Storia di truffe e di
imbroglioni
Die
Fälscher/Il falsario
Stefan
Ruzowitzky avrebbe girato dieci anni fa
Die Fälscher. Il regista viennese di
Anatomie e
All the Queen's meN sorride,
ribadendo con forza il suo desiderio di ribaltare i tabù dei campi di
concentramento e raccontare, con toni leggeri, una storia in cui le vittime
non sono né eroi né innocenti.
Die Fälscher, presentato oggi
in Concorso alla Berlinale, ha offerto alla stampa accorsa in massa (tanto
da richiedere una proiezione supplementare) un punto di vista alternativo
sul periodo nazista.
Al centro della vicenda, tratta dalle memorie di Adolf Burger, è il "re
della contraffazione" Salomon Sorowitsch, ebreo di Odessa che vive nella
Berlino del '36 un'esistenza dorata tra truffe, gigolò e ragazze facili.
Dopo l'arresto, si
trova costretto "quasi casualmente" a mettere al servizio della guerra la
propria abilità di falsificatore, e a giocare tutto nella dura partita della
sopravvivenza.
"Questo è un film
politico, aspettavo l'occasione per dire la mia su questo tema e finalmente
l'ho avuta", sottolinea il regista. "In Austria abbiamo ancora dei leader
politici vicini a disgustose posizioni del passato. Questo film non è una
lezione di storia, ma tratta temi universali e parla della volontà di
cambiare il mondo adattandosi ad esso, con lo sguardo di un artista".
L'articolo è stato pubblicato anche sulla rivista
Cineuropa.org
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In memoria di me: un Cristo dostoevskiano affascina Berlino
In memoria di me
Incuriosita dal tema insolito e affascinata da una narrazione avvolgente e
non scontata, la stampa ha accolto con favore
in memoria di me, opera
seconda di Saverio Costanzo, presentata questa mattina in Concorso ufficiale
alla Berlinale.
Un film che ha letteralmente tenuto il pubblico incollato alle poltrone,
grazie ad una storia, raccontata come un thriller, di tormenti interiori e
ricerca di pace.
La pellicola, tratta dal
romanzo "Il Gesuita Perfetto" di
Furio Monicelli, narra l'ingresso "senza grande convinzione"
dell'ambizioso Andrea in un noviziato di gesuiti a Venezia. Deciso ad
ottenere il successo in un assoluto senza chiaroscuri, il giovane si trova
presto ad affrontare un percorso straniante che pone quesiti a cui non aveva
mai pensato. Un percorso che porta la ragione a scontrarsi con il bisogno
d'amore, e che cita, nel finale dostoevskiano, il bacio di Cristo al Grande
Inquisitore dei fratelli Karamazov.
"Questo film parla della possibilità di fare silenzio e di ascoltarsi", ha
detto il regista in conferenza stampa, "della ricerca dell'amore in se
stessi. Non è un film 'cattolico', ma un film sul porsi delle domande. Il
tabù maggiore è proprio questo: il non porsi domande". E continua: "Volevamo
che il pubblico si identificasse con una storia normale, con persone normali
vestiti con abiti civili. È un film profondamente radicato nei nostri tempi,
che invita a non dimenticarsi dell'amore".
L'articolo
è stato pubblicato anche sulla rivista
Cineuropa.org
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L'altra faccia del capitalismo
Yella
Un pubblico perplesso ha accolto l'ultima fatica di Christian Petzold,
Yella, la cui proiezione in
Concorso (e in anteprima mondiale) oggi al Berlinale Palast si è conclusa
tra (pochi) applausi e qualche fischio.
Habitué della Berlinale,
il regista, diplomatosi alla German Film & Television Academy nel 1994, ha
già partecipato al festival con
Wolfsburg (Panorama Special 2003) e
Ghosts (Concorso ufficiale
2005), due storie centrate su personaggi in cerca di se stessi e di un ruolo
nelle relazioni umane e nella società.
Anche Yella, protagonista della sua nuova pellicola, cerca qualcosa. Fuggita
dal villaggio natale, nella Germania dell'Est, e da un matrimonio fallito,
la donna sembra trovare, inaspettatamente, una strada per soddisfare la
propria divorante ambizione.
L'incontro con un giovane executive della finanza, serio e determinato, la
convince a intraprendere un percorso che potrebbe portarla finalmente alla
vetta. Ma il passato si ripresenta proprio quando Yella è a un passo dalla
gloria.
"Lavoro spesso su personaggio presuntuosi, che hanno chiesto troppo e si
ritrovano tagliati fuori, e costretti a modificare i loro piani, i loro
intrighi, il loro lavoro per tornare in pista nella vita, nella società,
nell'amore", dice Petzold. "L'est non riesce più a sostenere dignitosamente
i suoi figli. La gente è costretta a partire, e a lasciarsi dietro fantasmi.
