SOLE NEGLI OCCHI
il trattamento



"Ciao, Marco."
"Ciao, papà." Erano quasi due anni che non lo vedevo.
E' stato sorpreso di trovarmi lì, perché non lo avevo avvertito. Non lo sapevo nemmeno io che sarei andato veramente da lui, anche se era un pezzo che ci pensavo.
Mi ha chiesto se mi andava di fare un bagno, perché faceva davvero caldo. Io ho detto di sì.
Siamo entrati in acqua. Il mare a quell'ora era quasi deserto. Erano tutti a mangiare, nelle pensioni.
Ci siamo fermati dove l'acqua arrivava alle ginocchia e lì lui mi ha detto che ero dimagrito e che ero bianco da far paura.
Io lo guardavo e mi sforzavo di sorridere.
"Ma tu tremi... Stai male?"
Mi ha messo una mano sulla fronte, come quando ero bambino. Mi sono scostato.
"Hai la febbre... "
Io ho detto che non era niente. Ma ha insistito perché uscissimo dall'acqua.
Ha detto di andare a casa sua. Là mi potevo riposare.
Così abbiamo fatto. Sono stato contento che non ci vedesse nessuno.
Se ci avesse visto qualcuno, avevo deciso di rinunciare. Era una specie di via che mi ero lasciata aperta: se mi vede qualcuno, non gli faccio niente.
Ma non ci ha visto nessuno.
Mi ha fatto sdraiare sul divano e mi ha preso la temperatura col termometro. Anche questo come da bambino.
Si è seduto dall'altra parte del salottino e si è messo a rimproverarmi perché andavo in giro così, se stavo male.
Lo diceva per riempire il silenzio. Non avevamo mai avuto un buon dialogo, a parte quando ero bambino.
Anche adesso non gli davo corda. Una volta ho persino chiuso gli occhi. Avrei voluto dormire e svegliarmi chissà quando.
La mia temperatura era a trentotto e mezzo. Lui è andato a prendermi un'aspirina. Poi mi ha messo una coperta addosso e ha acceso la televisione, quasi per farmi compagnia.
Ha tirato giù le persiane, per fare penombra e per tenere fuori il caldo. Era una cosa buona, perché dal palazzo di fronte avrebbero anche potuto vedere qualcosa di quello che sarebbe successo.
Mi ha chiesto di Elena e di mamma. Elena è sempre stata la sua preferita. Ogni tanto la sentiva ancora e sapeva su di lei più cose di me, che ci vivevo assieme. Sapeva che aveva un nuovo fidanzato e che si chiamava Paolo.
Con mamma invece non si sentiva da febbraio.
Quasi non lo ascoltavo. Guardavo la mia borsa. L'avevo lasciata vicino alla porta, a un tre o quattro metri. Ora era difficile andarla prendere, senza che lui lo notasse.
Pensando alla borsa, ho perso qualche parola, se no, appena sentito il suo discorso, lo avrei fermato. Si era messo a raccontarmi di come aveva cominciato a frequentare Maura, la donna con cui stava adesso.
Erano confidenze da uomo a uomo. Voleva che capissi come mai s'era innamorato di quella Maura. Ha raccontato prima con imbarazzo e dicendo qualche stupidaggine, poi molto più seriamente.
L'aveva conosciuta sul lavoro e con lei si era subito trovato. Alla sua età non aveva più pensato di potersi innamorare.
Non lo avrei voluto ascoltare. Ma standolo a sentire, per la prima volta l'ho capito. Ho provato questo suo sentimento d'amore per Maura, come se fosse successo a me.
Deve avermi sentito vicino, perché è diventato molto cordiale. Mi ha trattato come un amico e ha scherzato. Ho fatto finta di ridere assieme a lui.
Poi però s'è messo a giustificarsi per la questione dell'appartamento. Pensava che, ora che eravamo così in sintonia, potevo capirlo. Mi spiegava come e perché aveva ragione lui a togliere la casa a mia madre e a derubare me e mia sorella.
Ho cercato di ribattere. Ma anche adesso che lui non era niente per me, non sono riuscito a spiegarmi bene. Non mi veniva una frase giusta e compiuta davanti a lui, come se avessi ancora dodici anni. Era sempre mio padre.
Se ne è approfittato, come ha sempre fatto. Lo ha capito benissimo quello che volevo dire, che la legge era una cosa, ma la giustizia un'altra. Però non ha colto l'occasione di litigare, come faceva una volta, quando stava a casa e ci scannavamo un giorno sì e uno no.
Invece si è messo a fare quello conciliante: non ce l'aveva con noi figli; non ce l'aveva neanche con nostra madre. Ma l'appartamento lo doveva vendere, perché era suo: gliel'aveva lasciato suo padre e perciò non rientrava nella comunione legale.
Poi, mi ha fatto capire, che magari un domani a me e ad Elena ci avrebbe assicurato la nostra parte. Ci offriva di essere suoi complici, contro nostra madre.
Gli ho detto che era meglio non parlarne, che se no litigavamo. Mi rispondesse solo se voleva ripensarci. Era questo che ero venuto a chiedergli, là sulla riviera.
Mi ha chiesto se era mia madre che m'aveva mandato. Ho risposto che ero venuto di mia iniziativa e gli ho ripetuto la domanda: ci ripensava?
Dopo qualche cerimonia, ha risposto che non era giusto che gli chiedevamo questo. Me l'aspettavo e ho subito troncato il discorso. Mi sono voltato dall'altra parte e ho chiuso gli occhi. Anche se avesse acconsentito, non mi sarei potuto fermare, a quel punto, dopo tutti quei mesi che ci pensavo.
Ha creduto che lo facevo apposta, a non parlargli più, per una specie di ripicca infantile. E' stato un po' seduto a guardarmi, senza sapere che fare (sentivo i suoi movimenti) e poi si è stufato ed è andato di là.
Per un po' siamo stati così. Lui pensava che dormivo e io rimandavo il momento in cui mi sarei dovuto alzare. Rimandavo, ma non per paura. Per stanchezza. Era difficilissimo alzarsi e prendere la borsa e aprirla, eccetera.
Ma quando lui è andato in bagno e ha aperto il rubinetto della vasca, mi è parso di poterlo fare. Il fatto che non mi guardasse, perché era in un'altra stanza, mi permetteva di andare a prendere la borsa ed aprirla.
Sono andato e l'ho presa. L'ho aperta. Il coltello che ci avevo messo dentro mi è sembrato comico.
L'ho preso e mi sono alzato. Sono andato vicino alla porta del bagno e lì sono rimasto a cercare di sentire che succedeva dentro.
E' stato un momento lungo. Ho avuto paura che si mettesse a fare il bagno. Se avesse fatto il bagno, avrei dovuto aspettare chissà quanto, lì, col coltello.
Allora ho chiamato:
"Papà..."
Ma lui non deve avere sentito e poi forse avevo parlato troppo piano. Ho bussato e ho chiamato più forte: "Papà! Vieni fuori"
E' venuto fuori. Stava in mutande e per il resto era nudo.
Non ha visto subito che avevo in mano quel coltello, perciò mi ha guardato molto tranquillo, come a chiedermi che volevo, anzi quasi con preoccupazione che stessi male.
Io ho alzato il coltello e però non sono riuscito a darglielo addosso di punta. Glielo ho vibrato contro a casaccio e lui, istintivamente si è protetto il viso con il braccio.
Gli ho fatto un gran taglio sul braccio e poi ho continuato a dargli addosso con altri colpi alla testa, col taglio, col manico. Ma non mi muovevo bene, nella confusione.
Lui è riuscito a scostarsi. Con una forza insospettabile mi ha spinto via. Non sanguinava molto.
E' corso nel salottino e da lì m'ha guardato, sbalordito. Piangeva per il male. Ha guardato dietro di me verso l'ingresso dell'appartamento. Ho capito che voleva cercare di scappare, ma io stavo proprio in mezzo e gli sbarravo la strada. Allora s'è voltato verso la finestra e ha cominciato a tirare su la persiana. Gli sono corso contro per impedirlo, e nella foga ho sbattuto contro il vetro della finestra, che si è incrinato. L'ho colpito ancora. Lui si difendeva, agitava le braccia, cercando di tenermi lontano.
Sbattevamo in giro per la stanza, nei mobili. Ora sanguinava parecchio.
E' caduto, non per le mie ferite, ma perché è inciampato. Allora l'ho colpito, dall'alto, con un colpo preciso. Stavolta il coltello s'è infilato nel suo fianco ed è rimasto dentro.
Ha fatto un verso curioso, come un gemito, ma piccolo, più di preoccupazione che di dolore. Si è rialzato, prima su un ginocchio, poi in piedi, ed io sono restato a guardare. Non ce l'ho fatta più a colpirlo e poi il coltello gli era rimasto nel fianco, non avevo la forza di toglierlo di là. Così ho fatto un passo indietro. Ho badato solo a sbarragli la via dell'uscita. Lui è corso in bagno e si è chiuso dentro, a chiave.
Poi non è successo niente per un bel po'.
Nel mini appartamento faceva un caldo insopportabile e tutti i muscoli mi tremavano. Puzzavo di sudore.
E' passato tempo e io stavo là in piedi e lui nel bagno. Infine sono tornato vicino alla porta chiusa.
Da dentro si sentiva il suono di acqua che cadeva. Ho battuto di nuovo sulla porta e ho detto di nuovo:
"Papà..."
Da dentro non s'è sentito niente, forse quel gemito.
"Aprimi, aprimi..." ho detto. Ma stavolta non è venuto fuori.
In quel momento da fuori è cominciato a venire il rumore di musica e di una voce che parlava, amplificata. Ci ho messo un po' a capire che era una specie di spettacolo, che si teneva in un albergo di fronte. Uno spettacolo di un prestigiatore. Udivo la voce del prestigiatore che annunziava i suoi trucchi e quelle allegre del pubblico di adulti e bambini, che talvolta applaudiva.
Questo mi ha spinto a muovermi, mi ha ricordato che c'era molta gente nel resto del mondo e che qualcuno prima o poi sarebbe arrivato. Perciò ho cercato di dare una spallata alla porta del bagno. Ma non sono riuscito a romperla. Allora sono andato a cercare la scatola degli attrezzi. Mi muovevo a fatica, non riuscivo a coordinare bene.
Quando venivamo anche noi in vacanza lì, a Viserba, gli attrezzi stavano sotto il lavabo della cucina, ma ora non c'erano più.
Ho cercato per tutta casa. Ho aperto i cassetti. Ho trovato una foto mia e di mia sorella, da piccoli. Ho trovato anche altre foto, ma non le ho guardate. Sotto un maglione ho notato anche una scatola di preservativi. Sul comodino c'era il suo portafogli e l'ho preso, perché mi sono ricordato che, da molto tempo prima, avevo progettato di farlo.
Alla fine ho trovato gli attrezzi, nello sgabuzzino, sopra la lavatrice.
Ho smontato la serratura della porta del bagno, facendo molta attenzione e con molti tentativi, perché non riuscivo a tenere la punta del cacciavite nella scanalatura della vite.
Ma alla fine è venuta via e la porta si è aperta.
Lui stava nella vasca. Il rubinetto era aperto e gli rovesciava acqua addosso, lavando via il sangue dal suo corpo. Lui accompagnava l'acqua con la mano, come carezzandosi appena, quasi senza toccarsi. Mi ha guardato e c'era qualcosa nei suoi occhi, che stava come per traboccare fuori. Vedendo questo è stata la prima volta che ho avuto paura.
Facendo una fatica terribile, scivolando e tremando, ha cercato di uscire dalla vasca a mi ha agitato le mani contro, come per afferrarmi. L'ho dovuto spingere nell'acqua e tenerlo sotto, fino a che non s'è mosso più. C'è voluto ancora tempo e uno sforzo che non era umano.
Appena ho potuto sono scappato per tutta la casa: nella stanza da letto, poi in salotto, poi in cucina. Qua mi sono fermato. Ho cercato di lavarmi dal sangue nel lavabo della cucina. Non avevo coraggio di rientrare nel bagno. La maglietta e i pantaloni erano tutti insozzati. Li ho dovuti togliere e mettere in una busta di plastica. Anche le scarpe. Nell'armadio della mia vecchia stanza, dove dormivo con mia sorella, c'erano ancora vecchi vestiti miei. Me li sono messi ed è stata la cosa più strana, guardarsi così, con gli abiti di dieci anni prima.
Mi sono ritrovato nell'appartamento, che era tutto devastato.
Avevo progettato di aspettare là, fino a tarda notte e poi uscire, quando nessuno mi avrebbe visto. Ma dopo un po' ha cominciato a squillare il telefono.
Non ho risposto. Subito dopo quello è squillato di nuovo. Ho cercato di ignorarlo.
Mi sono seduto di nuovo sul divano. Con calma mi sono misurato la febbre. Era salita quasi a quaranta.
La televisione, rimasta accesa continuava a trasmettere. Da sotto, veniva della musica. Il prestigiatore aveva terminato il suo spettacolo ed ora un cantante interpretava delle canzoni molto di moda, vecchie e nuove. Sono rimasto immobile, a riposarmi.
Ho chiuso gli occhi per un tempo che non so valutare.
A un certo punto è suonato il campanello della porta. Sono balzato su e sono andato piano piano fino all'ingresso, ma non ho avuto il coraggio di guardare dallo spioncino. Sono restato appoggiato alla porta, quasi per bloccarla col mio corpo, se la sfondavano. Lo sentivo, che c'era qualcuno dall'altra parte. Chiunque fosse, ha suonato ancora e dopo molto tempo s'è convinto che non c'era nessuno dentro e se n'è andato.
Allora ho pensato che dovevo andarmene subito. Ho rimesso tutto nella borsa, il coltello e tutto quello che avevo toccato, anche il termometro. Ho dovuto concentrarmi, per ricordarmi di tutto. Sono andato alla porta e ho impiegato un bel po' a spiare il pianerottolo dallo spioncino. Mi è sembrato vuoto.
Sono uscito e mi sono chiuso la porta dietro. Ma quando mi sono girato, sui primi gradini della rampa di scale che portava al piano superiore, c'era un ragazzino di circa dieci anni. Stava là, seduto, sorridente, tutto rosso, come uno che gioca a nascondino. Venivano delle voci del piano di sopra, lo chiamavano per nome: "Mauro, Mauro, dove ti sei cacciato?" E anche loro un po' ridevano.
Non ce l'ho fatta nemmeno a fingere di avere un contegno normale. Ho fissato negli occhi il bambino e poi mi sono girato e sono scappato giù per le scale.
Non mi ha visto nessun altro uscire dal palazzo. Ma il ragazzino mi aveva visto proprio bene.
Sono tornato alla macchina che avevo parcheggiato sulla stradina che portava alla spiaggia e sono andato via.

