L’attrazione principale della quarta edizione del Busto Arsizio Film
Festival è stata senza dubbio la proiezione della copia recentemente
restaurata de Il Conformista
di Bernardo Bertolucci, nobilitata dalla presenza in sala di quello che è
probabilmente il più grande direttore della fotografia di tutti i tempi:
Vittorio Storaro.
Il “cinematographer” italiano (che più volte ha ribadito il concetto di come
il termine “direttore della fotografia” non renda correttamente l’idea dello
sforzo artistico dietro a quello che è in effetti uno dei ruoli più
sottovalutati nel campo del cinema), presente in occasione dell’apertura
della mostra “Scrivere con la luce” alla fondazione Bandera, ha colto
l’occasione per ricordare brevemente la lavorazione di quello che è da
considerarsi a tutti gli effetti uno dei punti più alti del cinema italiano
e mondiale.
Raccontata attraverso una frammentazione temporale che fa sembrare il
montaggio di Pulp Fiction
lineare a confronto (e che si dissocia dalla struttura temporale del libro
di Moravia da cui è tratta), la storia tratta di Marcello
Clerici (Jean-Louis Trintignant), giovane fascista nell’Italia di
Mussolini,e del suo disperato tentativo di crearsi un’illusione di normalità
rigettando un passato macchiato da un’esperienza omosessuale e da un
successivo omicidio.
La disperata ricerca del conformismo che da il nome al film, e
materializzata anche attraverso il matrimonio con la giovane borghese Giulia
(Stefania Sandrelli), dovrà però fare i conti con una missione che prevede
l’assassinio di un vecchio professore e mentore fuggito a Parigi, e con le
reminescenze di un passato riemerso dalle profonde sabbie in cui era stato
sepolto.
La pellicola presenta diversi livelli di lettura, non ultima la riuscita
connessione fra desideri repressivi a politica fascista. Viene qui
ulteriormente approfondito il tema, già esplorato da Bertolucci nel 1968 con
Partner, della dualità e dei
conflitti interiori personali che vengono a rispecchiare i cambiamenti
politici esterni del Paese. Le contraddizioni personali di Marcello
avvengono infatti parallelamente a quelle del declino del potere fascista in
Italia, e alla successiva caduta di Mussolini. La vicenda può anche forse
essere letta come una riflessione sul bisogno di una forte presa di
posizione, venuta però a mancare in un momento a dir poco cruciale per la
storia italiana. Il sottotesto politico si presenta ancora, in maniera meno
sottile, nel memorabile epilogo:
Il protagonista rincontra l’autista “colpevole” di aver risvegliato i
latenti desideri bisessuali del protagonista in gioventù, e lo accusa
apertamente davanti alla folla di essere un fascista nonché l’assassino del
professore parigino. In questo modo Marcello non soltanto incolpa lo
chauffeur di essere stato il responsabile della presa di coscienza della
propria ambiguità sessuale, ma si dissocia anche pubblicamente da un partito
fascista ormai sconfitto e perciò non più utile a fini del raggiungimento di
quel tanto agognato conformismo.
Il Conformista è una di
quelle rare opere in cui tutti gli individui coinvolti nella realizzazione
si superano, e ogni piccolo pezzo del puzzle sembra essere collocato al
posto giusto. Il sempre efficacissimo Trintignant (Il
grande Silenzio, Z) si presenta qui ai massimi livelli, così come il
montaggio di Franco Arcalli (Zabriskie
Point, 1900), le deliziose composizioni di George Delerue (La
Nuit Americaine, Le Mémpris) e le azzeccate scenografie di Ferdinando
Scarfiotti (Ultimo Tango a Parigi,
L’ultimo Imperatore). è
però il già citato Vittorio Storaro, con la sua strepitosa fotografia, a
spiccare su tutti.
Il film può vantare un uso di luci e ombre senza paragoni per l’epoca, e
rimane tuttora uno degli esempi più lampanti di come la “semplice”
fotografia di una pellicola possa elevarsi fino ad essere quasi considerata
un’arte a sé stante. La pellicola 35mm appena restaurata, fa poi mozzare il
fiato sul grande schermo, e permette di apprezzare al meglio la minuziosa
ricostruzione di un epoca decadente. Le composizioni barocche al servizio
della storia rendono perfettamente l’idea del declino di un impero e al
tempo stesso,del crollo emotivo del protagonista. Bertolucci, all’epoca non
ancora trentenne, dimostra invece ancora una volta di sapersi destreggiare
con abilità fra dissolvenze, complicati “tracking shots” e pure e semplice
eleganza formale.
Il regista riesce anche a sintetizzare perfettamente espressionismo ed
estetica fascista, omaggiando classici come
Triumph of Will di Leni
Riefenstahl e in generale il cinema classico tedesco dei primi anni trenta.
La versione restaurata presentava anche la celebre sequenza nota come “danza
dei ciechi”, tagliata poco dopo la presentazione a Cannes.
Si tratta di pochi minuti, che contribuiscono però a chiarire alcuni temi
della vicenda, e che visivamente sono appaganti per le pupille dello
spettatore tanto quanto il resto della pellicola.
Voto: 28/30
12:04:2005 |