
SYDNEY,
AUSTRALIA: 7 - 21 GIUGNO
testi e immagini di ALBERTO
FURLAN
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:::: GIOVEDI' 13 / VENERDI'
14 ::::
:::: SABATO 15 / DOMENICA
16 ::::
:::: LUNEDI' 17 / MARTEDI'
18 ::::
:::: GIOVEDI' 20
GIOVEDI' 13 giugno
Dalla cornice storica dello State Theater di Sydney, Australia, si
apre la cronaca di Kinematrix per questa seconda settimana del 49esimo
Sydney Film Festival.
Il festival si propone fin dai suoi primi anni di dare voce alle piu'
disparate esperienze cinematografiche mondiali e, mai come quest'anno,
la presenza di un cartellone ricchissimo di avvenimenti ne è testimone.
Piu' di venticinque nazioni sono rappresentate nelle produzioni di questa
selezione, che ci portera' dalla piccola citta' di confine iraniana alla
scena hard-rock underground pechinese, dal reportage fotografico di guerra,
al 'paesaggio significante' dell'Outback australiano.
Il film del regista Ann Hui, JULY RHAPSODY (Nan Ren Si Shi, Hong
Kong/China, 103m) e' l'intensa storia di una coppia che si ritrova, dopo
vent'anni di matrimonio, a fare i conti con un passato mai risolto.
Lam (Jacky Cheung) e' un insegnante liceale, oppresso dalla modesta condizione
economica in cui vive, soprattutto di fronte suoi, molto piu' agiati,
coetanei. E' sposato con Ching (Anita Mui), conosciuta - ed amata da subito
- sui banchi di scuola, hanno due figli.
L'attenzione che una delle studentesse gli rivolge da prima annoia Lam,
il quale, pero', ben presto si trova attratto dall'adolescente spudoratezza
della ragazza.
La situazione tra Lam e la giovane ha pero' uno strano parallelo nella
passata vita di coppia, allorquando si scopre che sua moglie Ching ha
subito un aborto perche' incinta del proprio insegnante, tanto stimato
dallo stesso Lam.
Lam aveva consolato ed aiutato Ching in quei difficili momenti, poi si
erano sposati, vivendo, nascondendo quello che non avevano mai voluto
affrontare: l'amore compassionevole di Ching e il senso di responsabilita'
di Lam.
Come il fiume descritto dalle poesie, imparate ed amate nei giorni della
scuola, la vita scivola uguale.
Ma le inondazioni minacciano di cambiare il paesaggio, una notte fuori
casa per Lam cambia l'ordine delle cose per sempre. Ed e' proprio al fiume
che i due protagonisti si dirigeranno, una volta che i conti col passato
siano stati fatti, una volta che tutto sia perduto e, proprio per questo,
tutto possa ricominciare.
Abbiamo assistito alla prima mondiale di THE TROUBLE WITH MERLE
(Australia, 60m), documentario della regista Marée Delofski.
L'opera narra la misteriosa storia delle origini di una famosa diva hollywoodiana
degli anni '40 e delle sue supposte origini tasmane. Almeno questa la
versione che tutti in Tasmania, la provincia più periferica dell'Australia,
rendono alla accurata indagine dell'autore.
Merle Oberon nasce Queenie Thompson nel 1911 di origini anglo-indiane.
La leggenda inizia quando la sua casa produttrice, in quegli anni caratterizzati
da un profondo razzismo nei confronti delle attrici di non chiare origini
occidentali, crea il nome d'arte Merle e rivendica origini tasmane. Merle
nata in Tasmania, si sarebbe trasferita giovanissima in India e di lì
in Inghilterra.
La storia assume caratteristiche ben diverse, però nella stessa
Tasmania, dove, secondo gli abitanti del luogo Merle sarebbe la figlia
illegittima di un proprietario d'albergo e di una cameriera di origini,
però, cinesi. In India, per contro, non esistono prove certe della
nascita o permanenza di Merle.
La stessa Merle, in aggiunta, si reca, nel 1978 nella sua terra d'origine,
ospite d'onore nel locale concorso di bellezza. Durante questa visita
non concede interviste, quasi volesse nascondere qualcosa.
