
Approdati finalmente alla nona edizione del
Future Film Festival tenutosi a Bologna, l’impatto è subito stato fresco,
sorprendente, innovativo: anche quest’anno infatti la manifestazione ha
inteso promuovere la cultura dell’animazione orientandosi più che mai verso
la sua recente deriva digitale. Merito prioritario quello di avvicinare un
pubblico variegato ed eterogeneo ad un cinema che dall’alveo delle nuove
tecnologie si accosta all’arte dando voce alle sperimentazioni più originali
sovente di non facile e immediata fruizione. Altro pregio, quello di dare
visibilità ad un considerevole apparato intertestuale attraverso l’analisi
dei Making of presentati da professionisti del settore (quello de
I Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma ad
esempio, ha visto l’intervento di Geoff Campbell della Industrial
Light & Magic, con un esilarante viaggio nei meandri dei più recenti
software di programmazione di grafica computerizzata), e poi incontri con
doppiatori, disegnatori, produttori e quanti lavorano nell’universo
orbitante questi gioiellini tra arte e tecne.
Per questa edizione, sottolineato anche dagli organizzatori Giulietta
Fara e Oscar Cosulich, si è preferito dare spazio anche
all’animazione meno battuta, oltre quella ormai tradizionale giapponese
sempre all’avanguardia nel settore, anche la produzione iraniana e cinese.
Omaggiare la cinematografia iraniana è gesto coraggioso e innovativo, sia
considerando la prolificità e la minuzia con cui questa produzione è stata
sempre trattata, sia visti i risultati sorprendenti della produzione
contemporanea supportata da numerosi istituti culturali quali il DEFC (Documentary
and Experimental Film Center) e la televisione Saba Center attiva nella
produzione di cortometraggi e serie animate. Nota distintiva di questi
apparati è la ricerca di contenuti spesso poco consoni a un pubblico di
giovanissimi e la volontà di coinvolgere invece un pubblico più adulto e
consapevole. Per esempio il corto
Zemzemeye hasti (Whisper
of
Existence) di Hassan
Zaryabi (Iran, 2006) è realizzato in animazione a disegno in bianco e
nero con inserti colorati, e racconta la storia collettiva dei cittadini di
una metropoli contemporanea alienati dalla solitudine, capaci di comunicare
unicamente attraverso l’aggraziata voce di un bambino. Esempio di animazione
computerizzata in 3D è stato invece
Aghazi Digar (Another
Beginning) di Maryam
Abozari, (Iran 2006), caratterizzato da suggestive quanto bizzarre
campiture di colori cangianti, fino a coprire con un unico rosso sangue la
tela animata. Infine citiamo anche l’esperimento di animazione in 2D,
Teke
Koucholo (A
Little
Piece) di Farnoush Abedi,
(Iran, 2004), in cui la ricerca dell’identità perduta è affidata
all’inorganico, un folle pezzetto rouge quasi unico depositario di una
deriva dell’esistente colta in tutte le sue forme più sfaccettate.

Ma gli esempi di animazione iraniana importati al FFF non terminano qui:
assistiamo anche alla proiezione di cortometraggi tratti dalla produzione
dell’Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e dei Ragazzi,
famoso in campo internazionale come Kanoon, nato in Iran a metà degli
anni Sessanta. Da subito Kanoon si è imposto come un centro di cultura e
produzione artistica e letteraria, nonché come il creatore di una Sezione
Cinematografica strutturata e competente, all’avanguardia sia per quanto
riguarda la fiction che l’animazione. La selezione fornita dal FFF
testimonia l’ampio spettro tecnico, artistico e tematico che la produzione
abbraccia, dai cortometraggi a pupazzi realizzati con la tecnica della
stop-motion, alla computer grafica, al disegno tradizionale utilizzato in
queste opere in modo molto creativo. Ricordiamo tra le altre:
Haft
Sciahr (The
Seven
Cities) di Ali
Akbar Sadeghi, Iran, 1971;
Zaal
and
Simogh di Ali Akbar
Sadeghi, Iran, 1977; Hekà-iat
scirin (The
Sweet Story) di Mohammad-Reza Abedi, Iran, 1995;
Màhieh ranghin kamàn (The
Rainbow Fish) di Farkondeh Torabi, Iran, 1996;
Shangoul
and Mangoul di
Farkondeh Torabi e Morteza Ahadi, Iran, 2000;
Bal-haieh
sepid (The
White-Winged)
di Abdollah Alimorad, Iran, 2003;
Parande-ieh
sokut (Bird
of
Silence) di Lisa
Jamileh Barjesteh, Iran, 2005. La cura dei particolari si unisce
alla sottile maestria delle storie, spesso tratte dalla letteratura locale o
da leggende e mitologie nazionali, spesso con intento didattico altre volte
intese come puro intrattenimento.

