biennale danza 2012

biblioteca del corpo

 

Teatro Piccolo Arsenale, Venezia

 

di Gabriele FRANCIONI

30/30

In transizione da Eterotopia a Ou-topia

L’arte coreografica di Ismael Ivo ha molto a che fare con Borges (o Thomas Moore, Campanella, Agostino) e Foucault,nel senso che  da essi fa derivare la propria natura allo stesso tempo Ou-topica ed Eterotopica.Utopia sia nell’accezione di caos accumulativo, quindi Borges, sia in quella di luogo perfetto (città del sole, civitas dei,etc). Più semplicemente, e soprattutto sul piano pratico e nient’affatto teorico, Ivo letteralmente convoca, con Arsenale della Danza, forze espressive provenienti da ogni parte del mondo sotto forma di ballerini in fasce, allo scopo di ricollocarli nella Eterotopia dei workshop - luoghi altri, staccati dal flusso temporale,un po’ convento un po’ caserma un po’ collegio,quindi foucaultianamente corretti e intesi come enclaves in cui si compie il loro coming of age, il processo di formazione del singolo fuori dalla società degli uomini.

Le interviste visibili su “Quarto Palcoscenico” (e qui) e il nostro incontro diretto con alcune danzatrici - Leilane Telles e Paula Sousa, a breve su Kinematrix - restituiscono l’immagine sorprendente di giovani completamente trasformati dal prima-laboratori al dopo-Arsenale.

Arianna Henry, statunitense (una tra le migliori performer nella BIBLIOTECA), dice: “I’ve done things here that I’d never done before in my whole life…”.

I bailarinos, come li chiama il Direttore, sono dunque entrati, durante i quattro mesi di stage, in uno stato di grazia e ora appaiono, a tutti gli effetti, degli Iniziati. Con  MOVING THE CITY Ismael Ivo ha cominciato a restituirli progressivamente alla societas (partendo dalla città), la quale, dopo la tournée di B.D.C., potrà assumere le sembianze di spazio culturale disordinato, meramente accumulativo e poco accogliente o quelle di luogo perfetto, se qualche importante compagnia straniera, ad esempio, dovesse accogliere tra le proprie fila alcuni alunni del maestro brasiliano, come successo in altre occasioni.

Quello che è certo, dopo quattro stagioni di Arsenale della Danza, è che l’esperienza veneziana segna irreversibilmente i tragitti professionali e personali dei giovani danzatori selezionati. 

There’s no turning back, quindi, nello spostamento dall’eterotopia dei workshop all’ou-topia  del dopo.

 

 

 

A waste land of Books.

Mai come quest’anno la coreografia di Ivo riflette caleidoscopicamente le influenze e le linee di forza espressive provenienti dai workshop del periodo gennaio/maggio.

I laboratori di Frucek, Harper, ma anche di Murobushi e Klunchun, hanno lasciato il segno e si possono intravvedere tracce di ognuno in diverse parti della messa in scena.

Mai come quest’anno, poi, l’approccio sintetico e sincretico del direttore trova una summa plastica quasi tangibile, oltre che visibile, della propria variegata matrice culturale,  al punto da trasformare l’installazione concettuale - com’è stata definita - in un luogo d’incontro formale dei territori percorsi in passato.

Creando un’interpolazione tra  espressionismo deutsche  e interiorizzazione giapponese, da una parte, e tra danza contemporanea e tradizione popolare afro-brasiliana, dall’altra, Ivo si spinge ai limiti della propria sperimentazione. Le diverse anime iviane s’incontrano e scontrano continuamente durante la BIBLIOTECA, decidendo di non congelarsi in una morfè finale definita, ma di restare sospese a mezz’aria nella Biblio-Babele di quest’anno.

Forse l’Ou-topia cui accennavamo è anche quella - voluta, assolutamente intenzionale- del brasiliano, che, chiedendo ai danzatori fattisi libri di esprimere la propria unicità (ciascuno dotato di vocabolario proprio, quindi di una lingua di segni coreografici specifici) e contemporaneamente di liberarsi da essa per far parte della grande enciclopedia umana, di fatto li sospende in un meraviglioso non-luogo in cui conta più l’essere in transizione dello stadio finale, il rito di passaggio ripetuto all’infinito piuttosto che uno stato di coscienza immutabile.

Lo svuotamento interiore piuttosto che l’accoglimento del demone dentro di sé o l’accoglimento di tutti i demoni, gli Orixàs che la cultura di ciascuno detta. Sta di fatto che, a conferma della passione del direttore sia per il melange linguistico che per la sua catalogazione - operazione apparentemente ossimorica - BIBLIOTECA DEL CORPO crea un cortocircuito di linguaggi al centro del quale sembra riapparire THE WASTE LAND (2009), talvolta attraverso una sorta di self-quoting, in forma astratta e sottratta alla tematica specifica di quello spettacolo.

