bergamo film meeting 30.ma edizione
Bergamo 10 / 18 marzo 2012
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recensioni |
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> americano di Mathieu Demy > DIN DRAGOSTE... di Adrian Sitaru > Emek tiferet di Hadar Friedlich > EN VILLE di Valérie Mréjen, Bertrand Schefer > La mitad de Óscar di Manuel Martín Cuenca > LAS ACACIAS di Paolo Giorgelli > ONDER ONS di Marco van Geffen |
di Marco van Geffen
In Concorso |
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20/30 |
Giocato interamente sulla frammentazione dei punti di vista, incastrati in modo da portare gradualmente alla risoluzione (agghiacciante) finale, il regista confeziona un film un po’ scontato, che tuttavia riesce a trasmettere l’orrore consumato nell’isolamento e nell’incomprensione di una ‘tranquilla’ cittadina di provincia. |
DIN DRAGOSTE, CU CELE MAI BUNE INTENTII
di Adrian Sitaru
In Concorso |
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23/30 |
Film estremo, vicino al dolore di chi si trova improvvisamente obbligato a misurarsi con il dolore, ma anche un film pieno di momenti assurdi e bizzarri in grado di sdrammatizzare la situazione. Si creano così come dei cortocircuiti che intendono descrivere la fragilità dei protagonisti e le loro debolezze. |
Emek tiferet
In Concorso |
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24/30 |
Film che si insinua lentamente nelle pieghe di una comunità ebraica attraverso il punto di vista di una tenace ottantenne che non riesce a smettere di lottare. Lo sguardo registico appare distaccato. Un film delicato e intenso, ritratto di un’utopia che oggi non sembra più possibile: ogni rapporto umano è segnato irrimediabilmente dall’egoismo e dall’amarezza. |
di Manuel Martín Cuenca
In Concorso |
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18/30 |
Il rapporto teso e denso di segreti tra fratello e sorella, raccontato attraverso lunghe sequenze incomprensibili che giocano tutto sul non detto, i silenzi e le attese. Alcune sequenze virtuose, come quella del dialogo tra i due fratelli che appaiono come due sagome scure che si stagliano sul lento sorgere del sole della finestra dell’Hotel, risultano essere soltanto fastidiose. |
di Valérie Mréjen, Bertrand
Schefer
In Concorso |
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24/30 |
Un film ricco di influenze: dall’eredità stilistica della Nouvelle Vague (e post Nouvelle Vague) fino ai contenuti pessimistici della New Wave Anni Ottanta; riferimenti letterari che derivano dalla formazione di Schefer (che ha tradotto Pico della Mirandola e Giacomo Leopardi) e attenzione particolare all’estetica dell’immagine portata dalla Mréjen (che si dedica oltre che alla regia anche all’arte visiva). Il film è girato in 16 mm: un rifiuto del digitale dettato dalla volontà nostalgica di rifarsi a un passato pieno di fascino, per misurarsi ancora una volta con esso. Un film girato a quattro mani per descrivere la crisi parallela di due generazioni alla ricerca di sé, di due modi di vivere superficiali che si intrecciano: la vita da adolescente di Iris e quella di un fotografo quarantenne che ha perso l’ispirazione. L’incontro tra i due cambierà silenziosamente la loro prospettiva di vita e la arricchirà inaspettatamente. La loro esistenza, e quella dei personaggi che gravitano attorno a loro, appare vuota, tutte le strade sono state già percorse da altri, il futuro sembra un tunnel senza via d’uscita. Ecco allora che l’estetica e l’arte vengono in soccorso per riempire uno spazio vuoto che resta vuoto. Il film rincorre un ideale che non c’è e presto non trova più appigli se non nelle emozioni nascoste dei protagonisti che a tratti sfociano in belle riflessioni come questa: "Costruire una relazione fissa è una delle cose più belle che possano esistere, ma dopo dieci anni che non ti innamori più non ti ricordi neppure com'è. Poi mi sono ricordato: è vedere una persona e poi quando sei lontano da lei cerchi di immaginarti il suo viso e vuoi rivederla." Ed ecco che la crisi trova il suo compimento. |
di Pablo Giorgelli
In Concorso |
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26/30 |
Film denso di emozioni che si schiudono lentamente con lo scorrere del tempo raccontato senza fretta. Il protagonista, Rubén, è un camionista che accetta di dare un passaggio a una donna da Asunción del Paraguay a Buenos Aires. Ciò che non si aspetta è che la donna ha con sé la sua bambina di appena cinque mesi. Inizia così un lungo viaggio fatto di silenzi e piccoli avvenimenti che scioglieranno ogni diffidenza, aprendo il cuore dei due protagonisti. Il paesaggio secco e desolato, descritto in lunghe sequenze silenziose, appare come lo spettro della crisi economica dei paesi latini, ma è anche lo specchio della permeabilità alle emozioni dei protagonisti che paiono profondamente feriti e incapaci di aprirsi all’altro. La metafora del viaggio come percorso esistenziale si compone, pezzo dopo pezzo, di piccole condivisioni espresse da gesti quotidiani o piccoli indizi che svelano mondi segreti e storie che si assomigliano e si integrano l’una nell’altra. Si apre la speranza a nuove possibilità, nuovi legami, capaci di far fiorire una felicità che è possibile ancora. Il respiro nelle immagini aumenta progressivamente, ogni tensione via via si scioglie fino all’arrivo a Buenos Aires: la grande città con il suo caos, le strade, le insegne, suggerisce l’impressione che tutto può succedere. Un forte peso viene dato al destino che mette le persone sulla stessa strada e le obbliga a misurarsi con se stesse, ma il messaggio finale rimanda alle proprie responsabilità, alla scelta consapevole di mettere nuove radici e darsi una nuova chance. |
AMERICANO
In Concorso |
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30/30 |
è percorso dal filo rosso della nostalgia e della tenerezza il film del figlio di Jacques Demy e Agnes Varda vincitore del Bergamo Film Meeting. Un viaggio esistenziale, alla ricerca delle proprie radici. Alla notizia della morte della madre Martin, in crisi con la compagna, va a Los Angeles per identificarne il corpo e scopre una serie di segreti che lo porteranno fino a Tijuana alla ricerca di una donna misteriosa. è incredibile come in questo film Demy giochi con l’eredità artistica dei suoi genitori riuscendo a confezionare un film che va oltre le aspettative. Il tema del viaggio e della perdita sono chiaramente d’ispirazione paterna: fortissima è la connessione con il film Model Shop, primo e unico film ‘americano’ di Jacques Demy, nel quale un uomo vaga senza sosta per Los Angeles sulle tracce di un’affascinante donna che posa per fotografie osé. Non è un caso che questa donna si chiami Lola e che proprio questo nome è quello del l’ambigua spogliarellista del film di Demy figlio, anche se questa volta c’è un colpo di scena che cambia tutte le prospettive. Evidente omaggio anche la sequenza mozzafiato nel night Club (anche se Demy padre non ha mai osato tanto!). Anche l’influenza materna è fondamentale poiché per la sua opera prima il regista sceglie riagganciarsi alla sua prima esperienza attoriale, ancora bambino, nel film della madre Documenteur. In un certo senso Americano ne è il seguito. Lo stesso regista afferma la volontà di completare quel percorso interpretando ancora una volta il ruolo di Martin per completare la sua Odissea che lo porterà ad assumersi le sue responsabilità e a vedere il presente con occhi diversi. |
30.mo bergamo film meeting Bergamo 10 / 18 marzo 2012
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