SCHERMI D'AMORE 2002
commenti finali


Schermi d'Amore 2002 riconferma il suo carattere tipico, una organizzazione entusiasta ed una accoglienza cordialissima nella cornice elegante e raffinata di una incantevole città, carezzata dal sole e dai pollini di una primavera appena sbocciata ed ancora timida; uno scenario ideale per parlare d'amore, almeno al cinema. Ma il discorso sull'amore cinematografico in questo festival veronese si è svolto all'insegna di scelte non molto coraggiose. Innanzitutto una porzione troppo grossa è stata riservata al passato, con una abnorme mole di polpettoni che hanno ormai fatto il loro tempo e che almeno in alcuni casi appartengono, c'è da dirlo, ad una tradizione da cineteca per casalinghe, come il tormentone di SCANDALO AL SOLE la cui musica è stata scelta come colonna sonora del festival e ci ha tormentato nei minuti d'attesa prima delle proiezioni solleticando ricordi infantili come le torte della nonna o gli alberi di natale. Una scelta che dà ragione del massiccio afflusso di pubblico adulto forse ulteriormente incoraggiato dal servizio gratuito di baby-sitting offerto da una agenzia locale appositamente per il festival. Che i signori di mezza età vadano al cinema è cosa gradita e segno di una comunità dal livello culturale elevato, ma la programmazione del festival e quella vena sottile di spettacolarità mondana da cui è sembrato percorso, fa sperare per le prossime edizioni ad un dirottamento dell'asse portante nella direzione di un cinema meno soprammobile e più problematico. Il senso dei festival, io credo, non sia quello di offrire diversivi ai rituali consunti del sabato sera, ma promuovere il cinema che è escluso dai multiplex ristabilendo l'equilibrio dovuto tra made in USA e resto del mondo e, soprattutto, mobilitare un dibattito sulle nuove frontiere di questa arte così moderna e così popolare, cercando di individuare, in un panorama cinematografico internazionale, i percorsi che si proiettano in modo convincente verso il nuovo, il diverso, il futuribile. E di nuovo s'è trovato poco anche nei dodici film in concorso. D'accordo, non abbiamo visto le pellicole della Hollywood più mangereccia, i vari Pearl Harbor, le mummie, gli Schwarzenegger, ecc... ma ci mancherebbe altro! I film proposti in concorso non sono poi molto diversi da quelli che annualmente ci propina la distribuzione cinematografica ufficiale, con trame lineari e finali coerenti, facili sentimentalismi anche laddove gli esiti sono tragici, risaputa tendenza a riciclare una certa idea di cinema che si fa strada ormai da sempre confinando ai bordi la sperimentazione, by-passando volutamente una ricerca formale che sollevi problemi di linguaggio e di estetica. Il film MY BROTHER TOM di Dom Rotheroe è stato premiato come Miglior Film dalla Giuria Giovani e ha ricevuto il premio come Miglior Contributo artistico da parte della Giuria Internazionale, con motivazioni quantomeno opinabili che parlano di "stile innovativo" ed "audacia con cui affronta un tema scabroso". Vada pure per "lo stile innovativo" che, sebbene non sia poi così originale con la sua scolastica fedeltà al Dogma di Von Trier è comunque ben congegnato e si discosta dal tradizionalismo degli concorrenti, ma avrei qualcosa da ridire sulla presunta "audacia" nell'affrontare un tema scabroso. Audace, a mio giudizio, sarebbe stato riservare un minimo di pietà ai personaggi 'violatori', delinenandoli come vittime anch'essi di una male oscuro su cui occorre riflettere, suggerendo l'idea che, come diceva il grande De Andrè [che dio l'abbia in gloria!], "c'è poca colpa nell'errore e poco merito nella virtù"; ma invece no, il pubblico e la giuria devono avere ben chiaro chi è il colpevole e chi la vittima, cosicché possano immergersi nella spettacolarità del dramma, scaricare un po' d'adrenalina contro il cattivo, farsi "endorfinizzare" dai bei volti puliti dei protagonisti, premiare gli autori di questo divertissement fuori programma e poi tornare a casa a vedere il Maurizio Costanzo Show sparando a zero contro talebani e pedofili. Far piangere è facile e tentarlo non è audace. Cosa molto difficile, invece, è far pensare.