Le cose che Yella lascia ad est tornano a galla, però, nella nuova vita
occidentale, e la schiacciano".
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Cineuropa.org
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Il Mercato in movimento
Mercanti in
fiera al Martin Gropius Bau: buyer e seller di tutto il mondo si incontrano
nella nuova sede (da un anno a questa parte) del Mercato più vivace
d'inverno.
Quasi unanime il coro di
apprezzamento- un edificio incantevole, rilassato, lontano dal vocìo dei
giornalisti di Potsdamer Platz-, alcune voci di insoddisfazione per una
compravendita contratta, con affari, si dice, meno buoni che in passato.
Il cinema in Concorso
non ha molto corso quest'anno, vincono le storie per ragazzi tra i consueti
(e ricchi) partner nordeuropei, mentre si profila un (subitaneo e
spiacevole) abbandono dei merchants inglesi, richiamati al dovere
dall'assegnazione dei Bafta (i David di Donatello in chiave brit) in
anticipo di un paio di settimane.
Segno dei tempi e della
globalizzazione: gli eventi di tutto il mondo si intrecciano a vicenda, e si
intralciano a vicenda.
Tra scambi e acquisti,
l'Italia resta un mercato fertile ma ristretto- sicuro, almeno, l'arrivo di
Anti-Christ, il nuovo film di Lars Von Trier.
Il mercato è in
movimento: meno di Cannes, di certo più del resto d'Europa.
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Schermaglie.it
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O Berlino, o cara
Nella capitale della
Grande Germania fa freddo, ma ancora senza neve.
Tutto è sempre
socialdemocratico, ma meno degli altri anni: anche a Berlino arriva lo chic
globalizzato, con rinnovato lusso dell'interior design (all'Hyatt hotel come
al Berlinale Palast), feste, eventi ed effluvi di aragoste e tecnologia.
Qui il leit-motif di
sempre è, per partito preso, understament: un festival del dimesso e del
sottotono grigio, del grigio-cappotto di un agente della Stasi.
Parola d'ordine del
sabato è nascondersi, truffare, fregare l'altro ad ogni costo. Perdendo la
famiglia e gli affetti in cambio dello Stato (come in
The good sheperd di Bob de
Niro, filmone all star sulla nascita della CIA), cedendo le ideologie e
l'onore in cambio di una prigione dorata nei campi di sterminio (l'attesa
commedia drammatica Die Fälscher,
dell'austriaco Stefan Ruzowitzky).
Anche la Berlinale, per
non restare indietro, ci ha fregati. Il casellario della stampa, (ah,
l'amico casier) quest'anno non c'è più.
O Berlino, o cara...
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Schermaglie.it
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Concorso
Diari di donne perdute
"I personaggi principali
di questo film sono complicati, contraddittori, pieni di problemi e in
qualche modo sgradevoli, ma speravamo, anzi ci auguravamo che le attrici li
rendessero piacevoli al pubblico".
Così Patrick Marber,
sceneggiatore di Diario di uno scandalo, racconta la genesi di un film che,
allo scottante e attualissimo tema delle relazioni "scandalose" tra
insegnanti e alunni, unisce anche quello delle ossessioni, mantenendo però i
toni della commedia.
Tratto dal romanzo
bestseller What Was She Thinking di Zoe Heller, il film di Richard Eyre
racconta la nascita e la fine dell'amicizia fra Barbara (Judy Dench),
insegnante sola e amareggiata, e Sheba (Cate Blanchett), nuova professoressa
di arte in una piccola scuola di provincia.
La scoperta della
relazione di Sheba con uno studente quindicenne sembra essere la chiave per
un ricatto affettivo di cui Barbara tiene nota nei suoi diari, ma le sue
richieste diventano presto così pressanti da condurre, inevitabilmente, alla
catastrofe.
Uscito il 2 febbraio nel
Regno Unito in 350 copie per 20th Century Fox, e candidato a quattro premi
Oscar (fra i quali quello alla Migliore Attrice Protagonista e alla Migliore
Attrice non protagonista), Diario di uno scandalo è stato presentato fuori
Concorso alla Berlinale.
L'articolo è stato
pubblicato anche sulla rivista
Schermaglie.it
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Lo specchio (infranto) della vita
Eppure, sebbene lontana
dai fasti passati, Berlino ha saputo raccontare, con un programma convulso e
ripiegato su se stesso, frammenti di una vita cinematografica
2006-2007.L'analisi di quello che è passato sugli schermi non può non
partire dai trionfatori della 57ma edizione della kermesse più liberal
(almeno sulla carta) del panorama internazionale.
Lo scollamento, già accennato, tra arte ed industria, volontà e potere,
ideale e reale, si è fatto ancora più evidente nell'incoronazione del suo
sovrano� un Re per una notte.