Merle muore pochi anni dopo, portando con sé il suo segreto.
Marée Delofski ripercorre le strade della leggenda di Merle con
ammirevole caparbietà passando dalle colline tasmane agli archivi
di Calcutta, dal Canada ad Hollywood, alla ricerca non della verità,
ma dei motivi che l'hanno nascosta. Dove il mito si infittisce, la verità
diventa multipla ed ognuno può vantare una propria versione dei
fatti. Gli abitanti dell'isola australiana adottano Merle per la necessità
di sentirsi un po' meno alla periferia, per sperare che "una di loro"
ce la possa fare nel mondo di Hollywood.
Alla proiezione è seguita una breve discussione con l'autrice che
ha risposto alle domande del pubblico sulle motivazioni e le metodologie
impiegate.
A dimostrazione che il mistero di Merle e' ancora vivo, la testimonianza
di una spettatrice, anch'essa di origine anglo-indiane che ha dichiarato
che la sua bisnonna si vantava di essere cugina di terzo grado di Merle!
TORNA SU'
VENERDI' 14 giugno
Le intenzioni che hanno motivato la regista Sherine Salama nella fattura
dello straordinario documentario A WEDDING IN RAMALLAH (Australia,
91m) a cui abbiamo assistito oggi, sono chiare fin dall'inizio.
Lo sguardo vuole essere un'indagine sincera e non stereotipata della popolazione
palestinese, un'immagine diversa da quella così tristemente dipinta
dai media in questi mesi.
Il risultato si rivela da subito efficace e non solo grazie alla generosa
spontaneità dei protagonisti, o alla chiara "simpatia"
dell'autrice, anch'essa di origini palestinesi anche se cresciuta in Australia,
ma soprattutto grazie allo sguardo della stessa, mai giudice, ed alla
sua, quasi incredibile (data la situazione drammatica in cui gli eventi
si svolgono), padronanza tecnica dei mezzi ripresa, suono e luci.
Nel luglio del 2000, mentre Arafat si trova negli Stati Uniti per gli
accordi di pace, Bassam torna dall'Ohio nella sua terra d'origine per
un matrimonio combinato. Nei giorni che seguono assistiamo ai preparativi
rituali per la celebrazione, alle paure della sposa, ai consigli dispensati
dai parenti tutti. La regista ci porta all'interno di uno straordinario
mondo che descrive la gente di Ramallah - e qui dovremmo aggiungere, tristemente,
finalmente - come persone con sogni ed aspettative, gente normale ripresi
nei comuni preparativi in vista del 'fatidico giorno'.
Gennaio 2001, Bassam è ritornato negli USA, Mariam, sua moglie
è ancora a Ramallah, vive con sua cognata, in attesa del visto,
fuori l'esercito israeliano spara per le strade.
La regista ci porta all'interno della vita matrimoniale della coppia divisa,
Bassam, a Cleveland, ha due lavori, Mariam aspetta il suo ritorno, nascondendosi
sotto le coperte nelle notti di bombardamenti.
Alcuni mesi dopo Bassam torna a Ramallah per sveltire, riuscendoci, le
pratiche per l'espatrio della moglie. Una volta negli Stati Uniti, Mariam,
che non parla inglese, si ritrova a vivere chiusa in casa, ad aspettare
il marito alla sera, alle prese un mondo che, anche nella banalità
del quotidiano - grottesca la scena dell'allarme antincendio che suona
quando Mariam cucina a fuoco troppo alto - non le appartiene.
È, in verità, una lotta per la sopravvivenza, quella a cui
abbiamo assistito, che fosse sotto il fuoco dei carri armati israeliani
o nella casa prefabbricata sotto la neve dell'Ohio. La regista ci regala
con generosità i momenti più significativi del rapporto
di coppia, la straordinaria quotidianità di una zona di
coprifuoco nel mezzo del civile stato americano.
Il film, di formidabile carattere educativo, ha ricevuto sentiti applausi
a fine proiezione.
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SABATO 15 giugno
Australia. Se vi trovate su una strada, a duecento miglia dalla prossima
stazione di servizio e ad altrettante dall'ultima che avete passato, siete
nell'Outback. Lungo la Stuart Highway, l'unica strada che taglia da nord
a sud il centro desertico d'Australia, abbiamo fatto la prima, folgorante
quanto indelebile, conoscenza con l'Outback, l'essenza del continente
australe.
