veneto jazz presenta...

 

Wynton Marsalis

Jazz at the Lincoln Center Orchestra
Gran Teatro La Fenice 28 luglio 2009, Venezia
 

di Gabriele FRANCIONI

 

30/lode

 

Wynton Marsalis, messaggero del jazz

 

Premessa: un grazie a VENETO JAZZ per aver riportato una big band in territorio italiano. Altri (pochi?) fortunati possono dire di aver visto quella di Maynard Ferguson, ma non noi.

 

Uno dei grandi vantaggi che si ha quando si attinge a un secolo di repertorio jazzistico è quello di poter variare la scaletta dei brani da concerto a concerto.

Con grande difficoltà, peraltro, da parte dello spettatore, intento a riconoscere le composizioni eseguite.

Wynton Marsalis, considerato unanimemente il massimo trombettista e forse il più importante musicista jazz vivente, ha scelto ormai da tempo la strada di un approccio ipertestuale alla totalità del patrimonio compositivo jazzistico (con qualche sensibile eccezione).

Dai tempi dei “Jazz Messengers” di Art Blakey e del quintetto di Herbie Hancock - 1980/1, appena ventenne - Marsalis si è proposto, oltre che come inarrivabile virtuoso del suo strumento, anche come teorico e “storico”, teso a ridefinire i confini di un genere, dal quale esclude alcuni momenti salienti (il periodo più “cool” di Davis e l’intero Jarrett!), più volte definiti “jazz improprio”.

Quei “link” tra momenti lontani della storia del genere, quindi, non toccano tutte le tappe di un’evoluzione infinita e forse ancora indefinita.

 

Bene ha fatto VENETO JAZZ a proporre sia Keith Jarrett  (addirittura a Mantova) che Wynton Marsalis (alla Fenice di Venezia) in un unico progetto musicale, che molto poggia sull’intento didattico e la tangibile comunicazione di un sapere.

Proporre i due antitetici approcci alla materia - sperimentazione senza confini versus tradizionalismo spinto - rappresenta il modo migliore per far conoscere ai più giovani l’intera gamma di stili e per costringerli, per così dire, a un confronto obbligato, più che fomentare anche tra loro un dibattito già acceso tra intenditori e critici di professione.

 

I “summer workshops” di VJ si muovono quest’anno da Bassano del Grappa e arrivano fino all’isola di San Servolo, trascinandosi dietro un’impressionante serie di date: Roy Haines, George Benson, Stefano Bollani gli altri concerti in Veneto; Fabrizio Sotti, Trio Madeira Brasil, Richard Galliano & Charles Lloyd solo i principali eventi della parte veneziana della rassegna, il “Venezia Jazz Festival”, appunto.

 

Uno in terraferma, quindi, e l’altro in laguna, in un dialogo a distanza che da solo conferma quanto la disputa sulle presunte posizioni conservatrici di Marsalis aiuti solo a far crescere l’interesse attorno a un tipo di musica che resiste meglio di altre alla sfida del downloading.

Se, anzi, molti riconoscono ormai solo nella dimensione “live” l’àncora di salvezza per il “prodotto musica”, è doveroso sottolineare come questo valga ancor di più per il jazz, che mai potrebbe vivere senza l’esistenza di eventi come V.J. o gli storici Umbria Jazz e Montreux Festival, catalizzatori di attenzioni da parte di preparatissimi e appassionati fan europei.

è noto, poi, come siano gli stessi musicisti americani a sostenere il ruolo fondamentale dell’Europa nel tener desto l’interesse in un momento cruciale (quello estivo) dell’attività concertistica.

 

“The House of Swing”

 

Così Marsalis definisce la “Jazz at the Lincoln Center Orchestra”, vero e proprio laboratorio e palestra per quella ricognizione ipertestuale di cui si diceva all’inizio.

 

Si prende l’intera storia del genere e lo si sottopone ad un’ardita, ma geniale operazione tesa a “swingare” l’impossibile.

Stasera si applica lo swing al bebop, a Monk (“una musica superlogica”, come da definizione del trombettista di New Orleans).

Non solo Monk, però, perché altrimenti salterebbero i collegamenti, i nessi stabiliti o trovati dai musicisti - tutti veri e propri filologi e non semplici esecutori: grandi interpreti, ma anche eccellenti arrangiatori, come il bianco, poliedricissimo Ted Nash - i nessi, dicevamo, tra epoche lontane.

La tendenza, quasi per statuto, è comunque quella a riportare tutto a un centro ben saldo, che gira attorno agli anni ’30 e alla figura di Duke Ellington (e Goodman, in subordine).

 

 

Si swinga anche Lou Donaldson, plausibile, e persino Maurice Ravel, già meno preventivabile (!).

Altro “must” è quello della sintesi: i 17 minuti originari dei lenti ¾ del “Bolero” vengono strizzati e concentrati in una manciata di suoni coloratissimi e veloci, come anche “Braggin’in brass” di Ellington, quattro, cinque minuti al massimo.

