
anteprima
GUIDA GALATTICA PER AUTOSTOPPISTI
(The
Hitchhiker's guide to the galaxy)
di Garth Jennings
(USA/UK, 2005, 110')
Avete presente quelle mattine in cui ci si sveglia e va tutto storto? Dalla
sveglia assordante ai toast bruciati all’ennesima capocciata ad un muro
troppo basso? Immaginate ora di uscire dalla porta e trovare una ruspa
gigante ed un ordine di demolizione della vostra casa che malauguratamente
sorge sul percorso di costruzione di una nuova tangenziale. Bene, tutto
sommato non è nulla di così rilevante, soprattutto se il vostro migliore
amico vi annuncia di provenire da un altro pianeta e vi porta a scolarvi la
vostra ultima birra perché tra pochi minuti il pianeta terra sarà
polverizzato. Inizia così il viaggio di Arthur Dent attraverso le galassie:
vestito di un accappatoio e munito di un indispensabile asciugamano - sempre
utile per un viaggetto nel cosmo - si mette a fare l’autostoppista
interspaziale con l’amico marziano Ford Prefect, viene caricato da
un’astronave che viaggia con una propulsione “ad alto grado di
improbabilità”, dove incontra la deliziosa e annoiata Trisha-Trillian,
corteggiata sul fu pianeta Terra ad una festa in maschera, fuggita poi con
il capitano stesso della astronave nonché presidente di tutte le galassie
Zaphod Beeblebrox, bello senza cervello e fratello di sangue di Ford. Una
selva di personaggi, situazioni, eventi, incontri. Zaphod vuole raggiungere
Magrathea, il pianeta sul quale il Grande Cervello ha elaborato la risposta
alla fondamentale domanda “sulla vita l’universo e tutto quanto”. Zaphod
cerca la domanda- più importante dell’enigmatica risposta- per soldi, Ford
si adatta ad ogni situazione, Trisha vuole muoversi, vedere, viaggiare,
scoprire, lanciarsi all’ignoto, Arthur vuole solo una tazza di thè e l’amore
di Trisha. Dopo viaggi mirabolanti nello spazio in compagnia del robot
depresso Marvin ( personaggio delizioso!) i quattro approdano a Magrathea e
raggiungono il Grande Cervello, un desolante testone monolitico a forma di
monitor, il mento poggiato su due sottilissime braccia di pietra. Che non ha
elaborato la domanda ultima perché impegnato a guardare la tv. Arthur
incontra Slartibartfast, il creatore, che ha conservato un file di backup
della Terra. Ma dopo aver rivisto i luoghi a lui noti alla fine Arthur
scoprirà che è più divertente scorazzare per l’universo ed abbandonare una
volta per tutte false e stupide certezze, fragili e transitorie come un muro
che si sgretoli sotto alla pressione di un bulldozer. Satira graffiante sul
relativismo di ogni certezza o presunta grandezza terrestre, la
Guida galattica è un film
divertentissimo e irriverente. Ma lo dico da profana, non facendo parte
della schiera di cultori della saga di Adams, non avendo mai letto i suoi
libri. Alla ricerca di conferme alle mie impressioni di spettatrice
entusiasta mi sono imbattuta in stroncature pesanti di un film che pare
tradire totalmente il sacro testo, demolendone le parti più divertenti,
sostituendone le battute con dialoghi banali e sciapi. Resto fedele al mio
entusiasmo però. Il film è spassosissimo, intelligente, ironico. Si fa beffe
di tutto e tutti, politica religione potere burocrazia letteratura
quotidianità amore: tutto disintegrato sotto i colpi di uno sguardo
irriverente e sardonico, tutto ribaltato e scrutato da cento mille punti di
vista come in una prospettiva cubista. L’unica certezza? Non esiste nessuna
visione certa, nessun punto di vista che offra consolanti risposte.
Fulminante il siparietto all’inizio del film, che già fa capire che tipo di
viaggio si stia intraprendendo. Credete che i delfini che saltano gioiosi
sotto i vostri occhi in un lucido acquario, ai quali dispensate sorridenti
pesciolini per nutrirli, siano uno spettacolo consolante ed idillico? Niente
affatto: vi stanno avvertendo, andatevene terrestri, il vostro pianeta è
marcio. Restate lì? Beh, noi si parte…. Tanti saluti e grazie per il pesce!