L'immaginario associato a questo luogo dai confini non certi, ha colpito
(o addirittura, costituito per intero, in alcuni casi) come si può
facilmente comprendere, la produzione cinematografica australiana.
THE OUTBACK (Australia, 90m) è un documentario che investiga
il ruolo del paesaggio - e della cultura ad esso associato - nella produzione
cinematografica e televisiva australiana.
Seguendo diverse linee d'analisi, la voce narrante - lo storico cinematografico
Graham Shirley, è la nostra guida nel percorso - ci conduce in
un viaggio che descrive il sentimento d'amore delle popolazioni indigene
per la terra di cui sono stati privati, gli anni dei primi insediamenti,
gli allevamenti dalla sterminata grandezza.
I tratti caratteristici della nazione australiana, e dei suoi abitanti
sono parte dell'immaginario collettivo che si espande nello spazio infinito
del centro desertico, la tipologia del Bushman, fa da controparte
al territorio descritto.
Estratti dai piu' significativi titoli della produzione australiana fungono
da esempio: da JEDDA a THE OVERLANDER, passando per MR. CROCODILE DUNDEE
fino a PRISCILLA. LA REGINA DEL DESERTO, il paesaggio diventa oggetto
e topos culturale, significante e significato allo stesso modo.
THE OUTBACK è ora anche un Dvd che raccoglie in 180 minuti di filmati
gli esempi principali della documentaristica australiana dall'inizio del
20esimo secolo ai giorni nostri.
Per informazioni: http://www.filmaust.com.au
TORNA SU'
DOMENICA 16 giugno
Max, un ragazzino di dieci anni, viene 'folgorato' dalla chitarra
dello zingaro Miraldo un pomeriggio d'estate in una trattoria della provincia
francese.
Deciso ad imparare a suonare, il giovane convince Miraldo a dargli delle
lezioni. Cosi' inizia SWING (Francia, 90m) ultima opera del regista
Tony Gatlif (LATCHO DROM, GADJO DILO e VENGO).
E così inizia il viaggio di Max in un mondo totalmente diverso
da suo, anche se solo in un quartiere diverso dal suo, nella città
della nonna, durante una vacanza estiva.
È il mondo dei manouche, il popolo zingaro francese, la
musica gypsy jazz del grande Django Reinhardt.
Ma Swing è anche il nome di una ragazzina di cui Max si innamora,
l'altra sua guida - insieme a Miraldo - attraverso quest'esperienza di
vita.
Il regista ci porta con Max dentro il mondo degli zingari francesi con
una 'misura' raramente ritrovata in altre pellicole. Max impara la storia
delle deportazioni naziste, la fiera e autonoma cultura degli zingari,
la vitalità e l'amore per la musica. Come Max lo spettatore è
portato a simpatizzare per i protagonisti della vicenda, ma proprio come
per il giovane protagonista del film, nessuna facile illusione di un'integrazione
possibile lascerà il posto alla realtà.
Max partirà con la madre per la Grecia alla fine del film, e la
giovane Swing getterà i quaderni - che non saprebbe come leggere
- che ha ricevuto in dono dal ragazzo.
La scena del concerto femminile eseguito da ragazze francesi su musiche
arabe e manouche è emblematica: bionde ragazze, novelle Marianne,
eseguono con trasporto la musica del popolo gitano con un trasporto e
generosità che, per un momento, fa possibile tutto.
Tuttavia, i due mondi resteranno separati.
La colonna sonora è trascinante e straordinaria, ma mai sopra le
righe, descrive perfettamente, come le altre caratteristiche della pellicola,
il mondo in cui siamo trasportati. Il tutto con grazia ed entusiasmo mai
sfacciati od indulgenti.
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LUNEDI' 17 giugno
Quando NIRVANA incontra Doom, passando per TRON: ovvero INFERNO
(film corto, regno unito, 2001).
