il cinema ritrovato
24.ma edizione

Bologna, 26 giugno / 03 luglio 2010

 

ritrovare il cinema

 

di Simone GHIDONI

La cinecamera osserva, oltre la soglia di un’elegante stanza, un gruppo di soldati brindare insieme per l’ultima volta, prima di salpare per la guerra. Una talentuosa dottoressa dedita alla sua missione viene tradita dal marito nella maschilista Russia degli anni dieci: si prenderà carico anche dell’amante dell’uomo e del figlio nato dal loro incontro. Vienna difende con le armi il locale per il quale ha fatto tanti sacrifici; Johnny Guitar ha qualcosa da farsi perdonare e non vuole mancare l’occasione di essere, finalmente, un eroe agli occhi della sua donna…

 

Queste sono solo alcune delle immagini e delle storie con cui si è aperta la XXIV edizione (26 giugno – 3 luglio 2010) de "Il Cinema Ritrovato", festival diretto da Peter von Bagh e promosso dalla Cineteca di Bologna e dalla Mostra Internazionale del Cinema Libero.

Una staffetta ininterrotta tra le due sale del cinema Lumiére, dell’Arlecchino e Piazza Maggiore, una lunga carrellata di 313 pellicole, quasi tutte rarissime e restaurate, che compongono il programma di un evento senza eguali in Italia e forse nel mondo: lo dimostra l’elevatissimo numero di stranieri accreditati da Stati Uniti, Francia, Germania, Inghilterra, Ungheria, Svezia, Giappone…una miriade di lingue e volti uniti nella passione per il cinema.

Un cinema per vocazione universale,  in larga percentuale muto, quasi a ribadire il carattere  internazionale dell’avvenimento. E se l’internazionalità è un elemento che il Cinema Ritrovato condivide con altri festival, sicuramente meno comune è l’enorme sforzo nel riportare in vita, dopo decenni di oblio, pellicole che altrimenti rischierebbero di non trovare più un audience che ne possa onorare il ricordo.

Cinema ritrovato abbiamo detto, ma soprattutto una chance per ritrovare il cinema nell’accezione più antica (cioè anteriore alla sua emancipazione in quanto arte) di spettacolo pubblico, catalizzatore sociale, mezzo di comunicazione e intrattenimento, mediatore e ripetitore culturale, politico, addirittura religioso. Un’occasione preziosa alla luce di un fenomeno diffuso che sta portando molti spettatori a fruire del cinema singolarmente, distrattamente, preferendo al piacere di una risata in mezzo ad una folla in cui perdersi (The Crowd), quello dubbio di una visione depotenziata e tristemente centrifuga su supporti che non garantiscono la riproduzione adeguata dei film (televisione pubblica, cellulari, ecc…). Una regressione ai tempi del Kinetoscopio di Edison insomma.

Per un cinefilo è quindi davvero grande la soddisfazione di fronte a diverse migliaia di persone che collettivamente godono di opere dall’indubbia qualità. Probabilmente è questo che fa del Cinema Ritrovato un evento così speciale: l’unione di un’assoluta qualità al piacere di poterla diffondere all’aria aperta, in una cornice antichissima, gratuitamente, trasversalmente, denunciando (senza mai nominarla) la povertà dell’attuale panorama cinematografico mainstream.

 

Entriamo allora nel vivo del programma a partire dalla sezione più peculiare: i film Ritrovati & Restaurati. La varietà e la quantità dei film riportati alla luce è straordinaria, a partire proprio dalle circa ottanta pellicole dei fratelli Lumiére proiettate in unico, nuovo montaggio commentato dal vivo da Thierry Frémaux: grazie all’eccellente restauro, si possono finalmente ammirare su grande schermo la qualità visiva e la composizione dei primi reels mostrati ad una platea pagante, con la paradossale impressione di vederli anche noi per la prima volta. È inoltre una piacevole sorpresa finale scoprire che furono proprio i Lumiére ad inventare il 3D, per quanto in una forma ancora da perfezionare…

 

Altro evento chiave è sicuramente la serata dedicata a Metropolis di Fritz Lang, in una copia recentemente ritrovata che risulta essere la più lunga esistente: 148’ di durata complessiva a 24 f/s. I nuovi inserti (circa 30’, da 16 mm) approfondiscono certi subplot che nelle versioni precedenti venivano trascurati: le aggiunte non intaccano la scorrevolezza e anzi accrescono la coerenza interna del testo donando nuova forza ad un classico che di forza ne ha sempre avuta in abbondanza.

