biennale college
danza 2013

 

Venezia, 28 - 30 giugno

 

abitare il mondo
atleta donna

di Gabriele FRANCIONI

28/30

ATLETA DONNA mette in gioco il corpo di alcune danzatrici che diventano pesci in un acquario di aria performativa, oggettificandosi , facendosi artworks da osservare con il voyeurismo partecipativo della città, dove la

01: parete trasparente di una TECA funge da lente d’ingrandimento, chiama ad un avvicinamento per l’osservazione della strana specie in essa contenuta e,  per certi versi, sembra l’antitesi di un vero scambio con l’ hic et nunc.

A uno sguardo attento, invece, la scelta della teca da una parte avvicina lo spazio della danza a quello delle arti visive e alla performance art in particolare, segnando un punto di contatto e allo stesso tempo di distanza col decennio di riferimento, gli Anni Settanta.

Performance Art e Partecipazione sono concetti che derivano direttamente da quel decennio, ma è fondamentale declinarli con la consapevolezza del tempo che è andato stratificando da allora e che crea fisicamente una barriera –la parete della teca- da intendere, benevolmente, come la seconda pelle di cui parla Sieni e, con un po’ di cattiveria, come il doppio di tutti i display e monitor davanti ai quali viviamo osservando.

L’ Invisible Box è computer, tv, moltiplicatore di pelle, quindi di distanza: non tocchiamo le performer, la loro sofferenza e consunzione fisica lungo 3 ore di movimento sono virtualmente intese dalle decine di peeping tom posti fuori rispetto al cubo. Non è un caso che, un mese fa, l’inizio di Biennale Arte sia stato celebrato, anch’ esso, con l’imprigionamento in teca dell’ inarrivabile, intoccabile corpo di Milla Jovovich (evento: Future Perfect).

A noi sembra coerente iniziare così, agganciati dolcemente allo zeitgeist, pur senza malinconia, perché è corretto intendere la condivisione come qualcosa che inizia innanzitutto col ciacolare del commento post-evento, piuttosto che esaurirsi nella con-fusione con i performer, come sarebbe avvenuto, forse, trent’anni fa a palco aperto. La teca con danzatrici è il primo passo per portarsi a casa nuove nozioni ed eventualmente lì approfondirle, STUDIANDO. Così come hanno dovuto fare, anche senza stress e ritmi da professioniste, le madri e le figlie di Agorà.

Altrettanto  importante è il

02: SUONO che arreda lo spazio interno, prodotto da ipod, radioline, microfoni che amplificano il respiro o la voce delle donne. E’ un modo per misurare lo sforzo, per dargli un ritmo, una sceneggiatura e, da ultimo, un conforto attraverso il semplice accompagnamento.

03: Lo scorrere del TEMPO lungo un arco di tre ore, poi, è il motore , la ragione del sacrificio rituale che si compie davanti ai nostri occhi: la danzatrice deve morire per la comunità, all’inizio della nuova stagione. In senso più ampio, è l’ arte in crisi che compie sacrifizi per tornare ad antichi(ssimi) splendori. Coreuticamente parlando, il tempo è l’asse infinito su cui si dispongono corpo-mente-anima dei ballerini, destinati a non smettere mai di danzare, vuoi per la necessità di provare SEMPRE, sino a diventare essi stessi gesto e movimento, sia per abbattere i confini dell’ età. Le 3 ore in realtà sono un tempo illimitato.

A – IRIS EREZ.

S’inizia con ISRAELE, il 28:06:2013: Iris Erez, danzatrice israeliana indipendente, collaboratrice di numerosi coreografi tra cui Yasmeen Godder, nella cui compagnia è rimasta per sette anni, punta sulla solitudine dentro alla teca, che non avrebbe voluto. Rompe quella pelle facendovi entrare il figlio, accolto nuovamente nel ventre materno, di cui sfonda la seconda pelle. Mangiano un gelato e, quando lui esce, la Erez continua a chiedergli segni lasciati sulla parete calda o la sua semplice presenza, che sia compagnia o asse spaziale di riferimento. Performance a due, insomma, o, almeno, 1 + 1. Non a caso l’israeliana portò in Italia -un paio di anni fa- lo spettacolo “Homesick”, dove si trattava di nostalgia di casa, di una patria, di una dimora. Il suo corpo lungo ma non esile s’impenna in verticali improvvise e si distende potentemente a formare angoli a 45°, mentre racconta le prove della danza, quindi si adagia, raccolto nell’ascolto della musica proveniente dall’ ipod, per prodursi infine in una danza tribale. Siamo nei territori di un’ ipnotica dance therapy. Il pubblico cresce sino a oltre metà performance, all’incrocio tra Viale e Via Garibaldi -cuore della Venezia popolare- nonostante il caldo e l’afa.