Che dire invece della scelta di EL CIELO ABIERTO come miglior film da parte della Giuria Internazionale e di quella popolare? La "azzeccatissima galleria di personaggi di contorno" di cui si parla nella motivazione del premio è fatta da tipi umani ben disegnati ma ormai risaputi [mi viene da pensare ai Nuti, ai Pieraccioni, alle commediole americane, ecc...] che, con una felice orchestrazione, raccontano una storiella senza sbocchi, divertente ma artificiosa, slegata dalla vita reale e quindi preclusa a riletture esistenziali. Un film gradevole e ben fatto, innocuo nella sua fruibilità, ma se questo è il livello su cui dovrebbe viaggiare il cinema del futuro, negli ultimi cinquant'anni non abbiamo fatto grossi passi avanti e forse qualcuno indietro, se si considerano i molti autori off-side. La coincidenza tra giudizio critico e giudizio popolare, inoltre, non è buon segno: un cinema che mette tutti d'accordo in genere non è un cinema alto; quando l'intellettuale [nella fattispecie il critico o il membro della giuria] è in perfetta linea con la massa è venuto meno al suo ruolo, qualcosa è andato storto, o forse troppo diritto: io credo in una cinema che spacchi le opinioni, che recida legami, che crei conflitti, perché l'evoluzione e la crescita, per definizione, passano attraverso la crisi.
Tra tutti avrei premiato THE LAST BALL di Piter Callahan che sebbene non brilli per né per tecnica registica né per sofisticazioni di sorta, almeno si offre con una deliziosa onestà creativa; rifiutando modelli narrativi stereotipati e facili sentimentalismi da supermercato viaggia in un universo ingenuo e autoreferenziale che è al di fuori di discussioni di stile proprio perché pregno di immediatezza, di sincerità, fedele trasposizione in immagini e storie di una sensibilità profondamente umana, di quel soffio caldo di umanità che accomuna i dipinti dei primitivi nelle caverne alle istallazioni post-umane delle biennali veneziane, quel soffio sottile che caratterizza la grande arte oltre i volti e le forme che essa può assumere nel tempo.
Le sezioni panorama e quelle occupate dai corti, sono state di ben altro spessore, riconfermando una vecchie teoria secondo cui il meglio nei festival è riservato alle sezioni di contorno al concorso, laddove la libertà creativa non è soffocata dall'ebbrezza della competizione da stadio o dalla ottusità di chi vuole rimanere avvinghiato alle cartoline del passato. Abbiamo avuto modo di vedere anteprime come INNOCENCE di Cox e THE DARK BLU WORLD di Jan Sverak, che si spera arrivino presto nelle nostre sale.
Da evidenziare come una nota postiva anche la le sezioni sul cinema veronese e la retrospettiva su Tretti, una operazione di archeologia cinematografica che tenta di riportare alla luce un cinema sommerso, frammento di passato dimenticato e forse materia preziosa per la cultura della settima arte.
Poco si può dire sulle proiezioni del mattino riservate alle scuole materne ed elementari, a parte elogiare l'originalità di una iniziativa che ha permesso nello stesso tempo di promuovere il cinema dell'animazione, una delle tante vie percorribili per il futuro cinematografico, e diffondere la cultura dell'immagine presso le "nuove generazioni" offrendo una ipotesi di formazione alternativa al nozionismo di maestrine zitelle e ai lavoretti in classe per la festa del papà.
Insomma, parafrasando il titolo del saggio che in questa mostra è stato inaugurato si può concludere: "ombre e luci sulla città - Verona ed il cinema"


Mirco GALIE'
28 - 04 - 02


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