Anche la citata animazione cinese merita speciale menzione, vantando una fra
le più antiche scuole al mondo, vista e considerata la sua millenaria
tradizione iniziata a partire dal famoso teatro delle ombre per arrivare a
quello di marionette. In mostra il primo lungometraggio animato realizzato
in Asia: Tieshan gongzhu (La
principessa dal ventaglio di ferro), completato nel 1941 dopo tre
anni di lavorazione, che vide la collaborazione di ben 237 disegnatori. Dopo
il recente restauro ad opera della Fondazione Prada e la Biennale di
Venezia, il film mostra il monaco Tripitaka e lo Scimmiotto in cerca del
magico ventaglio di ferro capace di estreme prodezze naturali e di
sconfiggere i demoni malvagi. Il film si avvale di una storia avvincente e
risulta ricco di trovate visive prese direttamente dalla tecnica
d’animazione americana (cui si ispira, in particolare quella dello Studio
Flesher), come le chiusure ad iride e l’uso del rotoscopio per sottolineare
il movimento degli esseri umani non sempre fluido e bisognoso di uniformità.
Altra chicca imperdibile è stata la serie di cortometraggi nati in seno alla
Shangai Animation Film Studio, diretta dai gemelli Wan Laiming
e Wan Guchan. Interessante notare come questi prodotti seguano sia
l’evoluzione della tradizione pittorica cinese che quella letteraria, legata
stavolta alla trasposizione di proverbi popolari e classiche “perle” di
saggezza tramandate oralmente. Da ammirare la poesia lirica e grafica dei
cortometraggi di Te Wei, da
Xiao ketou zhao mama (I girini alla ricerca della mamma, 1960) a
Shan shui qing (Impressioni di
montagne e d’acqua, 1988) in cui si narra di un allievo che diventa
il depositario della preziosa eredità del suo maestro ormai giunto alla
morte. Trattasi di un elegante omaggio alla storia della pittura cinese,
nonché della raffinata sperimentazione di una tecnica che vede l’utilizzo di
acquerello e inchiostro su carta di gelso, ricavando le immagini attraverso
il controllo della pressione del pennello sulla carta. Le sfumature così
ottenute variano dalla più chiara alla più scura variazione, creando effetti
cromatici di elevata qualità e impressione visiva.

Altri doverosi omaggi sono stati rivolti dal Festival a Quino (Joaquìn
S. Lavado), artefice di note strisce comiche, vignette e ideatore di
personaggi unici nel loro genere, quali Mafalda, Felipe, Manolito, Susanita.
La prima vignetta risale al lontano 1954, mentre la nostra amica Mafalda
nasce esattamente dieci anni dopo, nel 1964 con lo scopo dichiarato di
pubblicizzare elettrodomestici. Si deve alla ditta in questione il merito di
aver rinunciato a quella icona, permettendo all’ideatore di riutilizzarla in
chiave fumettistica prima sul settimanale “Primera Plana” poi per “El Mundo”.
In Italia arriva nel ’69. Ma quando Quino incontra il regista di animazione
Juan Padròn a Cuba, tutto cambia e i celebri “Quinoscopi” diventano
animazioni intelligenti, base della futura serie di episodi (104 per
l’esattezza) prodotti in cartone animato dalla società spagnola D.G.
Producciones S.A. in coproduzione con Televisiones Espanolas. L’omaggio
dedicato qui al FFF ha mostrato principalmente la sua produzione di
animazione meno conosciuta.

Infine un’ultima menzione è stata dedicata alla Gamma Film, studio
milanese estremamente prolifico (in cui hanno militato i fratelli Gavioli)
la quale negli anni del Carosello vantava più di 150 disegnatori imponendosi
come una tra le più importanti società d’Europa. Suo merito quello di aver
ideato cortometraggi singolari per Carosello, caratterizzati da linee
marcate e personaggi impressivi da un punto di vista grafico, il che
garantiva il loro imporsi come “tipi”anche dopo una sola visione.
Ricordiamo: Ulisse e l’ombra
(1959), Caio Gregorio, er guardiano
der pretorio (1960), Il
vigile (1961), Babbut, Mammut
e Figliut (1962), Capitan
Trinchetto (1965),
Serafino
spazza
antennino (1966),
Tacabanda (1968),
Cimabue (1972).

