ca'foscari short film festival

2.NDA edizione

 

Venezia 28 / 31 marzo 2012

 

agli albori dell'animazione italiana

di Alessandra ALTOMARE

Sempre più proiettati verso il futuro e le tecnologie che dischiude, per gli amanti del cinema d'animazione il Ca' Foscari Short Film Festival è stata l'occasione per fermarsi e fare qualche passo indietro alla scoperta delle origini dell'animazione nel nostro “Bel Paese”.

Nella seconda edizione del Festival studentesco infatti sono stati presentati, grazie al lavoro del Direttore dell'AIRSC Carlo Montanaro, cortometraggi italiani di grande valore storico. Realizzati nel Secondo Dopoguerra hanno fin da subito incontrato l'ostacolo del predominio disneyano che costrinse le case di produzione italiane ad abbandonare il modello interpretatvo fino a quel momento mantenuto.

Ai suoi esordi il concetto di l'animazione infatti era molto diverso da quello attuale: non prevedeva la realizzazione di disegni fatti a mano, ma utilizzava la tecnica del “passo uno” (più noto oggi come stop-motion) su soggetti reali. La prima opera italiana che vede l'utilizzo di questa tecnica è “La storia di Lulù” di Arrigo Frusta e risale al primo decennio del '900. Racconta la storia di una ragazza di campagna che ottiene il successo come ballerina; la particolarità del lavoro sta nel narrare le vicende inquadrando esclusivamente i piedi e le scarpe dei protagonisti. Nell'atto finale le scarpe dei due protagonisti prendono vita proprio grazie alla stop motion. Si tratta di una tecnica molto complessa nella sua realizzazione, che tuttavia conferisce fisicità ai soggetti rappresentati; l'esempio forse più celebre dei giorni nostri è “The Nightmare Before Christmas” di Tim Burton.

Utilizzando questa tecnica si realizzarono molti cortometraggi e mediometraggi risalenti addirittura a prima dello scoppio della Grande Guerra, la maggior parte dei quali però con finalità pubblicitarie e pedagogiche. Tralasciando piccole eccezioni, fu soprattutto nel ramo pubblicitario che l'animazione trovò terreno fertile per migliorarsi e sperimentare nuovi ambiti. Superato il periodo di crisi degli anni '40 l'animazione italiana regala al suo pubblico piccole opere dal grande fascino. Incentrate su un aspetto più giocoso e fiabesco, “Anacleto e la faina” e “Il paese dei ranocchi” raccontano in un modo tutto italiano le (dis)avventure di simpatici animali. Il primo, realizzato da  Roberto Sgrilli del 1941, ci mostra il prototipo di quello che in futuro sarà un personaggio amato da grandi e bambini, il piccolo e nero Calimero. Il protagonista di questa storia si chiama Anacleto, un pulcino nero che affronta coraggiosamente un'affamata faina nel tentativo di proteggere i suoi fratellini, nonostante fosse per loro oggetto di scherno a causa della propria diversità di colore. La storia ovviamente si conclude la vittoria del pulcino e la sua accettazione nella famiglia nel momento in cui, sporcatosi con della vernice chiara, assume lo stesso piumaggio dei fratelli; a differenza invece del suo collega Calimero che torna ad essere bianco grazie al detersivo per bucato che sponsorizza. Nonostante la magnifica opera di recupero e restauro la pellicola risulta essere seriamente danneggiata, con colori opachi e salti d'immagine dovuti alle giunture effettuate sulla pellicola. Anche l'opera del grande artista Antonio Rubino, “Il paese dei ranocchi”, risulta essere danneggiata, in particolare nella resa dei colori. Precursore nell'attività di disegnatore di storie per vignette in Italia, Rubino realizza un cortometraggio pregno del suo personale senso estetico e artistico, e da grande illustratore quale era, attraverso il sapiente utilizzo dell'Agfacolor, realizza fondali dettagliati e animazioni complesse per la presenza di numerosi personaggi in scena, tanto che l'opera ottiene nel 1942 il premio per la sua categoria alla Mostra del Cinema di Venezia. Si è da poco scoperto che alla realizzazione di questo lavoro d'animazione contribuì anche il fumettista italiano Benito Jacovitti, padre del famosissimo cowboy Cocco Bill.

Le ultime due storie presentate al Film Festival perdono la caratteristica ludica tipica dei cartoni animati per diventare vere e proprie espressioni cinematografiche dell'Italia Neorealista. Francesco Maurizio Guido, in arte Gibba, da' vita nel 1946 ad una commovente storia che vede come protagonista un ragazzo di strada, in lingua napoletana sciuscia', che per sopravvivere alla povertà vende sigarette. La comparsa di un soldato americano colloca la storia nel contesto temporale del Secondo Dopoguerra mentre la convinta volontà di stereotipare il personaggio suggerisce la critica sociale dell'autore. Noto come l'unico cortometraggio animato neorealista, presenta interessanti elementi sia a livello tecnico che di contenuti. Il regista si è ispirato molto ai cartoon americani soprattutto nell'antropomorfizzazione degli animali oltre che nell'affiancare al protagonista un amico a quattro zampe, in questo caso del cagnolino Mattia, che alleggerisce con le sue gag il triste contesto della storia. Da notare l'ottimo utilizzo della prospettiva per dare profondità alle scene, in particolare quella in cui il bambino sale in cielo con la scala, e grande dettaglio nella realizzazione dei fondali, nonostante il film sia in B/N. L'inizio ricco di scene comiche per poi scemare su tematiche più serie e profonde verso la fine rende questa forma di intrattenimento un'opera dal contenuto maturo e impegnato, come stabilito dal regista. L'entrata in scena nel finale della componente religiosa, che ci mostra il piccolo sciuscià accettare di restare con Dio, quindi morire, per trovare la felicità tanto agognata, è una tematica molto presente in quel periodo, e può riportare alla memoria il toccante finale del film “Marcellino pane e vino”, anche se le due opere non sono in alcun modo collegate.

A conclusione della serata è stata mostrata l'opera più attesa tra quelle in catalogo, “La piccola fiammiferaia” di Roberto Scarpa, iniziatore della scuola di fumetto Disney in Italia.. Realizzata nel 1951 a Venezia con l'utilizzo del multiplane camera , il suo creatore la riteneva ormai perduta; grazie, però, al contributo di un collezionista privato l'opera è stata ritrovata e riportata agli antichi splendori. La storia nota al grande pubblico della povera orfanella che per sopravvivere vende fiammiferi presenta molte somiglianze con la precedente opera Sciuscià. Oltre alla corrispondenza del protagonista povero e orfano, notiamo la presenza di un animale a tratti umanizzato, in questo caso la colombella, che affianca la bambina e ne diventa compagno; entrambi appaiono stanchi delle misere condizioni in cui vivono pur dimostrando tenacia di sopravvivenza. La felicità per questi bambini tuttavia arriva solo tramite la Morte.

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