Voto: 30/30

BOLA DE NIEVE
di Pablo VILLASEÑOR
(Spagna/Cuba/Messico, 2003, 75')
Ancora una volta - e negli occhi abbiamo ancora la poesia del Buena Vista
Social Club wendersiano amato alla follia - un viaggio alla scoperta
dell’isola cubana sulle note di un pianoforte, quasi non esistesse davvero
altro modo di afferrare Cuba, di raccontare Cuba se non attraverso
l’ineffabile voce della musica, quasi non ci fossero altri contorni
possibili che ne possano marcare l’incanto e la miseria, la gioia e
l’oppressione, le eterne irrisolte contraddizioni. Non le note malinconiche
e struggenti del son ma la vitalità dei ritmi afrocubani, il martellare
delle dita sui tasti di un pianoforte trasformato in percussione sotto le
dita di Ignacio Villa - Bola de Nieve. Musicista osannato, amato da artisti
intellettuali scrittori - come ci testimonia un biglietto di Pablo Neruda
mostrato orgogliosamente dalla sorella. L’incanto della sua musica rivive
attraverso immagini di repertorio, attraverso la narrazione sua e di coloro
che ebbero la fortuna di incontrarlo, di lavorare con lui, di rimanere
incantati da uno straordinario talento quasi confessato sotto voce per paura
di esser tacciato di superbia. Bola de Nieve, sorriso largo e corpo enorme
in contrasto con la sua voce sottile e timida, rivoluzionario, omosessuale,
nero: il documentario di Pablo Villasenor ce ne mostra nascita, vita, morte,
camminando con la macchina da presa nelle strade affollate di ninos alla
ricerca delle sue tracce, attraverso filmati d’epoca, attraverso le
interviste a familiari e amici che ne ricostruiscono lo straordinario
percorso artistico e umano.
Voto: 26/30

DANILO DOLCI MEMORIA E UTOPIA
di Alberto Castiglione
(Italia, 2004, 57')
Se questo festival ha un merito enorme, al di là della qualità più o meno
alta delle singole pellicole, è quello di avere offerto la possibilità di
riscoprire persone e personaggi che per i motivi più disparati, magari solo
anagrafici, non facevano parte della nostra memoria e del nostro patrimonio
di informazioni. Accade così per la straordinaria figura tratteggiata da
questo documentario del giovane regista palermitano Alberto Castiglione.
Danilo Dolci è un nome che nella maggior parte dei giovani non evoca nessun
ricordo: eppure, leggiamo nelle poche righe di presentazione, fu definito il
Ghandi italiano, candidato per tre volte al premio Nobel per la pace che mai
vinse, molto plausibilmente per la tenace opposizione di alcuni partiti
particolarmente potenti all’epoca dei fatti (parliamo degli anni tra il ’50
e il ’70) come il partito socialista per il quale Dolci era personaggio
scomodo. Chi era dunque costui? I trafiletti di giornale che la cinepresa
inquadra lo definiscono di volta in volta “l’agitatore”, “lo
scrittore-apostolo”, più genericamente l’intellettuale. Uomo che dal nord
dopo una breve vacanza in Sicilia fu folgorato non tanto dalla bellezza dei
luoghi quanto dallo stato di miseria desolante e priva di speranza dei
luoghi dell’interno gravitanti attorno alla Valle del Belice, villaggi di
uomini imbruttiti dalla fame e dalla necessità, dalla povertà e dalla
disoccupazione, dalla mancanza delle minime condizioni igieniche, dalle
discariche a cielo aperto. Uomo che si propose una missione: condurre
battaglie di civiltà promuovendo una presa di coscienza da parte di “poveri
cristi” ormai rassegnati alle loro miserie come fatto ineluttabile. Spingere
quelle popolazioni oppresse al riscatto, far capire loro che avevano il
diritto di chiedere ad uno stato assente lavoro, pulizia, cibo, dighe,
speranze per un futuro migliore. Fece scioperi della fame, promosse uno
scandaloso “sciopero al contrario”, portando centinaia di disoccupati a
lavorare la terra, fu arrestato, processato, amato e odiato come un padre
premuroso ma inflessibile ed autoritario nel perseguire i suoi scopi. Fece
costruire una scuola nella quale i bambini imparassero a dire i loro sogni,
e a costruire il percorso per realizzarli. Non ebbe timore di denunciare
senza mezze parole personaggi potenti collusi con quello stato nello stato
che è la mafia. E’, lo diciamo al presente, anche se pare calato il silenzio
su di essa: siamo abbastanza adulti e smaliziati da capire che
l’informazione fa esistere ciò che vuole, ma che l’assenza e i silenzi sono
colmi di atrocità, che le guerre e i crimini esistono anche se rimangono
fuori dallo schermo a sedici pollici del nostro salotto. Un ottimo
documentario, girato con il rispetto e la devozione che inevitabilmente
suscita la coerenza di una vita spesa al servizio della giustizia sociale,
del riscatto della massa. Che è fatta di individui, giova ricordarlo. Non
meno miseri né meno schiavi e oppressi oggi, nonostante tutti si abbia un
cellulare e una macchina….