 

 

Usando i corpi per scrivere lettere, parole e frasi dentro e fuori(da)gli scaffali della scenografia a celle, che richiama ovviamente una biblioteca, ma anche i cilindri di WASTE LAND, e lasciando cadere il vetro che divide i libri danzanti dal mondo reale che gli sta davanti (allora avevamo la cascata oleosa di liquido nero che nel 2009 chiudeva la coreografia), si attua una riscrittura del testo che, nel suo essere eterno ritorno dell’identico, privilegia lo scheletro, la generalizzazione teorica alla contestualizzazione tematica.

Nell’arco di quattro anni, in definitiva, passiamo dall’ecosistema al puro sistema di segni.

Come già anticipato dal BABILONIA del 2011, Ivo sembra voler tornare, dopo il dittico “Land/Oxygen” (terra-aria), a un’impostazione più teorizzante e a una materia espressiva che risalga fino all’origine del senso, prima della sua formalizzazione. Se i primi due spettacoli proponevano una chiara similitudine oppositiva tra gli Elementi, e da essi non poteva prescindere (pesantezza/levità dei movimenti), la coppia BABELE-BIBLIOTECA (2011-2012) fa leva sulla totalità dei movimenti coreografici, attraversati prima in fase stocastica e ora ordinata.

La specularità oppositiva rispetto a BABILONIA - i libri come accumulo di lingue e segni collocati sullo scaffale ideale della conoscenza, l’ordine dopo il caos - è però solo apparente.

Ivo scopre infatti come tali testi, una volta aperti, non sono che sequenze o successioni di caratteri senza ordine, in tutte le possibili combinazioni. Come voleva Borges ne Il giardino dei sentieri che si biforcano, da cui è tratto La biblioteca de Babel (1941). Il coreografo brasiliano sa benissimo che questa non è una scoperta inattesa, ma, all’opposto, una sua enunciazione e una dichiarazione d’intenti. Non esiste alcuna possibilità di catalogazione definitiva, sembra dirci, ma solo il tentativo di continua, indefessa sistemazione e conseguente ridefinizione del logos coreografico - i libri/danzatori che cadono dagli scaffali e ivi risalgono più volte - che si autoscrive in aria o a terra (le fibrillazioni delle dita dei piedi sollevati o i frenetici segmenti di un quasi-candomblè ritmatissimo). L’ispirazione letteraria sudamericana torna ancora una volta.

Dopo i molteplici Garcia-Marquez del passato, inclusa l’“Erendira” veneziana, ecco Borges, cui immediatamente viene però contrapposto l’europeissimo Ligeti, qui di kubrickiana memoria: oltre a “Seme Etude Astrale” di Ivan Fedele e ad alcuni segmenti da “The best of Kodo”, segnatamente la splendida “Monochrome”, viene utilizzato proprio il Kyrie tratto dal “Requiem” di Gyorgy Ligeti, che in “Space Odissey” accompagnava icasticamente l’entrata in campo del monolito e qui arriva alla fine del quadro ideogrammatico cinese, mentre i ballerini/libri sono rientrati negli scaffali e da lì osservano la scena.

 

 

Createmi una frase contro il muro.

Lo spettacolo si sviluppa attraverso quadri molto chiari e una costruzione coreografico-drammaturgica simile a quella di THE WASTE LAND.

La devoluzione dell’ecosistema diventa asimmetria del Sapere. Il disegno delle scene di Marcel Kaskeline, come sempre di geometricità essenziale, trova un contrappunto ideale nelle luci di Marco Policastro, che, invece di seguire i ballerini, compongono un’articolata partitura di strisce allungate, brevi riquadri rettangolari o zone cromaticamente definite, quasi a farsi estensione della mano e del pensiero di Ivo.

I danzatori-libri, in pratica, si muovono entro una triplice griglia -che agevola la loro performance - composta da: a) struttura immateriale della coreografia; b) scenografia; c) riferimenti geometrico-spaziali delle luci. Assistiamo a un continuo movimento a uscire e rientrare nella biblioteca, con i ballerini impegnati, sugli scaffali, a farsi lettere e parole, girando su se stessi a 360 gradi e indagando con i piedi lo spazio (come durante il laboratorio di Maria Thais), per poi scendere a terra e comporre le parole in frasi, in un confronto sempre più serrato con l’Altro, la coppia e la communitas e, soprattutto, il pubblico. 

Il saliscendi si risolverà in un punto di domanda e nella consapevolezza che i libri NON si possono sistemare dentro una biblioteca che sembra risputarli fuori ogni volta. Da un punto di vista drammaturgico e coreografico non si definiscono dinamiche coese, come in WASTE LAND, dove la costruzione di una civitas collaborativa era funzionale non solo a rappresentare l’alba dell’Uomo, ma anche a prepararsi, uniti, alla minaccia incombente rappresentata simbolicamente dalle sezioni di tubi appoggiati sul fondo della scena.