Ho guidato tra la gente che usciva dagli alberghi e dalle pensioni. Era sera e andavano a fare una passeggiata, a mangiare un gelato, in un locale, a divertirsi. Anch'io lo avevo fatto tante volte, proprio lì, fin da bambino. Avrei voluto essere ancora là con loro.
Ho pensato che non avevo nessuna speranza. Era inevitabile che mi prendessero. Quel ragazzino mi aveva visto bene in faccia.
Sono rimasto là, sui viali della riviera, senza sapere che fare. Camminavo piano piano con l'auto, perché avevo paura di avere anche un incidente. Non capivo niente, dalla febbre. La testa mi scoppiava, puzzavo, tremavo.
I paesi erano tutti uguali, uno dopo l'altro, dopo Rimini. A un certo punto mi sono convinto che magari la polizia già cercava la mia macchina. Forse il ragazzino era uscito dietro di me e mi aveva visto andare via con quella. Allora ho parcheggiato. Ci ho impiegato un tempo infinito a parcheggiare. Poi sono sceso e ho continuato a piedi. La borsa con i vestiti sporchi di sangue l'ho gettata in un cassonetto. Il coltello l'ho buttato in un altro cassonetto, lontano almeno un chilometro.
Il portafoglio di mio padre l'ho tenuto con me per un bel po', invece.
Tremavo e a un certo punto mi sono fermato e ho cercato di vomitare a lato della strada. Ma da dentro non m'è uscito niente. Stavo così male ed ero così certo che mi avrebbero arrestato, che non ce l'ho fatta più e sono entrato in una pensione. Morivo dal freddo e dai brividi. Mi hanno trovato una stanza e io mi ci sono chiuso dentro. Volevo solo mettermi a letto e dormire un po', se potevo, prima che la polizia mi veniva a prendere. Se ero fortunato, magari, avrei potuto dormire tutta la notte.
Ma mi ero appena buttato giù che subito mi sono alzato. Ho ridisceso le scale e ho attraversato la hall piena di gente. Sono andato alla spiaggia che era là vicino e ho camminato un bel po', prima di lasciare il portafoglio di mio padre su una sdraio. Non ho preso niente di quello che c'era dentro. Almeno doveva essere chiaro che non era per quello, che l'avevo fatto.
Dopo quello che mi è parso molto tempo sono riuscito a ritrovare la pensione, sono andato a letto e ho chiuso gli occhi. Ma tremavo tanto che avevo paura di stare per morire.
Mi sono buttato addosso due coperte che sapevano di naftalina, poi non ricordo più niente.