 

Proiezioni rare e speciali legate dal tema dell’acqua sono quella dedicata a Boudu salvato dalle acque (1932) di Jean Renoir, preceduto da Il ruscello di Ripasottile (1941), inedito cortometraggio di Roberto Rossellini, e quella di Isole nella laguna (1948) di Luciano Emmer e Enrico Gras seguito dal divertentissimo La regina d’Africa (1951) di John Huston.

 

Restauri importantissimi sono poi quelli, per esempio, che vedono coinvolti i meno noti Confucius (1940) di Fei Mu, regista cinese per il quale la Cineteca di Bologna ha in serbo una retrospettiva nell’autunno del 2010; Atto di primavera (1963) di Manoel de Oliveira; la Trilogia di Maciste (1920) di Carlo Campogalliani; Federicus Rex (1922-24) di Arzén von Cserépy; Wara wara, pionieristico film boliviano del 1930 diretto da José Maria Velasco Maidana; La 317ème section (1965, Pierre Schoendoerffer), semisconosciuto apologo pacifista sull’esperienza bellica francese in Indocina.

 

Episodi salienti dell’edizione 2010,  le retrospettive su John Ford e Stanley Donen hanno avuto un grandissimo successo: l’ottantaseienne regista di Sciarada ha presentato alcune delle sue opere al pubblico del cinema Arlecchino e di Piazza Maggiore, in occasione della proiezione del cult Cantando sotto la pioggia, nella copia personale prestata da Martin Scorsese.

 

Per gli studiosi e gli amanti del cinema americano impossibile perdere anche un solo John Ford muto, dal momento che si tratta per lo più di film inediti e poco studiati (come anche i primi sonori, anch’essi presenti in programma), introdotti da Joseph McBride, biografo ufficiale ed esperto fordiano (tra i suoi lavori anche libri su Welles, Hawks, Huston, Capra, nonché collaborazioni con Joe Dante e ancora Orson Welles).

La ghiotta occasione permette di fare alcune considerazioni sulla carriera e sul carattere di questo personaggio: il percorso che emerge è una traiettoria circolare, che unisce i primi e gli ultimi lavori di uno dei padri del cinema tout court. Tratto comune a questi estremi è una forte malinconia, la consapevolezza della fine di un mondo che non può tornare e che (ri)vivrà, deformato, idealizzato, transustanziato, solo al cinema, e solo in quanto cinema, all’interno del corpus centrale della sua filmografia, fantasticheria che si prende gioco (o perlomeno non si cura) delle ideologie, del patriottismo, della correttezza (e che gli costerà tutte le accuse che gli sono state, imprudentemente, rivolte).

Si sfata quindi il mito di un regista in antitesi rispetto a giovani della New Hollywood quali Sam Peckinpah o Arthur Penn: certo, stilisticamente la distanza è siderale, ma semanticamente è la stessa partita, lo stesso sport, lo stesso campo da gioco. Si veda il frammento di The Last Outlaw (1919) per esempio, che nell’atmosfera elegiaca ricorda non poco L’ultimo buscadero (1972), o la posizione liberale di un film minore ma interessante come il leggero Up the River (1930), o ancora l’erotismo inatteso di The Brat (1931), che fa il verso a Cukor e anticipa certe inquietudini del Wilder di Frutto proibito (1942).

Capolavoro ingiustamente eclissato da The Iron Horse (1924) è 3 Bad Men (1926: è il suo ultimo western fino a Stagecoach, del 1939), variazione perfettamente eseguita su uno dei temi più ricorrenti nella sua filmografia: la redenzione di individui socialmente ai margini, ma nobili d’animo. Si legge tra la righe tutta l’avversione per le norme e le convenzioni che pregiudicano e limitano l’individuo: nasce forse da qui la costruzione dell’immagine /John Ford/ creata da Ford stesso. L’immagine di un duro, di un cowboy contemporaneo sempre pronto ad aggredire con intelligenza ogni intervistatore indiscreto o poco furbo. L’immagine di un regista che fa solo il suo lavoro, e lo fa solo per soldi. Un’immagine che non corrisponde alla realtà di uomo coltissimo e dolce rivelatasi agli amici più intimi, di artista incompreso in patria ma amato all’estero. Il Ford pubblico è una costruzione che trova le sue radici un meccanismo di difesa nei confronti del sistema, sempre pronto a giudicare; ma è anche il sintomo di un personalissimo metodo di autodisciplina con cui rimanere aggrappati alla concretezza del lavoro di regista (sempre costretto a scendere a patti con la produzione); un metodo di autodisciplina che pochi registi hanno avuto l’umiltà di adottare (tra questi, mi vengono in mente Mario Bava e John Carpenter), poiché “un artista, nel momento in cui inizia a chiamarsi tale, è finito”.

