivieni tra giorno e notte, veglia e sogno, ospedale e libertà, il protagonista muta pelle, tornando sano e senza gli effetti della chemioterapia (le belle sequenze con i capelli ricresciuti, i suoi e della ragazza amata/malata, eteree come un "Picnic at Hanging Rock" solo meno leggiadro). Siamo quasi dalle parti dell' horror giapponese dell' ultimo decennio, salvo che qui s' intrecciano brevissimi segmenti d' iperrealismo agghiacciante (il giovane che arranca sul letto tra smorfie e lamenti) e pure derive immaginifiche (la già citata scena nel giardino). Il make-up è volutamente eccessivo, quasi a sottolineare la definizione di una linea indefinita tra finzione e realtà. Oltre a ciò, colpiscono le musiche e la fotografia, che contribuiscono ad arredare la visione orrorifica dell' insieme, tra cigolii del porta-flebo e dei letti metallici e bianchi innaturali, con sovraesposizione continua e probabile ritocco in fase di postproduzione.
Lavoro molto interessante, tra i possibili vincitori insieme al cortometraggio di Anna Marziano.

amore necessario

di Alessandro Tamburini
Italia
2011, 07'10''

 

In Concorso

 

Due anziani romagnoli, 61 lei e 71 lui, si mescolano fra loro come i colori di un dipinto pollockiano. Lui è pittore, quindi sregolatezza e parlantina sciolta, lei è bella e scolorita, ma a suo modo vitale ed emanante luce. Tamburini raccoglie la spinta dei due verso una Vita all'ennesima potenza, in qualche modo infinita, in un breve segmento autoconfessionale dove in realtà si parla di morte e non di sesso, come sembrerebbe.

Piacevole, anche se ancora ingenuo e appena abbozzato, esempio di cinema che si fa da solo, senza le camicie di forza del belletto computeristico.

KWAISHQAEI

di Anil Lakhwani
India
2011, 10'42''

 

In Concorso

 

Tutto il cinema indiano sembra andare in direzione Bollywood, anche quello degli esordienti, tecnicamente ineccepibili, ma un po' vuoti nei contenuti o -come in questo (comunque pregevole) caso- incapaci di resistere alla tentazione di trasformare il dramma in melodramma.

L' improbabile spunto di un cameriere muto e nano che sottrae parte degli incassi di un disco-club per finanziare il cambio di sesso del fratello trans che lì lavora, conterrebbe materiale per sviluppi multiversi.

Il tono, invece,è invariabilmente quello scanzonato e patetico del melos delhiano che passa ai festival, ma non passa attraverso  il  filtro di un occhio allogeno (SLUMDOG MILLIONAIRE?) capace di contenere gli eccessi di una cinematografia tutta concentrata sugli effetti speciali del sentimento.

Lakhwani, si è detto, gira benissimo, perfettamente a suo agio nel muovere la m.d.p. come una ballerina di kuchipudi fa con le mani: il problema è nello svolgimento e, soprattutto, nel finale.

Il regista, invece di scavare a fondo nelle stratificazioni di senso delle due diversità, ce ne restituisce una traduzione simultanea che azzera i dialoghi, preferendo a questi "n" inquadrature del cameriere dall'interno della cassaforte, neanche fossimo dalle parti di Ocean's Eleven.

SITO UFFICIALE

 

2. ca'foscari short film festival

Venezia 28 / 31 marzo 2012