Ho dormito tanto. Ogni tanto mi svegliavo. Molto spesso di notte, altre volte di giorno. Avevo sempre la febbre alta. A un certo punto è venuta della gente, forse il padrone della pensione. Mi hanno chiesto se stavo male ed io ho detto di sì. Mi hanno fatto visitare da un dottore. Ho preso delle medicine. Ho continuato a dormire, a fingere di dormire, a stare sdraiato. Quando ero sveglio, ascoltavo i rumori della spiaggia, delle voci della folla, del traffico rado della stradina, di ragazzi che venivano da fuori. Era sorprendentemente bello.
Parecchio tempo dopo, la porta si è aperta ed è entrata una donna delle pulizie, che mi ha chiesto se mi sentivo abbastanza bene da alzarmi. Doveva rifare il letto. Io mi sono andato a sedere su una poltroncina e ho aspettato.
Quando ha ribaltato le lenzuola, qualcosa è volato a terra. Le calze che portavo, quando ero arrivato. Dovevo averle tenute a letto e poi me le ero levate successivamente.
Le ho raccolte. Una era sporca di sangue secco. L'ho chiusa nel pugno, mentre la cameriera finiva di rassettare la stanza. Quando è andata via, ho aperto la mano. Mi faceva male, da quanto l'avevo stretta. Ho riguardato la calza e non si capiva se era sangue o fango secco. Sono andato nel bagno e l'ho lavata nel lavandino. Ma mi pareva che la macchia, con l'acqua, si allargasse invece di scomparire. Dopo molti lavaggi, l'ho appesa ad asciugare alla finestra. Ogni po' andavo a vedere se si era asciugata.
Molto tardi di notte, quando ormai s'era asciugata, mi sono alzato e l'ho lavata di nuovo, un'altra volta. Non riuscivo a pulirla fino in fondo. E sotto la luce gialla della lampadina elettrica non si capiva bene. Mi è venuto in mente che se l'avessero esaminata con dei reagenti chimici il sangue sarebbe venuto fuori lo stesso, anche se ad occhio non si vedeva più. Allora ho buttato tutto nel gabinetto e ho tirato l'acqua. Lo scarico si è intasato. Ho cercato di ritirare fuori la calza che, gonfia d'acqua era diventata una palla pesante e nera, incastrata dietro alla curva a gomito dello scarico. Ho faticato molto a riuscirci.
Mi sono fatto forza e mi sono vestito. Sono uscito dall'albergo e sono andato sulla spiaggia. Ho camminato per un po'. Ho scavato una buca e ci ho nascosto la calza. Ho cercato il posto dove avevo lasciato il portafoglio, ma non ho saputo ritrovarlo. La cosa mi ha sollevato. Poi sono tornato indietro e sono andato di nuovo a letto.

Quando mi sono svegliato c'era la polizia. Erano due, uno grande e grosso, e l'altro magro, che sorrideva.
Erano stati loro a svegliarmi. Quello magro mi ha scosso per la spalla. Io, per qualche istante, ho continuato a fare finta di dormire.
Quando mi hanno scosso più forte, ho aperto gli occhi e li ho guardati.
Si sono presentati e poi quello magro ha detto che era successa una cosa gravissima. Mi sono messo a sedere, per prendere tempo.
Ho detto che ero stato male.
Mi hanno ripetuto che era successa una cosa gravissima.
Ho chiesto che cosa.
Quello che parlava, il magro, ha continuato: mio padre era morto.
Tutti e due hanno guardato attentamente come prendevo la notizia.
Ho chiesto, piano, come era morto.
Mi hanno detto che c'era un'inchiesta e che dovevo vedere il magistrato. Lui mi avrebbe spiegato.
Io ho detto: "Vengo subito. Mi devo vestire."
Il magro ha detto che c'era tempo. Il magistrato arrivava in ufficio solo dopo pranzo, alle tre.
Questo mi ha irritato, anche se non lo davo a vedere. Sembrava che la cosa non fosse enorme come era, per loro.
Quello grosso, però, prima di uscire, mi ha chiesto perché non piangevo. Lui se fosse morto suo padre, avrebbe pianto.
Dissi solo che non mi veniva da piangere lì davanti a loro.
Il poliziotto magro ha commentato:
"Che vuol dire? Anch'io non ho pianto quando è morto mio padre."

Mi hanno lasciato vestire da solo. Poi siamo scesi assieme nella hall. Molti mi hanno guardato, con comprensione. Non sapevano che erano venuti ad arrestarmi. Il padrone della pensione è venuto a farmi le condoglianze e a chiedermi come stavo. Ho risposto: "Bene", mentre il poliziotto grosso mi guardava, con la sua faccia larga, i suoi occhi marrone, fermi su di me.
Poi siamo saliti sulla macchina della polizia. Le manette non me le hanno messe. Non sapevo come fare a trattenere la rabbia che avevo dentro. Mi pareva che giocassero con me.

Il magistrato mi ha guardato entrare, poi si è alzato e mi ha stretto la mano, facendomi anche lui le condoglianze. Era molto bruno, con le occhiaie nere scavate. Non era anziano, solo un po' più vecchio di me.
Mi sono seduto davanti a lui. Mi ha guardato ancora per un po' e poi mi ha detto anche lui che mio padre era stato trovato morto.
Gli ho chiesto come era successo. Lui ha detto che era stato ucciso, nell'appartamento dove trascorreva le vacanze. Poi c'è stato un silenzio.
E' entrato anche il poliziotto grosso. L'interrogatorio lo ha tenuto quasi sempre lui. Il magistrato mi guardava e basta. Sembrava un po' imbarazzato. Hanno cominciato con delle domande di rito. Chi ero, come mi chiamavo, dove ero nato, eccetera. Il magistrato era gentile, il poliziotto grosso era l'unico che mi trattava con una certa aggressività, come se ce l'avesse con me. Questo me lo rendeva quasi simpatico.
Mi hanno chiesto perché mi trovavo lì, sulla riviera, a pochi chilometri da dove si trovava mio padre.
Non ho tentato di nasconderlo: "Ero venuto per vedere mio padre."
Mi hanno chiesto perché e ho dovuto spiegare tutta la storia dell'appartamento che lui voleva vendere.
Dopo quella spiegazione, ho detto, per provocarli, con un sorriso:
"Adesso magari pensate che l'ho ammazzato io."
Loro non hanno detto niente. Mi hanno solo guardato.
Ho continuato, spiegando che comunque non avevo nemmeno avuto il tempo di vederlo mio padre: avevo preso la febbre ed ero stato male. Mi ero fermato in quella pensione, perché avevo la temperatura a quaranta.
Avevo deciso, da molto tempo prima, che avrei negato fino alla fine, per rendere le cose più difficili. Se non lo avessi stabilito da tanto tempo, tanto da saperlo a memoria, magari avrei confessato subito.
E' stato un bene perché mi sarei rovinato con le mie mani. Poco dopo il poliziotto grosso mi ha spiegato, che il medico legale aveva accertato che l'ora della morte di mio padre era proprio nel periodo in cui io mi trovavo in pensione, cioè due giorni prima (anziché tre, come era avvenuto in realtà). Perciò compresi che non potevamo sospettarmi. C'erano molti testimoni che potevano confermare che in quelle ore ero inchiodato a letto, con quaranta di febbre: il medico che mi aveva visitato, il padrone della pensione, la donna delle pulizie...
Dopo molte altre domande sulla vita nostra e di mio padre il magistrato si è alzato ha detto che per ora poteva bastare. Mi ha stretto la mano di nuovo. Ci saremmo sentiti di nuovo, se avesse avuto bisogno. Per il funerale purtroppo dovevamo pazientare un po', perché il corpo di mio padre doveva essere sottoposto ad autopsia.
Mi hanno aperto la porta e mi hanno fatto uscire. Io mi sono ritrovato sulla strada, al sole, libero e non mi rendevo conto di quello che mi era capitato.
Ho camminato per un bel po' prima di ritrovare un po' di lucidità. Ho comprato un giornale e c'era la notizia del delitto. Però non capivo niente di quello che c'era scritto.
Allora una voce mi ha chiamato. Era il poliziotto grosso. Era in macchina, ma non quella della polizia. Adesso sorrideva. Mi ha detto che ero scappato via così in fretta che non avevano avuto il tempo di fermarmi. Avevo il diritto che mi riaccompagnassero a casa, visto che mi avevano prelevato. Se volevo, mi dava un passaggio.
Non avrei mai voluto salire su quella macchina, ma una specie di furbizia, per me insolita, me lo impose.
Salii. Nel tragitto non resistei.
"Avete dei sospetti su chi è stato?"
Lui ha detto che era troppo presto per saperlo.
"Ma perché lo hanno ammazzato?"
Lui ha detto che questo magari lo sapevo io, meglio di lui. Ero io che conoscevo mio padre e le sue abitudini.
Poi ha spostato il discorso su cose più leggere. Avevamo la stessa età. Anche lui aveva cominciato l'università: giurisprudenza, come me. Ma faceva molta fatica e aveva una media di voti bassa. Gli ho dovuto confidare che io invece avevo voti alti, ma avevo smesso di studiare, a un certo punto. Ero stato male e poi avevo deciso di cercarmi un lavoro, che però non avevo trovato, ancora.
M'ha guardato e poi m'ha chiesto se allora avrei ripreso gli studi. Ho detto che ci stavo pensando, anche se non era vero. Gli ho chiesto che esame stesse preparando e lui me ne ha parlato. Dopo un po' è arrivato a chiedermi di spiegargli un concetto difficile di quella materia. Gliel'ho spiegato, dato che quell'esame lo avevo già dato. Era strano come ricordassi bene quelle nozioni per me inutili da tanto tempo.
Eravamo già davanti all'albergo.
"Ma io me ne posso andare, se voglio?" ho detto.
Lui ha sorriso e ha detto che era meglio di no. Dovevo stare a disposizione.
Se n'è andato, salutandomi per nome, come fosse un amico.
Io sono tornato nella stanza. Mi sentivo esultante, mi girava la testa.
Solo qualche ora dopo mi sono ricordato della frase del magistrato sull'autopsia che era ancora da fare. L'autopsia avrebbe smentito la prima perizia del medico legale e avrebbe accertato l'ora vera del delitto, un giorno prima, quando non avevo alibi.
Allora quasi certamente mi avrebbero preso. Ed io non potevo che aspettare. Non potevo nemmeno scappare, perché di certo mi sorvegliavano e la avrebbero presa come una prova di colpevolezza.

