BERGAMO FILM MEETING XXVI
|
|
|
230 posti a sedere, ma gli spettatori che affollano le proiezioni serali dell’Auditorium, appollaiati anche sui gradini, sono molto più numerosi. Dev’essere una bella soddisfazione per gli organizzatori del BERGAMO FILM MEETING, festival che, compiuto il giro di boa dei 25 anni, ha offerto anche quest’anno un cartellone di qualità, dove, accanto alle retrospettive classiche d’autore ha trovato spazio anche la produzione di autori giovani o poco conosciuti. Il tema della sicurezza sul lavoro, gli effetti della competizione per lo status sociale, le fratture che scaturiscono dai rapporti tra famiglie e figli ma anche le ‘nuove famiglie’ alle prese con questioni discusse come la procreazione assistita: sono questi i temi che hanno dominato i film selezionati nella MOSTRA CONCORSO e che poi si sono divisi i premi. Il pubblico ha assegnato la Rosa camuna d’oro a UN LAVORO DA UOMO di Aleksi Salmenpera (Finlandia). Racconta l’odissea di Juha, che, messo di fronte ad un improvviso licenziamento, si trova a dover scegliere tra la necessità di sopravvivere ed il rispetto di sé. Il secondo riconoscimento della platea è andato a GOODNIGHT IRENE di Paulo Marinou (Portogallo), una commedia sull’amicizia e la necessità di uscire dall’egoismo individuale; il bronzo ex aequo a SEGRETI di Alice Nellis e al polacco PERDONO di Marek Stacharski. Teatro delle proiezioni, insieme all’Auditorium, il multisala Cinema Capitol, dove, subito dopo l’anteprima che ha aperto il BFM, è uscito VOGLIAMO ANCHE LE ROSE. ALINA MARAZZI, autrice del pluri-premiato “Un’ora sola ti vorrei” e “Per sempre”, riprende nel titolo lo slogan coniato nel 1912 da uno sciopero di operaie tessili nel Massachusetts per raccontarci i cambiamenti della condizione femminile a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 attraverso i diari di 3 ragazze geograficamente lontane (Milano, Bari, Roma). Mentre fuori impazza la contestazione, Anita scrive nel suo diario: “Mi ribello all’idea del vestito bianco, dei parenti, del matrimonio…come si fa a vivere fuori dalle convenzioni sociali?”. Lei, così come nei capitoli successivi anche Teresa e Valentina, (dai nomi delle attrici che hanno prestato loro la voce), sono tutte figlie ribelli della sexual revolution, e come tali destinate ad incarnare, o nel migliore dei mondi possibili, ad infrangere il tabù dell’ “amor profano”. Sono come 3 bloggers ante litteram, di cui esistono i diari originali conservati nell’archivio di Pieve di santo Stefano, fatte uscite dalla polvere degli scaffali per dare voce e rumore all’esistenza di tante, altrettante storie invisibili e lasciate dimenticare nell’indifferenza più totale. Le immagini mostrano materiale di repertorio e rari filmati underground (tra cui “Parco Lambro 1976” di Grifi), mescolati a fotoromanzi, film d’animazione, lettere e conversazioni con le testimoni di quegli anni. Al BFM erano disponibili diversi gadgets legati a “Vogliamo anche le rose”, tra cui la borsetta in due versioni, quella blu elegante e la rossa, più spiritosa, che nell’arco di pochi giorni sono andate letteralmente a ruba. Appuntamento sempre molto atteso del BFM è la retrospettiva, quest’anno dedicata al maestro della commedia RENE’ CLAIR, ricordato/celebrato anche sul manifesto del festival, con Veronica Lake in un’immagine di HO SPOSATO UNA STREGA. Molto originale anche la scelta di rendere omaggio a FREDDIE FRANCIS, regista e direttore della fotografia scomparso nel 2007 che con il suo bianco e nero ha inciso le rabbie e le ambiguità dell’Inghilterra proletaria e industriale dei ’60. Novità del BFM la sezione VISTI DA VICINO, finestra sulla miglior produzione internazionale documentaria. Tra i lavori presentati, l’anteprima di JOY DIVISION (UK/USA), tributo allo storico gruppo realizzato da Grant Gee, autore di Meeting People is Easy sui Radiohead e direttore della fotografia/editor di Scott Walker: 30 Century Man. Scritto insieme al giornalista e scrittore Jon Savage, il documentario ricostruisce la parabola musicale ed esistenziale della band icona della blank generation e il suo Ian Curtis, scomparso suicida nel 1980 a 24 anni non ancora compiuti. I racconti dei membri rimasti Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris (New Order), degli amici tra cui Tony Wilson, boss della Factory Records e produttore di Curtis&co, Peter Saville, Annick Honoré, e molti altri ancora si uniscono quasi nel tentativo di colmare un vuoto ormai impossibile da riempire. La ricostruzione del breve ma intenso percorso musicale dei Joy Division- dagli esordi con il nome di Warsaw nei club di Manchester al successo dell’album Unknown Pleasures, dalla malattia di Curtis alla tragica notte del 17 maggio del 1980- passa attraverso l’assemblaggio di materiale d’archivio, dai filmati d’epoca alle live performances inedite, fino alle fotografie personali e registrazioni audio recentemente ritrovate. Ma nessun suono rimane di fronte all’immagine spettrale di quella lapide, che arriva come un pugno finale allo stomaco. Fredda e liscia come l’epidermide nel rigor mortis. La riconciliazione con i propri fantasmi passa attraverso la cognizione del dolore e la consapevolezza che l’amore, spesso