In ultimo Paul Driessen, celebre animatore olandese che ha lavorato
in Yellow
Submarine, è stato
selezionato dal FFF 2007 per il suo stile inconfondibile, secco, primitivo,
reso fecondo come strumento neutro portavoce degli ingarbugliati labirinti
narrativi dei suoi corti. Vista la scarsa visibilità in Olanda, l’artista è
dovuto emigrare in Canada dove il suo stile è risultato subito convincente e
apprezzabile. Di lui menzionamo: The
Boy Who Saw an Icerberg (Garçon
qui a vu l’iceberg), Canada, 2000; The
End of the World in Four Seasons (Fin du monde en quatre saisons),
Canada, 2005; Elephantrio di
Paul Driessen, Graeme Ross, John Weldon, Canada, 1985;
The Same Old Story (Une histoire
comme une autre), Canada, 1981;
An Old box (Une vieille boite),
Canada, 1975, Air!, Canada,
1972; Le bleu perdu, Canada,
1972.
ANTEPRIME

ARTHUR AND THE INVISIBLES
Arthur e
il popolo dei minimei
di Luc Besson
Francia/Usa, 2006,102'

Tratto dai primi due volumi scritti da Luc Besson su un’idea di originale di
Cèline Garcia e illustrati dal marito Pattrice Garcia, già per altro
tradotti in 34 lingue, il film racconta la storia di Arthur, bimbo di 10
anni il quale, scomparso il nonno nel giardino di casa alla ricerca di un
inestimabile tesoro, decide di mettersi sulle sue tracce considerando
l’impellente confisca di quel terreno a beneficio di un classico usurpatore
intento a costruirci sopra un impianto edilizio. Con il nonno, Arthur
scoprirà l’esistenza del “popolo dei Minimei”, piccoli esseri (elfi)
microscopici che dalla notte dei tempi abitano le zone più recondite del
giardino di casa (il più giovane ha trecento anni..), i quali sono impegnati
nella lotta contro Maltazard, Signore del Male (il cui nome da solo porta
iella a chi lo pronuncia), dominatore dei reietti e mostruosi animali che a
volte la natura crea. La parte centrale del film, quella in cui Arthur entra
nel zona franca degli Elfi, vede la trasformazione del bambino in carne ed
ossa, in un microbo animato (la tecnica usata è l’animatic) e di lì in poi
animazione e realtà si alternano con spiccante maestria. Besson dimostra di
essere uno dei pochi registi europei in grado di pareggiare i kolossal
americani e trarne immensi profitti con risultati interessanti,
all’avanguardia nelle tecniche di animazione computerizzata. Il film vede
anche la recitazione della splendida nonna, Mia Farrow, e il doppiaggio di
personaggi molto cool, quali Madonna per la voce di Selenia, sensuale
principessa “Minimea” della veneranda età di mille anni (quindi
semplicemente adulta, come si definisce), e del grande David Bowie che
invece doppia Il signore el Male, Maltazard, dandogli un inconfondibile tono
di seducente cattiveria.
Un film fatto bene, per gli amanti del genere e per quanti inseguono le
superproduzioni griffate.
Voto: 27/30

THE UGLY DUCKLING AND ME!
Den
grimme aelling og mig
di Michael Hegner e Karsten Kiilerich
Francia/Germania/Irlanda/Regno Unito/Danimarca,
2006,90'

Attualizzazione della classica fiaba del brutto anatroccolo, il film è la
storia di Ugly, piccolo cigno nato brutto perché non riconosciuto da una
comunità di galline, il quale si accompagna ad un giovane, rampante topo
Ratso il cui unico scopo della vita è sfruttare come fenomeni da baraccone
piccoli animali resi ridicoli. Comincia con un verme, fino ad arrivare ad
Ugly: capiterà casualmente vicino al suo uovo ancora non dischiuso, e vedrà
nascere il piccolo mostriciattolo che lo chiamerà da subito “mammy”, e poi
dopo il malinteso, “daddy”. Così prende il via questo tenero quanto assurdo
bildungroman per piccoli che finirà col migliore degli happy ending.
La società danese A. Film A/S da tempo (1998) si occupa di film d’animazione
di qualità e ottima presa commerciale, collaborando anche alla produzione
francese Asterix e i Vichinghi, quella in animazione 3D del film Terkel in
Trouble, e l’animazione 2D per il lungometraggio El Cid-La leggenda. Il
lungometraggio in questione ha lo stesso nome della serie televisiva
prodotta dallo studio danese (26 episodi di 26 minuti), e questo ha permesso
ai due registi Michael Hegner e Karsten Kiilerich di risparmiare sui costi
impiegati per la realizzazione, grazie al fatto che la serie è stata
prodotta nello stesso periodo del lungometraggio, dimezzando in tal modo i
costi delle singole produzioni. La melanconia e la disillusione della fiaba
originaria di Andersen vengono qui superate dalla presenza del simpatico
topo Ratso, che con il suo humour e la sua miseria più umana che animalesca,
riesce a stemperare i toni di una storia sostanzialmente triste, di
alienazione e diversità, elementi comuni alle favole nordiche.
Voto: 28/30