Mia madre, appena arrivata, mostrava di concentrarsi sui problemi pratici: l'obitorio, gli annunci sul giornale, eccetera. Ma era talmente nervosa, che si capiva che era disperata. Da come era disperata, mi sono reso conto, con dolore, che voleva bene a mio padre, ancora.
Parlava molto, a sproposito. Parlava del delitto, con tutti quelli che incontrava, anche con totali sconosciuti. Leggeva tutti i giornali, che si occupavano del delitto, con molto spazio.
Siamo andati con lei all'obitorio, io e mia sorella.
C'è stata la situazione di doverlo rivedere, da morto.
Mi sono tenuto indietro. Per prima sono andate mia madre e mia sorella.
Mia sorella è sempre stata distratta. E' sempre persa dietro a fantasticherie sue. E' una ragazza un po' grassa, introversa. Anche ora, era come chiusa in un altro mondo. Ha guardato il corpo, perché ci si aspettava che guardasse. Ma si vedeva che non voleva. Dopo è subito tornata fuori, in una specie di corridoio dove s'erano delle stampe di anatomia. Camminava là, su e giù, e pensava forte a qualcosa, tanto che quello che rimuginava le veniva alle labbra, che quasi mormoravano. E' fatta così, se ne frega di quello che la gente può pensare di lei.
Forse si ricordava di mio padre. Con lei era sempre stato più affettuoso che con noi. Si era sempre vergognata di essere così smaccatamente preferita, soprattutto dopo la separazione. Quando le telefonava, lei lo trattava male, apposta, per fare capire a noi che era dalla nostra parte. Ma, grazie al suo rapporto privilegiato, magari adesso aveva memorie di lui migliori delle mie.
Mia madre invece si è accostata al corpo con una specie di affanno. Parlava col poliziotto grosso, che ci accompagnava, delle ferite di mio padre, chiedeva particolari tecnici sull'omicidio, sull'arma, sulle coltellate. Quello, imbarazzato, evitava i particolari più scabrosi. Ma lei sembrava cercarli.
Faceva al poliziotto confidenze inutili. A un certo punto ha indicato un punto dello stomaco di mio padre e ha detto, "Vede, questa è la cicatrice di un grosso neo che aveva. Ci si era fissato e se l'è fatto togliere, anche se a me non dispiaceva. Era vanitoso."
Ha raccontato al poliziotto grosso particolari della nostra storia familiare, che era meglio restassero privati. Ma non poteva stare zitta. Faceva pena ed io mi sono vergognato di lei.
Durante la visita all'obitorio, il poliziotto grosso, che era un vice commissario e si chiamava Rinaldi, mi ha tenuto d'occhio per tutto il tempo.
Io mi sono limitato ad andare a vedere il corpo, sforzandomi di non mostrare nessuna emozione. L'ho guardato in faccia per un tempo né troppo breve, né troppo lungo: dieci secondi. Lo so perché li ho contati. Non sembrava lui. Sembrava un'altra persona. Ho capito che era morto davvero.
Strana la mente umana: non me ne ero reso conto davvero, prima.
Quando siamo usciti, mia madre ha voluto baciarci, me e mia sorella. Era tutta fradicia di un sudore freddo ed era molto tesa, tirata sotto la camicia di seta. Ha baciato anche Rinaldi, come un amico di famiglia.
Rinaldi, imbarazzato, ci voleva accompagnare, ma mia madre, ha fatto mille complimenti e ha voluto prendere un taxi.

Quello stesso pomeriggio il magistrato ha interrogato anche mia madre e mia sorella. Hanno confermato che ero venuto là per parlare con mio padre della questione dell'appartamento.
Io non ero presente all'interrogatorio. Me l'ha descritto mia sorella, con cui siamo andati in un bar a prendere qualcosa, mentre mia madre riposava in camera.
Mia sorella mi ha riferito che a un certo punto Rinaldi aveva fatto un commento offensivo, che ha fatto scoppiare la mamma. Il poliziotto aveva detto che adesso che papà era morto il famoso appartamento sarebbe rimasto a noi. Si trattava di almeno tre, quattrocento milioni. Molte persone stavano in galera per un movente molto meno concreto. Nostra madre, per l'ingiustizia di quel sospetto, aveva fatto una scena spaventosa, s'era anche messa a piangere per la rabbia.
Ha affermato che lei non ci aveva nemmeno pensato all'appartamento, quando aveva saputo della morte di mio padre. Mia sorella mi assicurava che dal tono con cui l'aveva detto anche quelli si erano dovuti rendere conto che era sincera.
"Invece io ci ho pensato all'appartamento" mi ha confessato Elena. "Ho pensato a quello che potrei fare con la mia parte. Andare in una casa mia, magari. Fare l'università, a Bologna." Se ne vergognava.
Ho detto che io, invece, non me ne vergognavo. Cento, centocinquanta milioni avrebbero dato anche a me il modo di vivere in un altro modo.
Abbiamo parlato per un po', in quel bar, anche del suo lavoro attuale, che non le piaceva, dei suoi ragazzi. Poi abbiamo parlato di me. Ho permesso che lei mi desse dei consigli sui miei presunti problemi. Ci siamo stati tanto, a parlare. Non avevo mai avuto molto dialogo con mia sorella, perché eravamo molto diversi. Ma sono stato espansivo, pur di non tornare nella stanza della pensione.
E poi, parlando con lei, in quel contesto così diverso dal solito, mi sono accorto che aveva spirito e anche ironia. Se non fosse stata mia sorella, magari saremmo potuti diventare amici.
Tornando a casa, mi ha confidato infine che il magistrato e Rinaldi le avevano interrogate con insistenza su di me. Sapevano che ero stato in cura da uno psicologo. Mia madre mi aveva difeso. Aveva detto che io non c'entravo niente, che non ero in grado di fare male a una mosca.
Dopo un po' mia sorella mi ha chiesto, con molto imbarazzo, se davvero io non avrei mai potuto fare male a papà.
Io ho risposto con chiarezza, che non avrei mai potuto fargli del male.
Lei invece ha detto che quando era ragazzina, certe notti in cui papà faceva il pazzo e che non ci faceva dormire, lei aveva desiderato di avere un fucile e di sparargli.
Naturalmente non lo avrebbe mai fatto, ma l'aveva pensato.

Abbiamo trovato nostra madre, avvilita nella stanza. Non aveva nemmeno mangiato, non s'era spogliata, Aveva gli occhi rossi, ma non piangeva. L'ho dovuta quasi costringere a prendere qualcosa da mangiare. Le ho fatto portare una minestrina e l'ho praticamente imboccata io. La cosa mi ha fatto piacere: comportarmi da figlio premuroso. Ho tentato di convincerla a ripartire l'indomani. Sarei rimasto io là, ad occuparmi di tutto. Appena fatta l'autopsia, le autorità ci avrebbero riconsegnato il corpo e avremmo potuto fare il funerale. Non volevo che fosse là, quando mi avrebbero arrestato. Avrebbe reso tutto più penoso.
Ma mia madre non voleva lasciarmi là. Assolutamente non voleva. Io ero stato male e lei temeva che mi capitasse qualcosa. E poi un po' non si fidava di me, anche se non lo confessava.
Non sono riuscito a convincerla. A un certo punto è squillato il telefono. Mia sorella ha risposto e ha detto che giù nella hall c'era Maura, la donna di mio padre. Mia madre ha acconsentito a scendere e ad incontrarla.
Mia madre e Maura si sono guardate da lontano, con una specie di cautela, avvicinandosi. Poi si sono abbracciate. Si sono andate a sedere ad un tavolino, nella hall, un po' in disparte, e hanno parlato a lungo, con fatica e tensione, come due parenti.
Maura era distrutta. Io l'avevo vista solo un paio di volte, ma mi accorgevo ora che era una povera donna insignificante, anche fisicamente. Quando mia madre l'ha baciata, per salutarla, però, ho provato schifo e rabbia, per come si mostravano affettuose l'una con l'altra.
Anche mia madre deve avere provato una sensazione penosa. Quando Maura è andata via, ha cambiato umore. Ha abbandonato il progetto di restare, per cui s'era tanto battuta e, anzi, s'è messa in testa di partire subito. Tanto ha fatto, che ha trovato un treno che partiva quella notte stessa. Sembrava che stesse male, che scappasse. Si vergognava di lei e di Maura. E anche di mio padre, persino di come era morto.
Quando è venuto il taxi a prenderle, le ho detto di stare su. Non valeva la pena che si buttasse giù in quel modo.
Non so cosa m'ha preso, ma con un sorrisetto, che faceva schifo anche a me, le ho detto:
"Era uno stronzo. E' meglio che è morto."
Mia madre mi ha dato una spinta, goffa e impulsiva, a metà tra un colpo e un semplice gesto per allontanarmi. M'ha lanciato un'occhiata stordita, poi s'è voltata di scatto ed è salita sul taxi, dove già stava mia sorella.