Grande umanità e disprezzo per la guerra trasudano dai toccanti Four Sons (1928), evidentemente influenzato dai lavori di Murnau, e Pilgrimage (1933), storia di un’anziana e gelosa donna che manda il figlio in guerra affinché non si possa sposare con la ragazza di cui è innamorato. La ragazza è incinta e il figlio muore combattendo: viene il momento del pellegrinaggio del titolo verso la Francia, insieme alle madri ti tanti giovani la cui vita fu spezzata durante il primo conflitto mondiale. La redenzione è però dietro l’angolo anche per l’anziana e rude signora…

 

Monica Dall’Asta e Mariann Lewinsky ci introducono nel mondo delle “donne avventurose del muto” (ricordiamo che il festival è stato preceduto dal convegno internazionale Women and the Silent Screen): spiccano, tra i 22 film presentati, La donna di domani (Zhenshchina zavtrashevo dnya, 1914) di Petr Cardynin, melodramma femminista estremamente inusuale per la Russia zarista, e Protéa (1913, Victorin-Hippolyte Jasset), sgangherato e divertente “film patriottico” interpretato dall’incontenibile e spericolata Josette Andriot, la prima donna “avventurosa” della storia del cinema, destinata ad aprire la strada a colleghe più famose come Pearl White.

Sempre Mariann Lewinsky cura i programmi di Cento anni fa, usuale e prezioso spazio dedicato ad opere europee che compiono un secolo d’età, e la prima rassegna su Albert Capellani, sottovalutato regista del cinema muto francese (la rassegna avrà probabilmente una continuazione l’anno prossimo, con i suoi film americani).

Il 1910 sembra segnare un passo importante verso una maggiore consapevolezza dei rapporti tra spazio e personaggi, sempre più coimplicati e dinamici: lo dimostra per esempio Le guardian de Camargue di Léonce Perret, che sembra anticipare i western successivi di Jean Durand.

Anche nel cinema di Capellani l’ambiente è un attore che conquista nella narrazione un ruolo di prim’ordine: si pensi al notevole La mariée du château maudit (1910), nel quale un innocente nascondino diviene l’occasione per una macabra scoperta. Dietro un luogo familiare, un terreno di gioco, si nasconde infatti un male antico e dimenticato.

 

Continua anche la sezione dedicata al colore nel cinema: oltre alla riproposizione di Senso (tra gli eventi principali dello scorso anno), in questa edizione giganteggia la nuova copia restaurata de Il gattopardo, ancora in grado di inchiodare alle sedie per più di tre ore una piazza gremita da migliaia di persone. Non smettono di emozionare, divertire, sorprendere i grandiosi Johnny Guitar di Nicholas Ray, Vento di terre lontane di Delmer Daves, Picnic di Logan, proiettati sullo spettacolare schermo panoramico del cinema Arlecchino.

 

Descrivere tutte le sezioni richiederebbe un fiume di parole (il catalogo conta più di duecentocinquanta pagine), ci basti allora nominare anche Napoli e il cinema d’immigrazione di Elena Correra e Luigi Virgolin, con un omaggio speciale a Enrico Caruso; la conclusione delle magnifiche retrospettive integrali su Federico Fellini (Dall’Italia alla luna) e Jean-Luc Godard (Compositore di cinema); il dossier di Cecilia Cenciarelli e Kevin Brownlow su Robert Florey, dimenticato regista di ottimi B-movie come il surreale The Beast with Five Fingers (1946); la sezione Anni difficili, sul cinema italiano ed europeo tra il 1945 e il 1949 (tra le pellicole mostrate vale la pena citare almeno Iris fiore del Nord di Alf Sjöberg, capolavoro mai visto di uno dei padri del cinema scandinavo il quale, ricordiamolo, ha “tenuto a battesimo” Ingmar Bergman, presente a sua volta con il poco noto L’adultera, del 1971); i dossier su Blasetti, Ciment, Labarthe e Douchet (questi ultimi due presenti alle proiezioni) chiudono lo straordinario programma del 2010. 

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