BLACK JACK: FUTARI NO KUROI ISHA
THE TWO DOCTORS OF DARKNESS
di Tezuka Makoto
Giappone, 2005,95'

Black Jack è un personaggio ben conosciuto in Giappone, uno dei più famosi
manga partoriti dal grande demiurgo consacrato Tezuka Osamu. Il protagonista
è un chirurgo senza licenza il quale nacque nel lontano 1973 e che è stato
alla base della nascita di special animati e serie tv di 61 episodi. Il
figlio del demiurgo, Makoto, dà ora vita alla versione del manga in
lungometraggio, con un accento in più rispetto alla crudezza originale del
racconto, invisa alla prima visione televisiva, e con sperimentazioni
tecniche di estrema presa visiva, quali lo split-screen, musica jazz, mixati
con effetti degni del migliore cinema contemporaneo (vedi la straordinaria
esplosione). Il gusto retrò delle immagini ci riporta indietro nel tempo, ma
la presenza della nemesi del protagonista, il dr. Kiriko, la cui missione è
quella di metter fine al dolore umano attraverso l’eutanasia, ci riporta ad
oggi, mostrandoci problemi assolutamente allineati al dibattito
contemporaneo.
Il confronto tra i due protagonisti, si fa più duro quando sono trasportati
su di un’isola, dove le mutazioni genetiche hanno prodotto un nuovo virus
mortale..
Per intenditori.
Voto: 28/30

Reinassance
di Christian Volckman
Francia/Gran Bretagna/Lussemburgo, 2006,90'

ChristianVolckman, illustre sconosciuto, gioca la carta del calligrafismo
spinto, ed inserendosi nell’orbita epigonale di
Sin City (Frank Miller,
2005), confeziona un film visivamente elegantissimo: funambolico tour de
force visivo che coniuga la bidimensionalità della graphic novel alle
peripezie della motion capture (tecnologia che permette di tracciare i
movimenti degli attori associandoli a dei personaggi virtuali, ottenendo un
notevole grado di fluidità nei movimenti). Il contrasto fra il bianco e nero
è molto spinto, assimilando certe sequenze ai disegni a china. Il film non
manca di ritagliarsi delle nicchie di pura esibizione virtuosistica (gli
effetti della luce, i riflessi nell’acqua, le tute “d’invisibilità” che
emergono come sagome cangianti sullo sfondo…). Ciò che manca, al di là della
volontà di potenza illustrativa, in questo film-entità grafica è una storia,
una trama decente, delle idee, dei personaggi dotati di una psicologia
credibile. Ciò che manca è quel qualcosa che non sia stato ripescato da un
rimasticamento di cliché assai generalizzato. Questo film è tra i cursori di
una tendenza nociva nella contemporaneità, maelstrom d’attrazionalità ludica
e svuotamento diegetico che raccolgo sotto l’etichetta di “Playstation-cinema”.
Nel “Playstation-cinema” il cinema è un coefficiente secondario del
programma che tende all’autoperfezionamento, al miglioramento progressivo
dell’apparecchio (sto applicando al cinema le riflessioni sulla fotografia
di Vilém Flusser). Per questo quando sono uscito dalla sala ho pensato:
“Bellino, questo catalogo di effetti speciali!”
Voto:?

BARNYARD
IL CORTILE
di Steve Oedekerk
Usa/Germania, 2006,90'

Otis è una mucca senza troppi problemi che ama cantare, ballare e giocare
tiri mancini agli esseri umani. Suo padre (padre?? ma è una mucca!!) è il
rispettato patriarca della fattoria, mentre Otis si sente libero di
manifestare le doti fin troppo umane degli animali fino a quando, trovandosi
di fronte ad una cospicua responsabilità, si trova a rispondere per la prima
volta delle proprie azioni e comportarsi da vero leader.
Il regista Steve Oedekerk, che ha sceneggiato e diretto Jim Carrey in Ace
Ventura-Missione Africa, con Barnyard imbocca la via del cartoon dando vita
ad un film in cui i ruoli animale-essere umano sembrano del tutto
interscambiabili. I membri della fattoria infatti arrivano a fare le cose
più impensabili, guidano macchine, organizzano parties proprio come i nostri
teenager,e non sembrano affatto temere una eventuale reazione da parte del
fattore che manda avanti la baracca. Il pericolo vero e proprio è
rappresentato dal coyote, ancestrale cattivo pronto a fagocitare qualsiasi
cosa meglio se si tratta di galline e perché no, mucche impazzite.
Un film ben fatto, decisamente per i più piccoli.
Voto: 25/30