Quella notte non ho dormito. Mi sentivo isolato da tutto. Ero come un nemico del mondo. Mi pareva che nulla mi importasse e che nulla potesse ferirmi. Ero come in anestesia.
La notte era molto calda e la stanzetta soffocante. Da un certo punto in poi, ho cominciato a sentire delle voci che venivano dalla stanza attigua alla mia, con cui condividevo il balconcino.
Era un uomo che parlava ad alta voce, con tono pieno di rabbia. Stava rimproverando sua figlia. Quello che diceva la ragazzina non si sentiva bene, ma l'uomo parlava sempre più forte e si capiva tutto.
Non si sapeva esprimere. Dalla rabbia non riusciva ad articolare le frasi e si vedeva che questo lo irritava ancora di più. Voleva a tutti i costi far capire alla figlia una cosa, e sapeva in partenza che non ci sarebbe riuscito, anche se la cosa era chiarissima. Da come parlava, quell'uomo non mi è piaciuto, anche se mi sembrava che avesse ragione.
Ce l'aveva con la figlia, che si chiamava Katia (non mi piaceva neanche questo, il nome che le aveva dato), perché non voleva che lei frequentasse un certo ragazzo, uno del posto, che a lui, il padre, non piaceva per niente. Aveva saputo dal padrone della pensione che era uno che aveva persino dei precedenti penali.
La ragazzina invece lo difendeva. Diceva che era un ragazzo buonissimo, più buono degli altri. Tutti lo sapevano e il padre poteva chiederlo alle sue amiche, se non ci credeva. Il punto era che Katia aveva un appuntamento con il giovane quella sera stessa, ma il padre non voleva che ci andasse.
Diceva che anche se fosse stato un santo, non era possibile uscire con un ragazzo alla una di notte.
La ragazzina protestava che tutti uscivano a quell'ora e lui si imbestialiva. A un certo punto, per non darle uno schiaffo, l'uomo è uscito, sbattendo la porta dietro di sé. Ha chiuso a chiave la figlia dentro, per non farla uscire.
Lei si è messa a piangere da sola, nella stanza.
Io sono rimasto ad ascoltare, quasi con avidità.
Dopo un po', però non ho sopportato più quel rumore, mi sono alzato e sono uscito sul terrazzino, che confinava con la stanza della ragazzina. Mi sono sporto oltre il divisorio di plastica trasparente e le ho detto di smetterla, che non mi faceva dormire.
Lei si è azzittita ed io sono tornato nella mia stanza.
Ora c'era silenzio, ma io ero troppo nervoso. Era meglio prima, quando la ragazzina litigava con il padre. Anche quando piangeva era meglio.
Allora sono uscito sul terrazzino e l'ho chiamata.
C'è voluto un po', prima che mi rispondesse. Le ho detto che, se voleva uscire, poteva passare dalla mia stanza. Scavalcare il divisorio del balcone era facilissimo.
La ragazzina non s'è fidata. Aveva paura di me. Chissà chi ero. Non voleva passare dalla mia stanza, in piena notte.
Le ho detto che aveva ragione. Sono tornato a dormire.
Dopo una ventina di minuti, però la ragazzina mi ha chiamato e ha detto che ci aveva ripensato. L'ho aiutata a scavalcare il divisorio e l'ho fatta passare nella mia stanza. Praticamente non mi ha nemmeno guardato in faccia. Era vestita per uscire, per andare in discoteca o da qualche altra parte, come si vestono quelli della sua età. Avrà avuto quindici anni, non era bellissima. Direi che era normale, non aveva nulla di particolare: castana, gli occhi scuri, il viso comune. Ma era tutta accesa dalla lite col padre e dall'amore per il ragazzo teppista. Questo si notava e le dava una sua luce.
M'ha ringraziato e mi ha chiesto come faceva a rientrare. Io le ho detto che poteva ripassare dalla mia stanza. Le lasciavo la porta aperta, tanto uscivo anch'io e tornavo tardi.
Ho salutato la ragazzina e sono uscito dietro di lei. Ho camminato per la cittadina per un pezzo. Volevo godermi tutte le ore che avevo a disposizione.

Il giorno dopo è venuto Rinaldi. Ha voluto fare un sopralluogo con me nell'appartamento di mio padre. Ha detto che forse io potevo accorgermi, se mancava qualcosa.
Non potevo dire di no. Rinaldi ha ricominciato con le sue domande sull'università. Io ho cercato di cambiare argomento. Non avevo voglia di parlare con lui. Ero esasperato, stanchissimo per la notte insonne e, come sempre, mi pareva che mi prendesse in giro.
Siamo saliti all'appartamento. Dentro c'era ancora quell'odore di sudore e di qualcos'altro di familiare, cui non sapevo dare un nome. Poi mi sono accorto che si trattava del mio odore, rimasto da allora.
Come faceva Rinaldi a non rendersene conto?
"Ti senti male? Vuoi sederti?"
Adesso mi dava del tu.
Io ho detto di no e ho girato tutto l'appartamento con lui, facendo l'inventario delle cose di mio padre, per capire cosa potevano aver rubato..
"Dov'era, quando lo avete trovato?" ho chiesto.
Rinaldi ha detto che era per terra, in camera da letto. Per fortuna, ero così stremato, che non ho mostrato riflessi di sorpresa. Voleva vedere se avrei mostrato di sapere che invece era morto nel bagno.
Era un trabocchetto. Questo mi ha dato la prova che sospettava di me.
Ho fatto finta di niente. Fino a quando non siamo usciti.
In macchina, ho chiesto a Rinaldi quando sarebbero stati presentati i risultati dell'autopsia. Volevo sapere quanto tempo mi restava.
Mi ha detto, con un sorriso, che i risultati erano già stati presentati e non ha aggiunto altro.
Gli ho chiesto se c'erano novità, rispetto alla perizia del medico legale.
Lui ha detto: "Non grosse novità."
Non osavo chiedere direttamente se l'ora della morte fosse stata corretta e Rinaldi non ha aggiunto nulla, lasciandomi nell'incertezza. Ma forse avevo avuto fortuna, ancora fortuna.
Per la prima volta, ho pensato di potermi salvare.

In pensione ho incontrato Katia, la ragazzina. Stava per uscire, ad incontrare il suo ragazzo, quello tanto odiato dal padre. Si è fermata a parlare con me. Mi ha invitato ad andare con lei in un bar dove si sarebbe vista col suo ragazzo. Mi voleva offrire qualcosa per ringraziarmi di quel che avevo fatto la sera prima.
Io ho risposto che forse sarei passato più tardi, ma non ne avevo nessuna intenzione. La ragazza ha insistito tanto che ho pensato che forse non era solo gentilezza la sua, forse voleva qualcosa da me. Era su di giri, un po' arrossata sulle guance, gli occhi vivi, muoveva molto le braccia magre, abbronzate, gesticolando. Non stava mai ferma. Era in preda ad una forma di vitalità, che mi stancava. Dopo che è andata via, ho capito, come una speciale illuminazione, che quelli erano segni di felicità. La ragazzina era molto felice, in quel momento.

Quando sono restato solo, non ho retto a rimanere in pensione a rimuginare e sono uscito di nuovo per una delle solite, infinite passeggiate.
Ma proprio davanti all'albergo mi è venuto a fianco un uomo, uno sconosciuto. Mi ha guardato con una certa incertezza, ma anche con una specie di broncio, come se l'avessi offeso e mi ha detto:
"Lo so che sei stato tu."
L'ho guardato, ma lui si è allontanato di qualche passo.
Però ha continuato a venirmi dietro. Mi camminava a fianco, dall'altra parte della strada. In mezzo ci passavano le macchine.
Dopo un centinaio di metri non ho retto. Gli ho fatto cenno di fermarsi, ho attraversato la strada e gli sono andato vicino.
"Che cosa vuoi?"
Quello mi ha guardato e mi ha detto:
"Stai attento."
Poi, di tacito accordo, siamo entrati in un bar che aveva i tavolini sulla strada. Ci siamo seduti, quasi senza guardarci.
L'uomo mi ha detto chi era.
Era il padre del ragazzino che mi aveva visto uscire dall'appartamento di mio padre.
Il figlio gli aveva raccontato tutto e lui aveva capito che l'assassino ero io. Ma non ha detto che mi avrebbe denunciato, né mi ha minacciato. Continuava a parlare di suo figlio.
Diceva:
"Sono giorni che non dorme dalla paura. Tu ci devi lasciare stare."
Se avessi fatto male a suo figlio, lui mi avrebbe spaccato la testa.
Però capivo, che mentre mi minacciava, anche lui aveva paura di me. Io non dicevo niente, perché non sapevo proprio cosa rispondere. Quello era molto nervoso, si spazientiva:
"Prima stavamo bene. Mio figlio è un bambino allegro. Che non è mai stato male."
Questo gli sembrava spiegare ogni cosa. Era ingiusto che io avessi coinvolto un bambino così fortunato nei miei orrori.
Finalmente sono stato capace di dirgli che non avrei mai cercato suo figlio, se lui non cercava me. Lui ha detto che era chiaro che suo figlio non mi avrebbe cercato.
C'è stato un silenzio. Ma lui era nervosissimo, si muoveva a scatti, sulla sedia.. S'è alzato all'improvviso, come per andarsene. Poi s'è fermato.
M'ha detto che dovevo promettere che, se mi prendevano, non dovevo dire a nessuno che suo figlio m'aveva visto.
Suo figlio aveva solo dieci anni e non se lo meritava di andarci di mezzo.
Ho promesso che non ci sarebbe andato di mezzo e che se mi arrestavano, non avrei detto che lui mi aveva visto.
Il padre mi ha guardato come se non mi credesse troppo, poi se n'è andato, attraversando la strada. Presto, è sparito.
Sono rimasto solo e ho lasciato che la gioia mi riempisse fino ai capelli. Guardavo la gente che passava e mi sembrava di essere anch'io finalmente libero dal peso tremendo, che prima mi toglieva il respiro.
Ho preso un gelato, ma mi ha subito nauseato e l'ho gettato via.
Mi sono messo a camminare. Avevo voglia di continuare ad essere libero, esultante.
A un certo punto ho visto Katia ed il suo ragazzo che stavano seduti ad un tavolino aperto di un bar.
Vedendola vicino al suo ragazzo e ad altri amici loro, mi sono reso conto di quanto erano giovani. Poco più che bambini.
Li ho guardati per un po', perché mi incuriosiva il ragazzo, che aveva precedenti penali.
A vederlo così non sembrava niente di speciale. Era abbastanza tozzo, con la testa grossa. Doveva avere non più di diciassette anni.
Disgraziatamente si sono accorti di me. Prima che potessi allontanarmi, Katia mi ha raggiunto. Mi ha salutato con un bacio sulle guance, come se mi considerasse davvero un amico. Forse faceva anche un po' di scena per il suo fidanzato, voleva fargli vedere che era amica di un uomo grande.
Dopo un po' è venuto anche il ragazzo.
Non mi è piaciuto. Parlava poco e faceva il sostenuto, anche se mi ha ringraziato per il favore di aver liberato Katia.
Subito dopo, si è allontanato, ma lei è rimasta. Si è lamentata di suo padre per un po'. Mi ha anche chiesto se il ragazzo mi piaceva. Ho detto che doveva piacere a lei e non a me. Lei ha riso e ha continuato a parlarmi della loro storia contrastata. Non l'ho mai interrotta. Si vedeva che non erano chiacchiere a caso, che aveva in mente qualcosa.
Alla fine è venuto fuori: mi ha chiesto se lei e il ragazzo potevano vedersi in camera mia quella sera. Non sapevano dove altro andare. E' arrossita e il rossore non le stava bene. Anche il tono che ha preso, aggressivo, quasi chiedesse, più che un favore, qualcosa che le era dovuto, non era bello.
Ma ho deciso che non me ne importava niente e le ho dato le chiavi della mia camera. Lei mi ha ringraziato ed io sono andato via.
Poi ci ho ripensato, sono tornato indietro, da lei e dal ragazzo, e ho detto, un po' seccamente, che la camera gliela davo, ma entro mezzanotte dovevano andarsene.
Lei ha annuito, con un'aria un po' seccata (come il mio tono, del resto). Il ragazzo, invece, si è limitato a farmi un cenno, un po' sospettoso, di saluto.