 

14 straordinari strumentisti + 1, il leader, che ha la precisa funzione di restare in secondo piano, a coordinare piuttosto che sovresporsi, a creare l’amalgama piuttosto che lanciarsi in a-solo in necessari, anche se molto chiamati dal pubblico.

 

Le scalette della J.L.C.O. sono sempre a sviluppo tematico, quasi a stimolare il pubblico e sfidarlo in una tenzone dove vanno individuate le logiche che legano un brano all’altro.

 

Monk, quindi, ma anche altro.

Le composizioni del pianista, infatti, sono solo quattro: “We see”, “Epistrophy”, “Ugly Beauty” e “Skippy”.  

Tre quelle di Ellington: “Braggin’in brass”, “Single petal of the rose” e un’altra dal titolo, per ora, vacante.

A chiudere, brani dello stesso Marsalis, come “Brass song” - proposta dopo l’avvio di “We see” - e altri due pezzi in chiusura di serata.

In mezzo a tanta meraviglia, il citato “Bolero”, stretto tra Monk e Ellington, e il classico “Blues walk” di Lou Donaldson.

 

 

Arrangiare la storia del jazz

 

Quello che affascina maggiormente della restaurazione di Marsalis è il tentativo di preservare ogni era precedente, diciamo così, al cool jazz, facendone convergere i parametri espressivi, quali che siano, verso il centro, ovvero lo Swing inteso come up-beat tempo e canonizzazione della durata degli a-solo, oltre che come strumentazione.

Un aspetto legato principalmente all’idea di arrangiamento, più che di armonia.

 

è ovvio che, col senno di poi garantito dallo studio di più di un secolo di musica, il musicista di New Orleans non si limiti a clonare la filosofia delle big band ellingtoniane, ma riesca a includere l’universo bebop nel proprio universo espressivo, estrapolandone principalmente i temi, che vengono poi rallentati o velocizzati (se possibile) a seconda dei casi.

Riarmonizzare, adattare alla strumentazione di un complesso di 15 elementi, ri-arrangaire per orchestra i brani di Monk, oltretutto, è un’opera a dir poco impegnativa e di per sé caratterizzata da un tratto fortemente (ri)creativo.

Quindi, per il trombettista che ha intravisto una sorta di punto di non ritorno nel jazz degli ultimi tre/ quattro decenni, si tratta di novità, comunque la si voglia vedere.

 

Girando attorno al centro che Marsalis si è dato (Ellington/Basie/Goodman), le composizioni sia di Ellington che di Monk sembrano fuoriuscire - rinnovate, come si diceva - da una sorta di tempo assoluto (o non-tempo), da un tempo unico, che non appiattisce le caratteristiche dei brani “originali”, ma ne esalta le qualità compositive intrinseche, piuttosto che il momento interpretativo solistico.

 

Arrangiamenti, quelli di Marsalis, Ted Nash, Sherman Irby & co, che democraticizzano l’offerta musicale di ogni incontro col pubblico, rendendo accessibili a tutti anche composizioni tuttora ostiche per la maggioranza degli ascoltatori.

 

Certo, non osiamo neanche immaginare il pensiero di Marsalis su figure come Anthony Braxton, tanto per fare un nome, ma se per gli intenditori il bebop è ormai preistoria e il free-jazz una categoria desueta, non bisogna dimenticare lo scopo didattico e divulgativo di questa ensèmble:  insegnare a categorie di giovanissimi, nati e cresciuti con l’hip-hop nelle orecchie, a recuperare un grado zero della cultura musicale nera, recuperando una memoria storica sempre più a rischio.

Vista in questo modo, la missione del trombettista è di altissimo valore filologico e culturale.

Siamo convinti, in definitiva, che swingare anche l’impossibile serva ad attirare i giovanissimi verso “gli originali” (Monk e tutti i compositori riproposti dalla JLCO: a Venezia ne abbiamo potuti ascoltare solo alcuni), che verranno poi riscoperti in un secondo momento e sui quali verranno fatte scelte personali.

 

 

Non dimentichiamo, più o meno a margine del già detto, come Thelonious Monk si sia formato sulla musica assoluta, oltre-jazz di Duke Ellington, riprendendo e sviluppando oltretutto lo stile pianistico del maestro di Washington D.C.

Esiste, quindi, anche una sottile continuità tra epoche e stili molto diversi.

 

Swingin’at the Fenice: Jazz at the Lincoln Center Orchestra.

 

Il concerto veneziano è una straordinaria vetrina per musicisti di prima eccellenza, dove anche il motore sempre acceso della sezione ritmica, apparentemente “anonima”, è in realtà di primissimo valore.

 

Una ribalta appena più evidente degli altri è lasciata al sax alto di Sherman Irby, che troneggia in mezzo ai “reeds” (Marsalis la chiama, più prosaicamente e semplicemente, “sax-section”).

