56.MO
FESTIVAL DI BERLINO BERLINO |
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Anche quest’anno il Festival del Cinema di Berlino ha registrato grande successo di critica e numeri: con particolare attenzione alle realtà attuali e alle nuove tendenze del cinema europeo e mondiale, la Berlinale, giunta alla 56ma edizione, ha accolto nelle sei sezioni ufficiali (Competition, Panorama, International Forum of New Cinema, Kinderfilmfest, Perspektive Deutsches Kino e Retrospective) qualcosa come 360 film, tra lungometraggi di fiction, documentari e corti. Oltre 19mila gli accreditati da oltre 120 paesi che hanno invaso una Berlino sotto la neve, per assistere alle proiezioni – più di mille in 11 giorni – per un totale di oltre 186mila biglietti. Passerella per stelle del cinema internazionale e palcoscenico privilegiato di attesissime uscite sugli schermi di tutto il mondo, Berlino – come ogni festival – resta pur sempre uno spazio aperto a produzioni indipendenti e a prodotti che spesso, nonostante premi o riconoscimenti, trovano difficilmente la strada verso il grande pubblico e rischiano di rimanere sconosciuti e ‘invisibili’. Ecco quindi alcuni titoli che raramente approderanno sugli schermi più commerciali ma che si sono conquistati l’attenzione della platea e delle giurie della Berlinale. Der freie Wille (The Free Will, tr. Il libero arbitrio) ha ricevuto il premio indipendente del “Guild of German Art House cinemas” e ha tutte le caratteristiche del film d’autore a misura di festival: soggetto impegnato e assolutamente singolare, ritmo lento e spoglia messinscena, per una storia di 163 interminabili minuti che sfida la sensibilità e resistenza dello spettatore. Theo (Jürgen Vogel) cerca faticosamente di reinsersi in una società anonima e ostile, dopo nove anni di recupero in carcere per aver violentato più di una donna. Uno spiraglio di redenzione sembra aprirsi per lui quando incontra Nettie (Sabine Timoteo), la figlia problematica del suo datore di lavoro. Ma anche per i due amanti subentra la piatta quotidianità e la storia si ripete, con un finale tragico e pessimista. Il tedesco Matthias Glasner firma regia, fotografia e sceneggiatura, quest’ultima insieme al protagonista Vogel, premiato con l’Orso d’Argento al Miglior Contributo Artistico, anche per il suo impegno produttivo del film. Voto: 18/30 A En soap (Soap – Una soap) della regista danese Pernille Fisher Christensen è andato il Gran Premio della Giuria (ex-aequo con Off-side di Panahi) e quello per Miglior Opera Prima, inaugurato quest’anno a Berlino. Geniale soluzione produttiva – ripresa completamente in interni, 2 ambienti, 2 attori protagonisti e un minimo di comprimari – questa tragi-commedia si presenta in pieno stile ‘Dogma’, con lunghe sequenze, quadri fissi, camera a spalla e grana digitale per una fotografia minimalista e scarna. L’argomento, volendolo ricondurre ai canoni classici, affronta il delicato equilibrio emotivo di due personaggi che, dal loro incontro e dalla condivisione delle proprie inquietudini, escono alla fine più consapevoli di sé e, in qualche modo, migliori eppur sempre uguali. Charlotte (Trine Dyrholm) si è da poco trasferita nel suo nuovo appartamento, dopo una storia finita. Lui la cerca ancora ma lei non è disposta a guardare ancora indietro. Sotto di lei vive Veronica (David Dencik), un transessuale che vive col cane in un isolamento in parte voluto e in parte forzato dalla sua incapacità di gestire la sua ‘diversità’, in attesa che arrivi la comunicazione di una clinica dove ha richiesto l’intervento chirurgico che risolverà, forse, tutti i suoi problemi. Inevitabile l’incontro di queste due umanità e abbastanza prevedibili gli sviluppi che metteranno in crisi le già flebili certezze della loro esistenza. Difficile ma ben riuscita la prova dei due interpreti (lei già vista in Festen), in situazioni talvolta a rischio di banalizzare o forzare verso la caricatura i propri ruoli. Eccessiva la scelta di dividere il film in ‘capitoli’, introdotti da frames in B/N e una didascalica voce over, a scandire la progressione degli eventi e lo sviluppo dei personaggi. Voto: 20/30 Nella sezione Forum, Premio Fipresci per In Between Days, di So Yong Kim, piccolo ritratto di un’adolescente smarrita e adorabile, poetico quanto autentico, leggero e insieme profondamente toccante. In una metropoli resa anonima dalla neve e da un paesaggio fatto di spenti quartieri di provincia, Aimie (Jiseon Kim) è una ragazzina coreana che vive sola con la madre, separata, in una cittadina del Canada. Tra lezioni svogliate di inglese, lunge camminate e pomeriggi trascinati con lentezza, Aimie fa fatica ad integrarsi in una città, e in un mondo, in cui non trova una sua dimensione. L’amicizia con un coetaneo diventa per lei qualcosa di speciale che vive, per la sua età, come il centro delle sue attenzioni. Ma questo suo rapporto col giovane Tran (Taegu Andy Kang), invece di riuscire ad avvicinarla alla realtà, è per lei un ulteriore tentativo di isolamento e dà la conferma della sua incapacità di integrazione. Il regista e sceneggiatore So Yong Kim descrive con tocco delicato ma senza superficialità la difficile realtà dell’adolescenza, dell’esplorazione dei sentimenti, degli affetti familiari, quando sono invadenti e quando assenti, senza mai scivolare nel banale o, peggio, nel patetico. Tocco orientale inconfondibile. Voto: 25/30 Come In Between Days, anche No. 2 arriva a Berlino dopo il Sundance, dove ha raccolto gli applausi e il premio del pubblico, il ‘World Cinema Audience Award’. Già autore dell’omonimo testo teatrale del 2000, da lui stesso adattato per il grande schermo, il regista neozelandese Toa Frazer racconta con forte partecipazione emotiva la storia di Nana Maria (Ruby Dee), ‘matriarca’ ottuagenaria di una famiglia originaria delle isole Fiji, che un giorno decide di dare una grande festa per raccogliere intorno a sé tutta la famiglia e annunciare chi sarà il suo ‘erede’, custode dell’autorità e della tradizione familiare. Difficile, in questi casi, orchestrare le mille trame e i personaggi che affollano il ‘Numero 2’, la storica abitazione del nucleo familiare, la grande casa costruita dalla prima generazione trasferitasi nelle vicinanze di Auckland dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma la mano esperta nel dirigere i bravi attori (tutti) ci regala una gustosa e colorata commedia con sentimento e nostalgia, dosati con cura anche se qualche volta ridondanti. Già un ‘Emmy’ all’attrice protagonista, nativa dell’Ohio, unica ‘indigena’ non autentica del cast. Voto: 24/30 Premiata a Berlino anche una piccola perla di rigoroso e delicato realismo: il cortometraggio Love This Time dell’australiano Rhys Grahm, che dimostra grande maturità di regia e sensibilità nel raccontare i sentimenti sinceri e profondi di una ragazzina alla scoperta del primo amore, in un contesto familiare infelice e con un difficile sfondo sociale. La leggerezza dei movimenti della macchina da presa, mai ostentata e discreta al punto giusto, anche nel rispetto dell’intimità dei protagonisti. Pochi personaggi, tutti approfonditi e protagonisti, nell’economia di una storia a misura di cortometraggio, che è l’istantanea di un’emozione personalissima e allo stesso tempo universale. Voto: 28/30 Berlino, 19:02:2006 |