Sono rimasto sulla spiaggia, su una sdraio, di fronte alla pensione. La finestra della mia stanza era illuminata fiocamente. Là, sul mio letto, dove ero stato male e avevo trovato la calza sporca di sangue, ora c'erano i due ragazzini. La cosa mi pareva molto strana. Mi pareva che fosse passato molto tempo da allora e che i due ragazzi nella stanza ne facessero passare ancora di più.
Quando sono tornato, a mezzanotte e dieci, Katia mi stava aspettando. Appena ha udito i miei passi nel corridoio della pensione, è venuta fuori e mi ha restituito le chiavi.
M'ha ringraziato ed è rientrata nella sua stanza, ma prima, per un momento, l'ho vista bene. L'amore le aveva chiazzato il viso. Gli occhi erano stanchi, cerchiati, emanavano una luce brillante e anche un po' disfatta.
Lì per lì, non ci ho fatto caso, ma quando sono rimasto solo, ci ho ripensato, alla sua faccia.
Ho levato le lenzuola dal letto e le ho buttate per terra. Non mi andava di dormire dove erano stati loro. Nel farlo ho notato delle piccole macchie rosso scuro sul bianco della tela.
Per un istante ho avuto un attacco di paura. Ho temuto di averle lasciate io, dopo di allora e di non essermene accorto, ma poi mi sono reso conto che era assurdo. Erano già state cambiate più volte, le lenzuola. Non potevano essere più quelle.
Ci ho messo un po' a capire che il sangue era della ragazzina, che magari per lei era stata la prima volta.
L'idea che quel sangue non c'entrava niente con me e che nessuno poteva accusarmene, mi ha reso di nuovo selvaggiamente contento, per un po'.
Ma poi quella notte, dopo tanto tempo, i miei nervi hanno ceduto.
Ho avuto una crisi isterica. Ed era strano che non fosse successo prima.
Ho pianto, ho soffocato grida di dolore, piegato in due, vomitando bile nel gabinetto. Ho sofferto come un cane e in assoluto silenzio, per non farmi sentire da nessuno.

Per i due giorni successivi non è accaduto niente. Ero come convalescente, dopo la crisi. Mi facevano male tutti i muscoli, come se mi avessero preso a botte, su tutto il corpo.
Ho deciso di non fare più nulla, di non pensare più a nulla. Dovevo badare alla mia salute, anzi alla mia comodità.
Sono andato il spiaggia, lasciando che il sole mi asciugasse i dolori. Mi sono abbronzato. Ho mangiato, bevuto, riposato.
Quando non potevo andare in spiaggia, restavo seduto su una delle sedie a sdraio disposte davanti alla pensione o disteso sul letto nella mia camera. Leggevo riviste a fumetti, che avevo comprato e che da tanto tempo avevo dimenticato.
Mi sono azzardato a tornare dove avevo lasciato la macchina e l'ho riportata vicino alla pensione, dopo aver controllato bene che non ci fossero segni compromettenti.
Non mi interrogavo più sulle possibilità che mi prendessero. Sapevo che tutto era appeso a una serie di coincidenze, che il padre del ragazzino poteva sempre ripensarci, che l'autopsia poteva essere smentita, che poteva saltare fuori qualcun altro che mi aveva visto.
Ma non volevo più pensarci, volevo soffrire il meno possibile. Non era facile.

Il secondo di quei pomeriggi, mentre poltrivo sulla sdraio, è venuto il teppistello a cercare Katia, ma il padre di lei se ne è accorto. E' piombato fuori e ha affrontato il ragazzo. L'ha preso a parolacce, davanti a tutti. Lo ha minacciato. Gli ha detto che se fosse tornato a vedere Katia, lui lo avrebbe denunciato, dato che Katia era minorenne.
Il ragazzo teneva gli occhi bassi: non osava reagire apertamente. Però ogni tanto si voltava, verso di me, che ero seduto là davanti e, come fossi un suo amico, mi faceva delle smorfie complici, mute. Erano degli insulti per il padre di Katia.
"Stronzo di merda" mormorava di nascosto e lo faceva capire solo a me, non avendo nessuno di meglio cui appoggiarsi. Io ho distolto gli occhi e non ho più guardato, fino a che il teppistello non se n'è andato.
Katia ha pianto molto, durante tutta la scenata, cercando di trattenere il padre. Quel pianto l'ha umiliata davanti a tutto l'albergo. E' diventata il principale argomento di conversazione sulla spiaggia, nella hall, nella sala da pranzo.