CHARLOTTE’S WEB
LA TELA DI CARLOTTA
di Gary Winick
Usa, 2006, 97'

La stramba quanto improbabile amicizia sbocciata tra un maialino rosa,
Wilbur, e un ragno nero di nome Charlotte, porterà i due protagonisti non
solo a creare forti legami con tutta l’allegra combriccola animalesca
circostante, ma riuscirà a risultare tattica vincente nel momento in cui
permetterà a Wilbur di sfuggire ad una atroce macellazione.
In linea tematica con Barnyard di Steve Oedekerk, entrambi sviluppano trame
di animali in fuga dalla cieca crudeltà di uomini o di altre bestie simili,
i due film americani risultano imparentati più in profondità tanto da essere
definibili “cugini”. Nel film di Oedekerk infatti, il povero agricoltore,
tramortito dagli animali perché colpevole di sapere troppo, è messo sotto un
albero con un libro tra le mani in modo che al suo risveglio possa
immaginare di aver vissuto solo un sogno: il libro in questione è Charlotte’s
Web. Il che ci mostra visibilmente non solo l’intertestualità dei due film,
ma anche la popolarità di cui gode la storia de La Tela di Carlotta di E.B.
White, illustrato da Garth Williams. Intravediamo anche una versione
riveduta e corretta del maialino Babe, portata allo schermo dall’australiano
George Miller, i cui animai hanno le voci di tipi come Julia Roberts, Steve
Buscemi, John Cleese e Robert Redford.
Voto: 26/30
EVENTI

ELEPHANTS DREAM
di Bassam Kurdali
Paesi Bassi, 2006, 10'

Elephants Dream è il primo
cortometraggio d’animazione creato in open sorce, ovvero prodotto
interamente con un programma di grafica 3D, Blender, che permette la libera
condivisione dei file di produzione on line, grazie ad una licenza creative
commons. A monte del progetto è la Blender Foundation, società olandese la
quale ha sviluppato l’omonimo programma utilizzabile anche per giochi
interattivi, effetti speciali, web design, architettura. Il progetto, durato
tre anni, ha l’obiettivo principale di far collaborare programmatori e
artisti col fine ultimo di costruire tools aperti e modificabili da
qualsiasi postazione e in qualunque momento: il risultato è un’opera open,
continuamnente in progress, cui tutti possono collaborare apportando i
cambiamenti che ritengono necessari. Blender Foundation è in associazione
con Montevideo, e con esso ha costituito un nucleo operativo denominato
Orange Open Movie Project Studio di Amsterdam, unendo artisti provenienti da
tutto il mondo, finanziati dagli stessi utenti di internet (attraverso la
vendita di dvd via web). Il film, come le note di produzione, i making of,
sono fruibili (visibili, scaricabili, modificabili) su internet garantendo
un’effettiva interattività che oggi si presenta come base della tecnologia
del futuro, non più sottomessa ai poteri incontrastati degli unici
dententori dei diritti di proprietà su ciò che il web contiene.
Tralasciando i motivi tecnici, il cortometraggio è estremamente godibile e
raffinato: Proof ed Emo vivono in un mondo creato dalla mente del più
vecchio, il primo, il quale si è costruito uno spazio vitale personale,
isolato dal resto del pianeta, e in cui vuole trascinare forzatamente anche
il più giovane Emo. Il problema centrale rimane la volontà di condividere il
reale con qualcun altro: da un lato la storia dà adito ad una non banale
riflessione filosofica (condizione dell’essere umano, ovvero costruisco il
mondo in cui vivo dunque sono, una sorta di cogito cartesiano nel futuro),
dall’altro indaga la questione dal punto di vista del pubblico (fruitore)
che trova difficoltà, a causa anche di dialoghi esigui, nel comprendere cosa
è vero e cosa no, e soprattutto chi l’ha prodotto.
Ottima interazione di teoria tecnica (opens sorce) e risultato semantico
(trama e contenuti della storia).
Voto: 30/30
Bologna, 24:01:2007 |