B – NORA CHIPAUMIRE.

29 giugno. La danzatrice di colore ottiene un grande successo e sopravvive allo sforzo prolungato grazie al cono d’ombra di Santo Stefano, zona padiglione azero, in cui è collocata la sua invisible box. Bellissima e centrale, nell’economia della performance, la banda sonora, vera e propria traccia per un racconto danzato: sono i ricordi, presumiamo reali, di una giovane donna, che prendono la forma acustica di uno script elaborato, privo di vere e proprie pause, ma con un ritmo ben definito, al quale la performer si adegua con naturalezza e precisione. Rispetto alle altre “atlete”, Chipaumire sembra voler esporre maggiormente il martirio fisico, lasciando tracce, quasi calchi di sudore sul piano orizzontale. La coreografa e danzatrice, nota per il lavoro crossover tra la matrice afro-tribale dello Zimbabwe nativo e i movimenti della contemporaneità, appresi nei corsi in Jamaica, Cuba e Stati Uniti (si veda “Miriam”), lascia al testo narrato il compito di parlare di una donna, quindi di tutte le donne.

La sua resistenza danzata è in realtà un contrappunto alle emozioni del testo, alle immagini evocate e alla semplice scansione delle parole. Accettata più di buon grado, rispetto alla Erez, la seconda pelle in plastica, Nora la oltrepassa continuando a sorridere al pubblico, “commentando” solo con lo sguardo i propri micro-cedimenti fisici e il flusso  raccontativo. Chipaumire, membro fisso della compagnia newyorchese “Urban Bush Women” e protagonista del “Movement ®Evolution Africa”, dà significativamente più spazio alla dichiarazione-manifesto/testo che alla coreografia, decidendo che il fattore TEMPO va interpretato stando in ascolto di quello, attendendo il suo lento passare (3 ore…), piuttosto che sovraffollandolo di gesti e posture, che ci sono, certo, ma disegnano statue corporee e movimenti congelati, piuttosto che fluidi, continui.

C/D - SIMONA BERTOZZI/ CRISTINA RIZZO.

30 e 29 giugno, Campo S.Angelo. Rizzo e Bertozzi scelgono di mostrare il corpo che si allena e lasciano meno spazio alle pause sospese. Sono senza tempo e senza età, di una bellezza trascendente la fisicità prosciugata che (ci) mostrano. Il suono, la musica sono l’accompagnamento quotidiano, laterale rispetto alla centralità del rehearsal. Sembra sempre che stia per succedere qualcosa –e in effetti ogni tanto ci regalano la straordinaria plasticità istantanea di posture impossibili, stretchando i muscoli con grazia tesa. Assistiamo al rito sacrificale del danzatore, che s’immola in nome di una corporeità non ulteriormente perfettibile e per il quale la prova è parte stessa dello spettacolo, momento essenziale di un tutto che si compie solo il giorno della messa in scena (di muscoli e ossa). Spezzata da questo continuum, la prova diventa una dimostrazione di forza, con sguardo segreto aperto –il nostro- su qualcosa di assolutamente intimo. Ecco allora che, per Rizzo e Bertozzi, l’oggettificazione vale meno che per Erez e Chipaumire. Il performer non è lavoro d’arte dentro un contenitore, ma qualcosa che fa a meno di esso, riducendo la teatralità dei tempi lenti nella naturale e sciolta velocità di un allenamento quotidiano.

E - ELEANOR BAUER.

Come Chipaumire anche Bauer ha la sua ipnotica colonna sonora di testo che si fa racconto, esile trama eterea contrapposta a una fisicità molto presente, sottolineata da una sgargiante camicia rossa e fuseaux arcobaleno, zuppi di sudore, traccianti strisce di liquido sul pavimento della teca in Campo Santo Stefano, il 30 giugno.



SITO UFFICIALE

 

biennale college
danza 2013

Venezia, 28 / 30 giugno 2013