La mattina del terzo giorno è venuto Rinaldi, molto presto.
Ho capito subito che era successo qualcosa di grave e di nuovo ho avuto paura. Ero così stanco di aver paura che temevo di diventare insensibile e commettere degli errori.
Rinaldi mi ha voluto offrire la colazione, nello stesso bar dove mi ero fermato con il padre del ragazzino che mi aveva visto. Mi ha colpito il suo atteggiamento. Non aveva quella specie di malizia solita, quello sguardo sempre un po' ironico. Era stanco, come avesse passato la notte in bianco, ma sereno, come se non avesse più energie per la rabbia o per qualsiasi altro sentimento violento.
Era come se si fosse liberato da un peso. Mi parlava come un amico. Ha chiesto notizie di mia madre e mia sorella, mostrandosi persino premuroso e così è andato avanti per un po'. Ma io capivo che non era questo che era venuto a dirmi.
Infatti, a un certo punto, m'ha guardato e con la massima naturalezza ha detto, riferendosi a mia madre ed a mia sorella:
"Mi dispiace per loro soprattutto. Per quello che ancora dovranno soffrire."
Io ho chiesto perché. Lui ha fatto un gesto come a dire: smettiamola con la commedia. Poi ha detto:
"Sei stato tu, Marco."
Continuava a fissarmi dritto negli occhi, serio, ma senza severità.
Ho fatto come se fosse uno scherzo e ho sorriso anch'io.
"Certo, come no... Sono stato io. Perché non lo vai a dire al magistrato?"
"Gliel'ho già detto al magistrato. Lo sa anche lui che sei stato tu."
"Allora perché non mi arresti?" Ho detto, dopo un po'.
M'ha dato un giornale locale, che teneva nella borsa.
"Sono venuto a portartelo io, prima che lo scoprissi da solo. Non volevo che ti sentissi tranquillo."
Sulla prima pagina del giornale c'era un titolo che diceva che l'assassino dell'estate era stato preso e c'era la foto di un uomo che non ero io.
"E' uno straniero... un immigrato. Lo hanno trovato col portafoglio e la carta di credito di tuo padre. E' da ieri che è sotto."
Si è messo a ridere con un po' di amarezza e m'ha guardato con quel suo sorriso.
"Magari confesserà anche" ha detto. "Non è stata la mia squadra a prenderlo. Quelli là vogliono farsi belli col caso risolto. I giornali fanno un sacco di pressione. Tutti sono contenti di aver trovato il colpevole. Magari lo pestano e confessa."
Ho sperato che l'immigrato confessasse, che lo pestassero. Che magari morisse sotto le percosse. Ma non l'ho lasciato vedere.
"Se avete preso il colpevole, perché ce l'hai con me?"
Ho detto, invece.
Rinaldi ha fatto un gesto scettico.
"Perché sei stato tu." Ha ripetuto.
"Che prove hai? Come ha fatto allora quello ad avere il portafoglio di mio padre?" ho azzardato.
Rinaldi s'è stretto nelle spalle.
"Tu l'hai gettato via e lui l'ha trovato..."
Gli ho ricordato i risultati dell'autopsia e del referto del medico legale che avevano stabilito che l'ora della morte coincideva con la giornata in cui ero stato in pensione, con quaranta di febbre.
Lui ha scrollato le spalle. Ha detto che la gente, vedendo i film, immagina che quando c'è un delitto tutto venga svolto con il massimo rigore. Soprattutto c'è fiducia nella scientifica, nei medici legali. Ma è un errore.
"Chi va a fare il medico legale? I falliti. I peggiori tra i laureati in medicina fanno i medici legali. Chi glielo fa fare se no? Potrebbero avere un bello studio, guadagnare quello che vogliono... invece di stare all'obitorio."
Poi mi ha guardato e con un sorriso autoironico ha aggiunto, alludendo a se stesso:
"E' come per i laureati in giurisprudenza. Solo i peggiori finiscono in polizia."
Come se non si trovasse di fronte qualcuno che stava accusando di assassinio, mi ha raccontato un aneddoto divertente sui medici legali: due anni prima la polizia aveva trovato un braccio amputato in una discarica. Il perito aveva fatto gli esami e aveva concluso che quell'arto apparteneva ad una donna di cinquant'anni. Successivamente però era stato ritrovato il resto del corpo, che era di un uomo giovane, solo un po' grasso.
Si è messo a ridere al ricordo, ma io no.
Ero molto stanco e gliel'ho detto. Volevo che mi lasciasse in pace.
Lui s'è fatto serio e m'ha detto che anche lui era molto stanco. Siamo stati zitti abbastanza a lungo.
Poi m'ha detto che era contento che potessimo parlare così, tranquillamente. Ero libero di non crederci, ma lui mi stimava. Mi considerava uno intelligente.
"Io non sarò mai niente di che. Ormai la mia vita non cambia più. Ma tu no... Tu puoi anche riuscire a fare qualcosa."
Ha ordinato una brioche, di quelle già confezionate e l'ha mangiata, sempre guardandomi.
"Non devi aver paura. Hai visto il giornale..." m'ha detto.
Io gli ho detto che non avevo paura. Quello che diceva non aveva senso, s'era bevuto il cervello. Lui ha fatto di nuovo quel gesto come a dire: "non ci credo, ma lo so che devi dire così."
Poi ha aggiunto:
"Sono venuto anche perché volevo chiederti, se fossi stato tu, che motivo avevi di ammazzare tuo padre."
Io ho detto che non avevo nessun motivo. Infatti non ero stato io.
"Avanti su, non ho registratori e anche se li avessi non varrebbe nulla. Diciamo che parliamo per ipotesi, come fosse uno scherzo."
Ho detto che se era uno scherzo potevo dirgliene mille di motivi. Ammazzare il padre era un caso classico della psicanalisi da salotto.
Lui mi ha incitato ad andare avanti, come fosse per davvero un gioco.
Ho detto che si ammazza un padre perché si è innamorati della madre. E' il complesso d'Edipo. Secondo un'altra tesi, si ammazza, perché uccidere il padre vuol dire uccidere se stessi. Perciò è una specie di suicidio per procura. Un altra ragione di questo tipo è che si ammazza il padre perché è l'unico che ti conosce davvero, che sa chi sei veramente, anche nei tuoi lati più penosi.
"Anche la madre ti conosce" ha obiettato lui.
"La madre non può capire certe cose di te, perché è una donna." Ho detto io.
Ha chiesto se mi riferivo ad aspetti sessuali. Uno, un paio di anni prima, aveva ammazzato il padre perché questi aveva saputo che il figlio era omosessuale.
"Sei omosessuale?" m'ha chiesto.
"No... O forse lo sono e non lo so..." ho continuato lo scherzo.
Poi, dopo un po', ho detto:
"Ma qualche anno fa, quando ancora viveva con noi, mio padre mi ha sorpreso a fare una cosa... brutta. Era l'unico che la sapeva."
"E cosa era che ti ha sorpreso a fare?"
Gli ho detto che non lo avrei confessato mai a nessuno. Era una cosa che non si poteva nemmeno dire.
Lui m'ha guardato. Ho capito che mi aveva creduto.
Allora ho riso e gli ho detto che era una stronzata, che me l'ero inventata un minuto prima. Mio padre non sapeva niente di me. Non gliene importava delle mie preferenze sessuali.
Ho scoperto, mentre parlavo, che mi piaceva quella conversazione, mi stravolgeva, ma mi trascinava. Ero estenuato, esaurito, ma avrei voluto continuare all'infinito.
"Magari è inutile cercare chissà quali motivi. Io avevo il movente dell'appartamento. Magari volevo semplicemente quei soldi là... la mia parte. Centocinquanta milioni non sono niente."
"Tu non sei uno che ammazza per centocinquanta milioni" ha detto lui.
Io ho detto che si faceva troppe illusioni su di me, solo perché avevo qualche voto più alto dei suoi all'università.
Poi ho aggiunto che centocinquanta milioni non erano molto, ma potevano costituire una base di partenza. Un padre aveva il dovere di dare ai figli una base. Qualcosa su cui costruire. Il mio non ci aveva dato niente, anzi, ci voleva levare tutto.
Lui mi fissava, deluso. Dopo un po', ha detto di nuovo che non poteva credere che avessi ammazzato per soldi.
Ho risposto che infatti non avevo ammazzato nessuno.
I soldi potevano bastare a pensarci, di ammazzare, per uno come me. Ma ammazzare davvero era una cosa diversa, ha continuato, cocciuto.
Dopo un po', ha guardato l'orologio.
"Me la prometti una cosa?" ha chiesto.
Ho risposto che dovevo sapere prima di che si trattava.
S'è fatto serio e s'è messo a descrivermi quello che stava capitando all'immigrato, il presunto assassino. Mi sono meravigliato: Rinaldi, il poliziotto grosso, sembrava davvero preoccupato per quel disgraziato. Si preoccupava del fatto che lo accusavano e magari lo pestavano. Sentiva compassione per lui, ed era sincero. L'ho ammirato. Io non ne sarei stato capace. Col cervello magari, ma non con il cuore.
Mi ha detto che, secondo lui, uno come me era capace di ammazzare, ma non di reggere. Se non avessi retto, avrei fatto qualche sciocchezza. Qualche gesto da protagonista, magari suicidarmi o qualche altra pazzia.
"In quel caso è meglio che lasci due righe... così, in cui dici che il colpevole sei tu e l'immigrato non c'entra niente. Tanto non ti costa niente, no?"
L'ho assicurato che, se anche fossi stato io l'assassino, non mi sarei mai ammazzato. Non ne avevo la minima intenzione.
Lui ha annuito. S'è alzato per andarsene.
Prima, si è fatto di nuovo duro:
"Comunque non stare tranquillo. Prima o poi le cose vengono fuori"
Io ho allargato le braccia, con un sorriso.
"Se sei stato tu, come fai a stare qua, seduto in mezzo alla gente? A camminare per strada?" m'ha chiesto. Ma sapeva che era una domanda stupida e non ha aspettato la risposta.

Il giorno seguente ho rivisto Katia. Quella sera si stava preparando un festa, in un albergo vicino al nostro e il padre aveva permesso alla ragazzina di andarci, assieme ad altri ragazzi della nostra pensione.
Katia è venuta a usare il mio telefono per chiamare il suo ragazzo, di nascosto. Non era riuscita più a vederlo da quando il padre aveva minacciato di denunciarlo. Ha invitato il ragazzo a venire a quella festa e lui ha detto di sì.
La cosa ha messo Katia in uno stato di grande agitazione. Era impaurita e contenta, assieme. Si sentiva viva e adulta.
Ho parlato un po' con lei. Aveva voglia di chiacchierare ed io per lo più ascoltavo. Erano discorsi che avrebbe potuto fare qualsiasi ragazzina della sua età: la scuola, le amiche, le invidie, opinioni chiare e assolute sul mondo e sulla gente. Mi sono ricordato che alla sua età ascoltavo argomenti simili dalle mie compagne. Allora non sapevo parteciparvi e non mi piacevano. Dopo Rinaldi, invece, mi ha fatto piacere ascoltarle.
Le ho dato persino consigli su come vestirsi per quella serata, così importante per lei. Le ho detto che mi piaceva così com'era, coi suoi abiti soliti, ma lei voleva indossare un abito un po' aggressivo, da ragazza metropolitana. Dopo che è tornata nella sua stanza, sdraiato sul letto, l'ho sentita a lungo parlare di rossetti e di fard con sua madre, che l'aiutava a truccarsi.
Ascoltandola, mi sono addormentato.