I primi applausi a scena aperta sono per il gigante nero, che segue le velocità elevate di “The stage West”, addirittura sporcando quel tanto che basta il suono dello strumento nel momento più “eretico” del concerto, per poi assestarsi su timbri e tempi più compassati nel meraviglioso “duetto” con il trombone di Vincent Gardner in “Blues Walk”.

 

La scaletta propone un inizio a velocità doppia, come previsto: una “We see” mai ascoltata prima sembra essere il manifesto teorico e pratico dell’orchestra e sintetizza tutto quello che si è detto prima, volando sopra Monk e limando ogni possibile complessità ritmica, ogni alterazione accordale e fissando i dettami etici di Marsalis.

 

Brass Song” comincia a concedere brevi, necessari spazi ai solisti.

Tra tutti spicca Marcus Printup, quarta tromba, che si prende una ribalta che non avrà più (purtroppo…) nel resto della serata.

Sembra quasi che –doppiando Irby- ci si possa prendere qualche libertà solo all’inizio, per poi rientrare nei ranghi. è la legge dell’orchestra!

Il tempo cala leggermente.

 

Con “Epistrophy” viene riproposto uno dei temi eccelsi di Monk, ormai assurto allo status di standard da decenni. Non capiamo subito di quanto il tempo sia effettivamente più veloce dell’originale, ma l’effetto generale è esaltante, grazie a una sezione ritmica per un attimo in primo piano e una dinamica complessiva eccelsa, grazie a cui la frase spezzata monkiana viene ri-tessuta e cucita alla perfezione.

 

La composizione successiva, di Ellington, soffre, per così dire, solo di una lunghezza che sembra eccessiva dopo il trittico iniziale.

Joe Temperley, sax baritono, ha modo di applicare la propria destrezza a un piano non solo espressivo ma anche tecnico, data la velocità del brano. Peccato non conoscere la paternità di ogni arrangiamento, ma supponiamo che dove non viene sottolineato sia sempre del band-leader.  

 

Qui il concerto svolta e propone –almeno per chi scrive- un secondo trittico di grande snellezza, ma anche di grande potenza.

 

“Ugly Beauty” (Monk) e “Blues Walk” comprimono forse una delle perle del concerto: l’incredibile “Braggin' in Brass" di un meno noto Ellington del ’38, proposta a mille all’ora e di difficilissima esecuzione, con frasette spezzettate di tromba con la sordina, quasi ironica nel tono evocativo della golden era dei Thirties. Anche i tromboni hanno la sordina, costretti a passaggi quasi impossibili da eseguire correttamente a questa velocità (vale anche per le trombe).

Finalmente Marsalis si concede un a-solo calmo/frenetico, breve, brevissimo.

 

Il dittico Monk/Donaldson  non è di una “bellezza brutta”, ma di assoluta magia, a metà tra il meditativo e il melanconico.

Ugly beauty” suggerisce un ritmo appena più rallentato e propone fraseggi consecutivi dei sax, che si alternano in una gara a chi disegna la frase più breve. Eppure l’insieme che ne risulta è di rara forza, di elastica potenza.

Blues walk” - laddove Monk viene “semplificato” - subisce un trattamento di articolazione, allungamento, stratificazione e, forse grazie alla sua struttura semplice in dodici battute, si predispone a un drammatico scambio di a-solo tra Irby e Gardner, che producono fraseggi che sono quasi un lamento, ma mai trascinato.

Qui si sente il ruolo dell’orchestra, che sembra intervenire a contenere gli eventuali eccessi dei solisti.

Pathos puro!

 

La “Skippy” che segue, sempre e ancora Thelonious Monk, è arrangiata da Ted Nash e forse soffre di eccessiva lunghezza, che, sommata a una parossistica difficoltà esecutiva, la rendono un po’ compressa, irrisolta.

 

Splendido il pre-finale col “Bolero”, a velocità supersonica e con sempre Irby sugli scudi, squillante e preciso, e una magnifica, struggente “Single petal of the rose” di Duke Ellington, unica pausa intimistica, che regala il proscenio al baritono di Temperley e al pianoforte di Dan Nimmer.

Poesia e ombre, nella lentezza sospesa di una composizione in cui la sezione ritmica non compare.

 

Il finale è tutto di Marsalis, con una coppia di brani legati fra loro, il secondo segnato da una ritmica latineggiante affidata alla mano sinistra di Nimmer, sul quale il leader si produce in un a-solo splendente e anche disteso nella sua durata.

 

Bis in piedi e uscita finale con i musicisti in parata, uno dietro l’altro, in pure stile “When the saints go marchin’in”.

SITO UFFICIALE

veneto jazz  PRESENTA...
 

Wynton Marsalis

Jazz at the Lincoln Center Orchestra
Gran Teatro La Fenice 28 luglio 2009, Venezia