Il cinese Tu ya de hun shi (Tuya's Marriage) di Wang Quan (Orso d'Oro), non
è disprezzabile e sicuramente non malvagio; altrettanto sicuramente, non il
più applaudito, e non il più amato.
Come tradizione vuole anche in un festival che si pone come aim of the game
la rottura degli schemi tradizionali, è impegnato, innamorato di se stesso
e, nello stesso tempo, in bilico tra banalità assoluta ed eccellenza
creativa.
Le caratteristiche del film di Quan, d'altra parte, sono simili� in diverse
modalità e diversa qualità� a quelle di altri premiati: il meschino Yella di
Christian Petzold (Wolfsburg e Gespenster), l'inquieto El otro di Ariel
Rotter, il didattico Beaufort di Joseph Cedar, il pomposo The Good Shepherd
di Robert De Niro.
Tutti ugualmente egocentrici, ugualmente carichi di incertezze, domande e
vuoti esistenziali costretti all'autarchia: come se le risposte (i pieni,
insomma), fossero ormai inutili o inservibili per descrivere il mondo
circostante, perché l'unico a contare è, in fin dei conti, soltanto quello
interiore.
Lo specchio infranto della vita (cinematografica), del Concorso come della
più riuscita sezione collaterale Panorama, è il vuoto, l'assenza che implica
la ricerca, e il dubbio radicato che si basta e non chiede altro né per
essere, né per essere definito.
Un simbolo, affascinante e rischioso, di un festival in cerca (forse neanche
coscientemente)
di una diversa identità, legata mani e piedi ad un sano senso teutonico
della lega mercantile eppure distante, per vocazione ed esperienza, dalla
mondanità del Marché.
Un festival affascinante anche se nel presente arranca sul futuro, è calato
poi il silenzio.
L'articolo
è stato pubblicato a febbraio sulla rivista
Schermaglie.it
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Arte, mercato
È significativo notare
un preciso segno dei tempi: lo scollamento, sempre più contratto e
definitivo, tra arte e industria.
Ma se Atene piange, stavolta, Sparta ride, e di gusto.
La stampa lamenta la scarsa qualità delle pellicole, l'assenza di un filo
conduttore, un plateau di ospiti sguarnito e eventi cinefili in ribasso; il
pubblico casalingo la scarsità di biglietti e lunghissime code; l'industry
loda l'ottima gestione del nuovissimo European Film Market, da due anni al
Martin Gropius Bau, come spazio vitale e propulsivo in grado di sostituire
l'imploso MIFED.
L'EFM ha attirato quest'anno, grazie alla sua centralità geografica e ad una
brillante posizione sui calendari festivalieri, un numero rilevante di buyer
e rivenditori europei, americani e giapponesi, pronti a rimpinguare casse e
line-up di pellicole da lanciare (con adeguata promozione e perfetto timing)
al Marché di Cannes, e fatto segnare cifre record negli scambi.
Oltre a quelli inseriti nelle proiezioni riservate, sono andati bene molti
film delle sezioni collaterali, con qualche riserva in più (tra blande
polemiche e qualche cassandra) nei confronti dei titoli in Concorso,
incapaci, tranne rare eccezioni, di convincere all'acquisto.
La responsabilità, dicono i mercanti in fiera, è da attribuire all'eccessivo
numero di festival in tutto il mondo, e di mercatini; allo scarso livello di
attenzione da parte dei buyer internazionali nei confronti dell'essai non
ascritto a tendenze (leggi indie à la Sundance), ed del loro sempre più
assolutistico monopolio sul gusto degli altri (leggi il pubblico).
L'articolo è stato
pubblicato anche sulla rivista
Schermaglie.it
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Passaggio a Berlino
Un mese dopo Berlino (ed uno e poco più prima di Cannes), il mercato del
cinema fa il bilancio (indicativo, per qualità e quantità) dei primi segnali
di un cambiamento.
Poco da dire: la Berlinale 2007 non ha certo saputo stupire pubblico e
critica con effetti speciali; dismesso (a tutti gli effetti pratici)
l'impegno socio-politico rimasto, in effige, ad adornare le
motivazioni degli Orsi�, il festival ha imboccato una strada ambigua e
discussa.
L'articolo
è stato pubblicato anche sulla rivista
Schermaglie.it
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Arrivederci, Bafani
Tecnicamente si chiama
"la maledizione di Iwo Jima", e colpisce chiunque, inopinatamente, cerchi di
allontanarsi dalla proiezione (dello stesso) in corso.
Sei i giornalisti
(letteralmente) caduti sui gradini dell'ultima fila del CinemaXx7 di Berlino
- ribattezzata per l'occasione Monte Suribachi - a riprova del potere,
oscuro e terribile, dell'altra parte dello specchio di
Flags of our fathers.