Voto: 28/30

anteprima
TU CHIAMAMI PETER
(THE LIFE AND DEATH OF PETER SELLERS)
di Stephen Hopkins
(USA/UK, 2004,122')
“Quello che state per vedere è un film brutto” dice Romeo spendendo poche
parole prima della proiezione. E l’annuncio non è certo uno dei più
confortanti dato che ci aspettano 122 minuti di pellicola. In realtà
l’impressione che si ha quando scorrono i titoli di coda è di non riuscire a
darne una definizione. E’ un film che si propone un obiettivo smisurato:
raccontare un’esistenza straordinaria come può essere quella di un mito come
Sellers. Raccontarne cinematograficamente il lato umano e realisticamente
quello artistico. Raccontare l’esistenza di un uomo privo di un contorno,
esistente soltanto nei panni irreali di personaggio. L’uomo Sellers privo di
cuore, privo di sensibilità, uomo-bambino eternamente nelle braccia
dell’enorme madre, che distrugge a calci i giochi di suo figlio, che
candidamente confessa alla figlia di volerle bene, sì, ma non tanto quanto
ne vuole a Sophia Loren. L’attore straordinario e talentuoso, dapprima
snobbato per la scarsa avvenenza poi osannato per il suo istrionismo, le sue
doti di improvvisatore. Il Dottor Stranamore, l’uomo dai mille volti cui si
aggrappa anche fuori dal set per conservare una consistenza, una qualsiasi
forma di cui è privo una volta tolto il trucco di scena. L’unica maniera di
vivere per non soccombere alla propria inconsistenza, per non dover fare i
conti con essa, è quella di entrare nei panni altrui. Non solo in quelli dei
suoi personaggi, ma in quelli delle persone che lo circondano, specie di chi
lo ha messo al mondo, realmente o cinematograficamente. E Sellers è suo
padre, sua madre, Sellers è Blake Edwards, amato e odiato, in un perenne
stridere di sentimenti, intrappolato in un’emotività senza freni, convinto
che tutto gli sia concesso non per presunzione o superbia, ma perché un
bambino deve essere al centro del mondo, perché le sue esigenze devono
essere soddisfatte, perché ad un bambino tutto si può perdonare. Geoffrey
Rush è bravo nel prestare il suo corpo e il suo volto a Sellers, a
restituirne movenze e smorfie, a costruirne una maschera tragica nella sua
fragilità immensa di uomo. Le due ore del film scorrono, non si può dire
sempre piacevolmente ma scorrono. Ci sono smaccate esagerazioni, una
biografia dovrebbe forse avere almeno in parte il sapore della quotidianità,
della banalità. Qui tutto è finzione, tutto è grandeur, dalle case
alla bellezza delle donne ai dialoghi sempre sopra le righe agli scatti
d’ira, ma forse è un gioco voluto. Tutti i personaggi sono esagerati,
caricati, tutti recitano il loro ruolo nel film della vita di Peter: Edwards
con la sua stazza e i suoi occhialoni da sole, la Loren divissima e
ammiccante, perpetuamente inguainata in abiti da gran sera, Kubrick
tenebroso e inquieto, Britt Ekland algida e bellissima. Tutti incarnano alla
perfezione il loro personaggio, quello che il filtro dello schermo ci ha
lasciato, come un precipitato chimico. Nessuno è persona, carne e ossa,
tutti sono fantasmi, tutti hanno la consistenza di ombre cinematografiche.
In questo senso il film è riuscito. Ma non ci chiedete un voto perché non lo
sapremmo dare. Bello, brutto, riuscito o meno? Se come è annunciato da tempo
il film uscirà nelle sale italiane lasciamo a chi lo andrà a vedere
l’ingrato compito di definirlo. E una volta che ci sarete riusciti, fatecelo
sapere.
Voto:? |