Jaz e Naz sono due ladruncoli che vengono presi ed incarcerati in una
prigione di massima sicurezza e supertecnologica nella Londra dei giorni
nostri. I programmatori di un gioco di prossima realizzazione (Inferno,
appunto) riescono ad introdursi nel sistema che monitorizza le funzioni
vitali dei prigionieri e li trasportano nel cyberspazio del gioco per
renderli protagonisti, loro malgrado, del prodotto.
Ma qualcosa va storto: i due, la cui non-violenta personalità male
si adatta allo "sparatutto" in cui sono calati, riescono a convincere
la cattiva cibernetica ad abbandonare la violenza. Il gioco impazzisce
a causa del bug umano ed i creatori finiscono rovinati dal fallimento
economico della loro creazione.
Un divertente film corto che ci ha fatto ricordare le nottate passate
davanti al primo Doom, una sorta di NIRVANA con happy end surreale, quando
l'ultima scena mostra la protagonista cattiva del gioco arrivare, sparando,
nel 'mondo reale' (ammesso che la distinzione abbia ancora senso, a questo
punto).
Gli autori si divertono con citazioni dai film cardine del cybercinema,
come TRON e MATRIX, suggerendo come la componente umana del prodotto elettronico
resti sempre cardine fondante.
Alla fine degli anni ottanta, quando internet era una parola ancora sconosciuta,
in Australia, e più precisamente a Melbourne, dei brillanti giovani
definivano il significato della parola hacker.
IN THE REALM OF HACKERS (documentario, Australia, 55m) è
la storia di Phenix e Electron, i due principali esponenti di questa proto
subcultura cybernautica.
La storia, fedele ricostruzione degli eventi, racconta i primi passi e
l'ossessione della sfida ai sistemi che portava i due giovani a 'vivere'
anche per diciotto ore al giorno di fronte al computer.
Il documentario è anche la storia delle metodologie dell'indagine
poliziesca che ha portato al primo processo australiano per crimini informatici,
quando, nel gennaio del 1989 i due hackers sono stati accusati di aver
violato il sistema più sicuro al mondo: quello della NASA.
Il lavoro di Kevin Anderson è interessante sotto diversi punti
di vista. Descrive gli albori di quello che oggi è quotidianità,
ovvero internet, e si produce in un'indagine psicologica sulle motivazioni
dei due giovani. La sfida, non tanto alle istituzioni, quanto al sistema
operativo in sé, l'ossessione di riuscire dove altri hanno fallito,
la spavalderia e il piacere di essere riconosciuti, sebbene anche solo
sotto uno pseudonimo, sono alcune dei tratti salienti dei due protagonisti,
ovvero di un'intera cultura giovanile che oggi ha milioni di esponenti.
Peccato solo che il documentario si avvalga di giovani attori in luogo
dei reali protagonisti, che, comprensibilmente, hanno voluto mantenere
l'anonimato.
Uno dei feticismi principi dell'immaginario femminile sono le scarpe,
ed intorno alle scarpe delle protagoniste si costruisce tutto il film
PIEDRAS (spagna, 130m) di Ramon Salazar.
C'e' Isabel ricca collezionista di scarpe che però le compra di
una taglia in meno per poter frequentare un podologo-psichiatra; Adela,
amministratrice di un bordello dai piedi piatti con la figlia Anita, che
indossa solo della scarpe da ginnastica gialle; Leire fa la cubista su
quindici centimetri di tacchi "presi a prestito" dal negozio
di scarpe in cui lavora, Mariacarmen, infine, guida un taxi ed indossa
solo pantofole.
Il film si svolge con il classico intreccio di vite che alla fine entrano
una nell'altra per poi prendere nuove direzioni.
La prova è sostenuta dall'ottima interpretazione delle attrici,
tra tutte le almodovariane Angela Molina e Antonia San Juan, ma
questo diventa troppo spesso un pretesto.
Il finale felice è scontato, tutte trovano un proprio equilibrio,
una certa felicità, la liberazione dalle pietre sulla coscienza
che ognuna teneva.
Peccato che l'autore non abbia avuto il coraggio di liberare il film dall'ottima
prova delle sue protagoniste, per farlo vivere di vita propria.
Il risultato è cosi un ennesimo film spagnolo che indugia sulla
descrizione degli stereotipi femminili, più che sui reali personaggi.