Nevica a Berlino, ma
Clint Eastwood se ne frega, mentre, incanutito ma sempre affascinante,
dispensa in conferenza stampa perle di saggezza e battute di spirito mai
lessate dal tempo.
Lessato dal tempo, dai
voli transcontinentali e da qualche peperonata di troppo, passa invece Bille
August con la sua Bafana. Tra
qualche applauso politicamente corretto, una generale indifferenza e gli
sbadigli delle grandi occasioni. I regali della calza, quest'anno, sono
pochi per tutti.
L'articolo è stato
pubblicato anche sulla rivista
Schermaglie.it
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Ma voi in Italia fate ancora queste cose
"Senta, questa storia
del noviziato è anacronistica. Ma voi, in Italia, fate ancora queste cose?".
La stampa presente alla Berlinale non è certo quella dei maxi-eventi dello
stardome, ma molto interessata.
La post-visione (mai
termine fu più adatto) di In memoria
di me di Saverio Costanzo, proiettato stamattina in Concorso, scatena
domande e curiosità come una confessione di un George Clooney di una notte
d'amore con il suo (defunto) maiale.
E con una certa va
ammesso deferenza, una forma di discrezione simile a chi è stato invitato a
casa di uno zio ricco: non tocchiamo niente, che se poi si rompe qualcosa
che raccontiamo.
Va dato merito a
Costanzo, oltre che del bel film, di aver invitato i giornalisti di mezza
Europa (no, non è vero, sono quasi tutti tedeschi e italiani) alla
riflessione, e per giunta su un tema difficile e culturalmente diverso come
quello della vocazione.
Tra gli astanti, c'è chi
cita Lutero, chi prende appunti sul tema del Grande Inquisitore, chi ha
visioni mistiche, chi si pente dei propri peccati, chi si soffia il naso.
La verità che nessuno ha
voglia di andare a raccontare al critico tedesco è che sì, in Italia certe
cose le facciamo ancora.
L'articolo è stato
pubblicato anche sulla rivista
Schermaglie.it
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L'Ombra del potere di
Robert de Niro
Per
L'Ombra del potere/The good shepherd,
suo ritorno registico a quattordici anni dall'autobiografico Bronx, e
presentato in Concorso alla Berlinale, De Niro sceglie un tema profondamente
americano come la creazione dell'Agenzia di contro-spionaggio CIA.Una
evoluzione interessante nel percorso umano e artistico di De Niro, una sorta
di passaggio, quasi metafisico, da giovane italo-americano sradicato (come
sradicati sono i suoi personaggi migliori) al "generale" Bill Sullivan
(ispirato a Bill Donovan, capo dell'Ufficio dei Servizi Strategici),
inserito in una società profondamente conservatrice e WASP della quale si
erge a rappresentante: un altro "buon pastore" di anime.
Il buon pastore del titolo, invece, sacrifica, in nome dell'ambizione e di
un incerto oggetto del desiderio- il "bene della Nazione"- la sua vita: la
famiglia, l'amore, persino l'esistenza del figlio. Da giovane idealista,
presto reclutato nella società massonica Skulls and Bones, a capo della CIA,
Edward Wilson (ovvero James Jesus Angleton, a capo del servizio
contro-spionistico della Central Intelligence Agency dal 1954 al 1974)
percorre la strada (rigidamente manichea nel lavoro come nel privato) della
persecuzione del giusto, a tutti i costi.
La rigida tradizione hollywoodiana delle spy stories e della fantapolitica
sembra però scontrarsi (in maniera, ancora, manichea) con l'opposta umanità
delle vite spezzate che ruotano (e si infrangono sugli scogli) intorno ad
Edward.
Una moglie mai amata, un primo amore abbandonato e ritrovato per caso, in
una sola notte fuggitiva, un'amante che non si esita ad eliminare quando il
gioco si fa troppo duro.
Soprannominato negli Stati Uniti "Il padrino degli spy-movies",
L'Ombra del potere sfoggia un
cast delle grandi occasioni, in un tripudio di star più o meno in parte, più
o meno convinte.
Ancora una volta, a suo agio dentro le maglie del suo figlioccio appena
nato, De Niro cita i suoi migliori ruoli da Bertolucci a Leone, affidando a
Joe Pesci la battuta più significativa dell'intero film: "gli italiani hanno
la chiesa e la famiglia, gli ebrei le loro tradizioni, gli irlandesi la loro
madre patria, i neri la loro musica. Ma voi americani, cosa avete?".
La risposta, l'unica possibile, sarà "gli Stati Uniti": gli altri, tutti gli
altri, sono solo turisti.
L'articolo
è stato pubblicato anche sulla rivista
Schermaglie.it
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