Mi sono svegliato che era già buio.
Non potevo restare solo, in quel buio, così sono andato anch'io a vedere la festa cui era andata Katia.
L'albergo in cui si teneva aveva una specie di grande cortile, che di solito veniva usato come un parcheggio, ma ora le macchine erano state sgomberate e erano stati tesi addobbi tra i pali della luce e l'edificio, aggiunte lampade, allestita una pedana che fungeva da palco per quelli che si sarebbero esibiti.
Quando sono arrivato, la festa era già in corso da un po'. Un animatore coinvolgeva la gente in scherzi abbastanza volgari, cui tutti si divertivano molto.
Il pubblico era composto da turisti di tutte le età. Di solito non mi piace la gente comune, ma in quell'occasione non me ne importava niente di com'erano.
Invece di seguire il mio consiglio, Katia aveva messo il vestito che mi aveva mostrato, inappropriato per lei, ma vistoso. Su una donna più grande sarebbe stato provocante e volgare, su di lei, ancora ragazzina, invece ispirava una specie di tenerezza, proprio perché non le stava bene. Anche il trucco e l'espressione studiata, compresa di sé, che lei sfoggiava, la facevano sembrare vulnerabile.
Dopo l'animatore è venuto un cantante che accompagnava la voce con delle basi registrate. Era un fallito di mezza età e si vedeva che il suo repertorio ormai lo sapeva a memoria, comprese le frasi "casuali" che scambiava col pubblico, scherzi a doppio senso, banalità, battute vecchie di anni.
Naturalmente molti hanno cominciato a ballare.
Katia aspettava il suo ragazzo con impazienza sempre maggiore. Si vedeva che anche le altre ragazzine della pensione, sue amiche, sapevano che cosa doveva succedere e cominciavano a prenderla un po' in giro, perché quello non si faceva vedere. Katia ci restava male, si metteva da parte, imbronciata.
Una volta ha incontrato il mio sguardo e m'ha subito ignorato, apposta, come se volesse rifarsi su di me delle pene che le faceva passare il ragazzotto che la faceva aspettare.
Poco dopo il ragazzo è finalmente arrivato e Katia s'è di colpo illuminata e contemporaneamente ha cercato di nasconderlo, per non perderci in dignità.
Era venuto assieme a un gruppetto di altri ragazzini del posto, un po' chiassosi e strafottenti. C'erano anche altre ragazze, dell'età di Katia e anche una più grande, non bella, grossa e un po' volgare.
Katia aspettava che il ragazzo la raggiungesse, non voleva andare da lui per prima, ma lui la ignorava. Stava in disparte con i suoi amici, faceva lo spiritoso.
Lei si è fatta scura in viso. Un paio delle sue amiche, con falsa sollecitudine, si sono offerte di andare a parlare con il ragazzo, facendo da tramite, per capire perché si comportava così. Katia doveva sapere che era un'offerta a doppio taglio, che le amiche un po' godevano della sua debolezza, ma non ha potuto rifiutare.
Le intermediarie sono andate a parlamentare. Non potevo sentire che cosa si dicevano, ma tutto mi era chiaro. Capivo tutto, sentivo ogni cosa, come fossi nella testa di quei ragazzi.
Finalmente il teppistello si è fatto convincere ed ha seguito le due messaggere fino da Katia, attraversando il cortile della festa. Katia si è illuminata di nuovo, ma in un modo indeciso, pieno di timore. Il ragazzo l'ha salutata, ma non l'ha baciata. E' rimasto a mezzo metro da lei e sorrideva, guardandosi le scarpe. Si comportava come se la disprezzasse, in modo teatrale. Lei non ha dato a vedere di essere rimasta ferita, ha continuato a scambiare frasi noncuranti per un po' e, quando ha potuto, s'è allontanata. Temeva che fosse il ragazzo il primo a lasciarla là, da sola.
Ha finto di essere allegra, insieme alle sue amiche. Ma quelle insistevano a consolarla a bassa voce. Dicevano che lui era solo un vigliacco, che faceva così, come se non la volesse più, ma la verità era che aveva paura della minaccia della denuncia.
Il ragazzo stava tra i suoi amici. Dopo un po' s'è messo a fare coppia con la ragazza che avevano portato con loro, quella brutta e un po' grossa. Lo faceva apposta, per ferire Katia. A un certo punto ha baciato quell'altra.
Katia ha finto di non vederlo.
Intanto il concerto del cantante fallito finiva e si preparava un nuovo numero. Quando sono tornato a cercare Katia con gli occhi era sparita.
L'ho trovata nel fondo del parcheggio, dove una rete di recinzione confinava con i garage di un condominio.
Non era quello che avevo previsto, ma l'ho raggiunta.
M'ha guardato sulla difensiva, seria, nel suo patetico vestito. Io mi sono sentito come portato verso di lei.
Mi sono salite delle parole alle labbra, così sincere, che sia io che lei, ne siamo rimasti stupiti.
Le ho detto che la invidiavo, che avrei dato tutto per essere come lei.
"Se potessi, ti vorrei bene io." Ho detto e l'ho ripetuto anche, come se avessi paura che non capisse. M'è tremata la voce e subito l'ho lasciata lì e sono tornato nel mezzo della festa.
Il nuovo spettacolo era tenuto da un uomo in smoking che faceva trucchi da prestigiatore.
Nello stato in cui ero, ci ho messo un po' a capire che era lo stesso che avevo sentito allora, da mio padre. La cosa non mi ha sconvolto, mi ha fatto quasi piacere. Mi è parsa assolutamente naturale.
A un certo punto, il mago è anche disceso tra il pubblico, facendo dei giochi con gli spettatori. E' venuto anche da me, tirando fuori dalla mia giacca un portafoglio che non era mio.
Ha invitato la gente ad applaudirmi, cosa che hanno fatto volentieri. Mentre mi applaudivano ho incontrato lo sguardo di Katia che era tornata in mezzo alla folla.
Quando la festa è finita, siamo tornati in un gruppo, tutti assieme verso la pensione. Ora Katia era allegra, non pensava più al suo ragazzo. Non mi ha più parlato, ma era contenta di quello che avevo detto. Sono stato sicuro che lo avrebbe raccontato alle amiche, se ne sarebbe ricordata. E questo mi ha fatto piacere, ero davvero felice al pensiero che avrebbero parlato di me. Non ero più sconvolto ora, ero tranquillo, sereno, nel fresco della sera d'estate.
Arrivati davanti alla pensione, ci è venuto incontro il padre di Katia. Si muoveva in modo strano, goffo e veloce, quasi un uomo che si sta buttando in un incendio. Ci è venuto addosso, ha preso la figlia, che stava in mezzo al gruppo a un paio di metri da me, e l'ha strappata via, tirandola verso di sé. Lei non ha reagito, dalla sorpresa, e nemmeno io. Sono rimasto fermo a guardare. Poi ho capito che la voleva portare al riparo da me, dietro la porta della hall della pensione.
Subito dopo ho visto i poliziotti. Sono stato molto calmo, mi veniva quasi da ridere. Mi sono rivolto anche alla gente che ci fissava e con tono semplice, ho detto che chiedevo scusa a tutti e altre cose con poco senso.
Poi mi hanno portato via. Rinaldi non c'era e questo mi è dispiaciuto. C'era invece quello che era venuto con lui il primo giorno, il poliziotto magro.
Ho chiesto al magro come mai Rinaldi non era venuto. Mi ha risposto che stava lavorando altrove. Senza che lo chiedessi, mi ha spiegato che era stata trovata la mia borsa, quella che avevo gettato, in una discarica. Ero stato stupido a buttarla in un cassonetto. C'erano ancora le macchie di sangue ed erano state analizzate. Erano mie e di mio padre.
Ho chiesto quando era stata trovata, la borsa. Lui ha detto due giorni prima.
Ho detto che allora Rinaldi già lo sapeva, quando era venuto a parlarmi.
Il magro ha scosso il capo.
"Non lo sapeva, i risultati delle analisi non erano ancora disponibili. Il sangue poteva essere di chiunque."
"E quell'altro? Quello che ha preso il portafoglio di mio padre?"
Il magro ha sorriso quasi con trionfo.
"Un altro po' e confessava... Era caduto in un sacco di contraddizioni." M'ha guardato. "Quando l'hanno liberato, non ci credeva"

Quella notte in carcere ho avuto una crisi di disperazione, più terribile di quella che avevo avuto in albergo. Credo che sia stato per l'essere stato rinchiuso. Nessuno mi aveva mai chiuso a chiave, prima. Ma ho tenuto tutto dentro, con i muscoli che tremavano. Non volevo che se ne accorgessero e mi fermassero.
Sono andato nel gabinetto e ho infilato la testa nel water, il naso e la bocca sott'acqua. Ho lottato a lungo, come una bestia, per annegare, combattendo la forza, altrettanto bestiale, dell'istinto che voleva tirarmi fuori da lì e respirare.
Ma non ci sono riuscito, stavolta, ad ammazzare. Non ero più come prima.

Qualche giorno dopo, sono stato meglio. Avevo anche ammesso le mie responsabilità. M'hanno tolto dall'isolamento e messo insieme agli altri detenuti.
C'era un gruppo che parlava delle esperienze erotiche più belle che aveva avuto nella vita. Erano racconti iperbolici, esagerati e probabilmente inventati. Erano anche volgari. Però sono stato a sentire. Si vedeva che ci si divertivano e quasi ci credevano anche loro. Erano dei dolcissimi sogni, camuffati da pornografia.
Dopo un po' uno ha chiesto anche a me di raccontare e io ho raccontato una storia del tipo di quella con Katia, cioè con una ragazzina sui sedici anni. Non ho inventato molto, però.