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MARTEDI' 18 giugno
Quanto difficile è inseguire i proprio sogni se sei una ragazzina
di 18 anni, anglo-indiana, nella suburbia londinese? E quando difficile
è se questi sogni sono in netto contrasto con la tua famiglia?
Jess vuole giocare a calcio, sua madre è disperata perché
lei non sa nemmeno "cucinare un dal decente".
Inizia cosi il film BEND IT LIKE BECKHAM (USA, Regno Unito, Germania,
2002, 112m) della regista londinese Gurinder Chadha.
Jess conosce Jill, una ragazza inglese, con la quale stringe una forte
amicizia che si consolida sui campi di pallone, Jess agisce di nascosto
dalla sua famiglia per il piacere del gioco, Jill è aiutata dai
genitori e sogna di andare negli Stati Uniti, dove il calcio femminile
è rispettato e ben pagato dagli sponsor.
Naturalmente i sotterfugi di Jess vengono ben presto scoperti dalla famiglia,
ma dopo diverse vicissitudini, suo padre la lascia giocare la grande finale,
nella quale Jess e Jill vengono notate da un talent scout americano.
Il film si chiude sulla sofferta decisione della famiglia di Jess di lasciarla
andare negli Stati Uniti per una borsa di studio universitaria legata
al mondo del calcio femminile professionistico.
Il film è molto ben girato, divertente ed intenso, intelligente,
descrive tutte le manie ed ossessioni di una famiglia indiana in Inghilterra,
legata alla tradizioni ma che deve fare i conti con i propri figli nati
in un ambiente diverso da quello della Madre patria, in più, lo
stereotipo del calcio è sconvolto dalla diversa prospettiva attraverso
la quale viene osservato.
Chi ha apprezzato EAST IS EAST non potrà che amare questo film
la cui onestà è quasi disarmante.
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GIOVEDI' 20 giugno
L'autore del documentario ALL ABOUT MY FATHER (Alt Om Min Far,
Norvegia, 2001, 75 m) si espone in prima persona, come figlio, oltre che
come narratore, del protagonista della pellicola.
Esben Benestad è un medico di una piccola città norvegese,
ma è anche un travestito in cerca di identità.
Il film racconta gli stadi della vita del padre del regista, dal primo
matrimonio al divorzio, alla seconda unione, attraverso la sofferenza
di un individuo che si riconosce come padre, ma che vuole essere riconosciuto
anche come donna.
La pellicola vive una contraddizione nei termini stessi delle motivazioni
della sua realizzazione, essendo vista come strumento per le rivendicazioni
dei transessuali (da parte del padre) e come descrizione delle difficoltà
implicate dalla scelte del padre (da parte del figlio)
La contraddizione non si risolve che nell'abbraccio finale tra i due,
oltre i titoli di coda, ma non c'è soluzione, solo un sentimento
padre-figlio che va oltre le problematiche affrontate.
L'autore usa il bianco e nero per la narrazione, concedendosi alcune 'oasi
di colore' nei momenti più intensi del film, forse in modo fin
troppo didascalico, anche se fortemente evocativo.
Alla base del rapporto tra le cinque protagoniste del film TAKE CARE
OF MY CAT (Goyangirul Butakhae, Sud Corea, 2001, 113m) ci sono due
elementi volutamente in antitesi: il telefono cellulare, prolunga corporea
di queste ragazzine asiatiche fresche di nuovo millennio, ed un gattino
randagio.
Appena diplomante le protagoniste, muovono i primi passi nella vita del
lavoro, ma è un mondo difficile quello descritto nella pellicola,
che si svolge tanto tra uffici del centro e centri commerciali, quanto
in baracche lungo la ferrovia.
L'amicizia tra le protagoniste si perderà, come accade spesso ai
compagni di classe che crescono in direzioni diverse, ma a testimonianza
del passato vissuto (e di un possibile ritorno) sta proprio il gattino
randagio che cambia 'padrone' più volte durante il corso della
pellicola.
Il film descrive senza giudicare, ma a volte si perde in un sentimentalismo
giustificato in parte dallo sguardo soggettivo delle protagoniste.
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