 

 

Qui ascoltiamo e vediamo un ragionare coreografico più teorizzante, un’interrogazione continua sul vocabolario della danza, tra accenni di classico e vastissime aree di contemporaneo, questa volta fortemente segnato dal focus brasiliano - peraltro, e inaspettatamente, non nella sua connotazione di lievi movimenti ondulatori delle braccia - e dalle esplorazioni asian - oriented di Arsenale 2012.

I workshop di Terence Lewis, Murobushi e Klunchun hanno lasciato il segno (i piedi battono sempre molto forte a terra, durante BIBLIOTECA DEL CORPO) e Ivo trova spazio anche per un significativo segmento cino-hongkonghese, con tanto di ideogrammi in forma proiettiva e con il ballerino M. Edward Yeung che s’impegna a ribadire la propria natura di libro, autoinfliggendosi un tentativo di scrittura ideogrammatica su torace e gambe. 

Non solo Kubrick, costantemente presente nell’immaginario cinematografico del brasiliano, quindi, ma anche Peter Greenaway (siamo dalle parti di THE PILLOW BOOK). Durante le fasi analitiche e dialoganti, coi ballerini scesi dalla biblioteca, i soli e i duetti sembrano prevalere, come qualità complessiva, sui segmenti di gruppo, quasi a sottolineare l’incompatibilità ontologica tra corpo-libro e biblioteca-enciclopedia umana. Ciò che viene messa in scena è una grande celebrazione pagana del segno coreografico progressivamente lontano da una chiara drammaturgia: man mano che lo spettacolo procede, infatti, vanno componendosi blocchi di danza slegati gli uni dagli altri e ciascuno dotato di un riferimento chiaro alla matrice classica, contemporanea, afro o asiatica. Ogni tanto, poi, si corre da sinistra a destra o in senso contrario, secondo linee parallele segnate dai tipici fasci di luce di Policastro: sono sventagliate che fanno piazza pulita di ciò che è stato enunciato prima e, anche, un ulteriore riferimento, quasi un trademark di Ivo (erano anche in WASTE LAND).

 

 

Letras, palavras.

Nonostante i libri-danzatori, una delle volte che rientrano in biblioteca, dialoghino tra loro e con altri testi isolati che puntualmente rimangono sulla scena, non sembra generarsi una koinè vera e propria. Non c’è possibilità di lingua comune se non nella forma che le enuncia tutte. D’altronde qui conta solo ribadire la qualità enciclopedica, accumulativa, della biblioteca. I libri sottolineano orgogliosamente la propria unicità e, coerentemente, i soli o addirittura le scene a protagonista unico (il momentum cinese, il ballerino-Atlante che solleva la sfera lignea di Frucek sotto forma di volta celeste caricata sulle spalle, la leggerezza di Arianna Henry e di un’altra ballerina - segmento di quasi balletto -  o la fune che lega due danzatori in una reciproca dipendenza di vocaboli coreografici) si guadagnano spazio e attenzione una volta sottratti al continuo andirivieni tra dentro e fuori, tra celle e campo aperto.

Ivo, insomma, segue lucidamente lo spunto borgesiano - e la funzione quasi palingenetica del Caos - regalandoci magnifiche invenzioni isolate: il gioco di passaggi sotto la fune tesa, le braccia ad arco del partner entro cui la ballerina cammina lieve, certe riletture forsythiane del gesto isolato, il collocarsi dei libri sugli scaffali mostrando al pubblico la costa muta.

Qui siamo nel pre-finale, dopo aver assistito alla figurazione di gruppo più affascinante, con i libri ribaltati a costa in giù e pagine (gambe) aperte, verso l’alto, quindi impegnati in un candomblè punteggiato dallo schema ritmico d(e)i Kodo.  

 

La Quadrilogia di Ismael Ivo: 2009/ 2012.

BIBLIOTECA DEL CORPO chiude lo schema “A-B-B-A” aperto nel 2009 con THE WASTE LAND e contenente la sottotraccia tematica (questa volta a/a/b/b) costituita dalle due coppie Terra-Aria e Babilonia-Biblioteca.    La pesantezza della prima e della quarta coreografia (A), contrappuntata da una dominante scura nella gestione cromatica e dei toni di luce, hanno trovato elementi oppositivi nella leggerezza e nel bianco accecante (e riflesso su specchi) di OXYGEN e NUOVA BABILONIA del 2010 e 2011.

Il maestro brasiliano conclude, quindi, con infinita maestria e lucidità creativa e interpretativa (dei testi), una sorta di quadrilogia che merita nuove letture, euna sistemazione critica definitiva.

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awakenings
08 giugno > 24 giugno 2012