e volentieri, tear us apart. Ancora inedito sugli schermi, JOY DIVISION ha già innescato un notevole dibattito della stampa in rete per la sua ‘rivalità’ con il patinato bio-pic Control diretto da Anton Corbijn, il Re Mida del rock. La causa? Neanche a dirlo, cherchez la femme: Deborah Curtis, autrice del memoriale a cui Corbjin si è ispirato per il suo film, e sospettata dal bassista di manipolare le informazioni. Che si tratti di verità, o di una (peraltro comprensibilissima) abile strategia di marketing promozionale, è ancora troppo presto per dirlo. Una cosa però è certa: entrambi i lavori testimoniano il momento particolarmente fortunato del gruppo, che, dopo un lungo periodo di invisibilità, ritorna protagonista assoluto sul grande schermo. Protagonista dell’evento musicale JAZZ ON SCREEN, realizzato in collaborazione con BERGAMO JAZZ, è stato il percussionista MICHELE RABBIA, eclettico musicista torinese formato a Boston, conosciuto come il ‘funambolo della batteria e di tutto ciò che si può percuotere’. A partire da registrazioni d’epoca - la trasmissione radio in cui Artaud recita il suo “Pour en finir avec le jugement de Dieu”, il monologo del Lord Byron di Carmelo Bene- e l’utilizzo degli oggetti più disparati quali biglie, tubi di gomma, palloncini di plastica, perfino un violino d’acqua che vengono piegati fino a che diventano un momento, una ‘situazione’, Rabbia costruisce una performance di forte impatto emotivo, un piccolo teatro musicale dove la parola, il suono e la scena s’intrecciano tra loro fino a comporre un’unica partitura. L’immagine finale, mentre Rabbia si schiaffeggia al ritmo forsennato di un metronomo, risuona nel silenzio e l’oscurità del palcoscenico come un intenso J’accuse contro l’imperante omologazione culturale. Alla vigilia dell’arrivo in sala, il regista Enrico Pau, lo scrittore Massimo Carlotto e gli interpreti principali, gli attori protagonisti Nicola Adamo e Valentina Carnelutti hanno presentato in anteprima al BFM il loro JIMMY DELLA COLLINA. La pellicola, tratta dall’omonimo romanzo di Carlotto ambientato nel Trevigiano, sposta la storia in una desolata località portuale della Sardegna chiamata Sarroch. Qui vive Jimmy, un adolescente bellissimo ed inquieto (Nicola Adamo) con la sua famiglia operaia e una ragazza che gli sa parlare soltanto di lavoro. Sorpreso a rubare, finisce in un carcere minorile dove la sua rabbia interiore implode in un atteggiamento di finta superiorità ed indifferenza nei confronti di tutto ciò che lo circonda. Il trasferimento nella comunità di recupero “La Collina” sembra all’inizio offrirgli una possibilità di riscatto, ma Jimmy ha già pronto un piano per la fuga; e nemmeno la relazione con Claudia (Valentina Carnelutti, la ragazza del ’77 di “Vogliamo anche le rose”), una volontaria che nasconde un terribile segreto, riesce a distoglierlo dal suo obiettivo… Film duro, che non mira ad ottenere facili consensi di platea, fin dalle sue prime immagini JIMMY DELLA COLLINA ci immerge nel ‘cuore nero’ della Sardegna, lontana anni luce da yacht e Billionaire delle riviste. Nel cast, nel ruolo dei compagni di cella di Jimmy, ci sono i veri detenuti scovati dal regista in uno dei bracci del penitenziario minorile di Quartucciu. S’intitola OWLS AT NOON la video installazione di CHRIS MARKER che il BFM ha presentato nella suggestiva cornice della Porta di Sant’Agostino per la prima volta in Europa. Realizzata per la riapertura del MoMa, OWLS AT NOON reca come sottotitolo “PRELUDE”, ovvero preludio, introduzione a quello che il cineasta/fotografo/reporter francese definisce il suo viaggio personale che, a partire dalla Prima guerra Mondiale, segue gli effetti devastanti prodotti dalla guerra/e a partire attraverso tutto il XX secolo. Ne sono protagonisti gli Hollow Men, cioè Uomini Vuoti, privati degli occhi, viventi moribondi che hanno perso la capacità di vedere, che emergono tra le immagini di folla indistinta, paesaggi distrutti, campi di battaglia, ospedali e feriti di guerra. Sono i soldati che fanno la Storia, ma poi la subiscono. “Portare alla luce eventi e persone che normalmente rimangono nell’ombra” attraverso immagini dimenticate, frammenti di Storia che affiorano in superficie, che Marker nelle sue visioni s’immagina portati in volo da uccelli notturni - Owls at Noon - in grado di vedere nel buio, di scorgere ciò che all’uomo è ormai diventato impossibile vedere. Come flusso di coscienza, frasi intere o semplici parole, mescolate ai versi del poema di T.S. Eliot – The Hollow Men, appunto- disposte su una fila di 8 schermi, scorrono in un movimento continuo in avanti e indietro, da destra verso sinistra e viceversa. a tratti le singole lettere si dilatano fino a riempire l’intero schermo - HO HO LO LO ME ME - e diventano canto, ninna nanna straziante, accompagnati dalle note di Corona di Toru Takemitsu. Tra le tante immagini, quella che mi colpisce di più è la nuca di una donna, i capelli raccolti in un materno e delicato chignon come la Madeleine di Vertigo. I suoi capelli formano la “Rosa di molte foglie” che nel poema di Eliot è “la speranza soltanto degli Uomini Vuoti”, la speranza che si aprano nuovi occhi.
|
BERGAMO FILM MEETING XXVI
|