La longa manus di Frank Miller tra disegno

e grafica digitale, tra fumetto e cinema

la mano del tiranno

Un viaggio attraverso i vicoli bui di Sin City, caso-limite della contaminazione tra diverse tecniche di rappresentazione

 

di Mauro RESMINI

 

La mano del tiranno
Il green screen e la computer grafica sono tecniche oggi largamente utilizzate, ma Sin City si spinge decisamente più in là rispetto a film analoghi: ciò che differenzia la pellicola di Miller e Rodriguez da film come Sky captain and the world of tomorrow non è quanto queste tecniche vengano impiegate, ma a che scopo; Sky captain non diversamente da Sin City utilizza esclusivamente sfondi creati al computer: la caratteristica davvero unica di Sin City è che questi sfondi riproducano al millimetro gli sfondi disegnati da Miller nella sua graphic novel. In questo senso, l’esperienza di Sin City rappresenta probabilmente il punto più estremo di onnipotenza della mano al cinema, che viene eletta a “primo motore”, con una delle sue tecniche – il disegno – a costituirsi come principio visuale strutturante del film.

Il rilancio esistente tra la mano del disegnatore e quella del regista è continuo e ossessivo, e si spinge sino alla sovrapposizione reciproca: nelle parole dello stesso Robert Rodriguez, Sin City non è un adattamento, ma una trasposizione, poiché le tavole del fumetto non si limitano a ispirare la realizzazione del film, ma addirittura ne divengono lo storyboard, secondo il principio quasi mai disatteso di girare un’inquadratura per ogni vignetta. L’idea è evidentemente rivoluzionaria, poiché si è trattato di lavorare secondo un principio inverso rispetto a quello usuale: non si adatta il fumetto (d’ora in poi Sin City novel) alle possibilità espressive del medium cinema, ma al contrario si impiegano le risorse linguistiche e tecniche del cinema per creare un’opera (d’ora in poi Sin City movie) che sia il più aderente possibile al fumetto. In un’ottica del genere, la mano – nella fattispecie quella di Frank Miller – non può che occupare un ruolo di primissimo piano: la mano altro non è che la matrice del fenomeno “Sin City”, una matrice insieme tecnica e concettuale.

 


 

La mano onnipotente
A livello tecnico, “Sin City” è un’opera della mano in senso assoluto: da un lato perché il mondo visivo di Sin City movie – il suo stile – è un calco accuratissimo delle tavole di Miller; dall’altro perché – restringendo il discorso al solo testo filmico – tutti gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono creati dalla mano, sono cioè disegnati al computer e applicati successivamente alle inquadrature con gli attori in carne e ossa. In questo senso, rispetto al confine sempre più incerto che separa oggi il film “vero e proprio” dal film di animazione Sin City movie occupa una posizione inedita ed estrema, fermandosi pochi passi prima del territorio dell’animazione: ciò che àncora Sin City movie alla classificazione di “film vero e proprio” è appunto la presenza di attori in carne e ossa; questo comporta, evidentemente, l’uso di una macchina da presa e dunque l’esistenza di un “girato”. Se i corpi del film sono dunque corpi veri, la cui consistenza di realtà pre-esiste allo sguardo della macchina da presa, lo stesso non può dirsi degli spazi all’interno dei quali questi corpi si muovono: la tecnica del green screen (utilizzata praticamente in ogni singola inquadratura) è in questo senso il trionfo della mano come strumento di creazione ex-novo, in grado di dare forma e vita a un mondo che non le pre-esiste. Lo schermo verde non è che un foglio bianco, ovvero lo spettro di possibilità creative più ampio che si possa immaginare poiché comprende in potenza tutti i mondi. È la mano – in tutta la sua onnipotenza tecnica – a intervenire su questo foglio bianco, a informarlo plasmando un unico universo (un universo unico) da tutti quelli possibili.

 

 

In Sin City movie dunque non esiste l’occhio del regista, esiste solo la mano del disegnatore. Al di là infatti della concezione radicale di “fedeltà al testo originario” (concretizzata nel vincolo una vignetta = una inquadratura), il film mette in scena la scomparsa dell’occhio del regista attraverso la subordinazione della macchina da presa – in termini di movimento e montaggio – allo sguardo (alla mano) di Miller. In Sin City movie la macchina da presa non esplora mai lo spazio: non ci sono piani sequenza (ecco l’eco del testo fumettistico) né ampi movimenti di macchina che non siano già in qualche modo suggeriti dal fumetto (come nel caso del volo di Marv giù per la tromba delle scale). Questo perché lo spazio di “Sin City” è creato ad hoc, disegnato appositamente pixel per pixel per fare da sfondo a una determinata inquadratura: è uno spazio che non riserva sorprese e in cui la mdp non ha nulla da scoprire perché si ritrova sotto l’onnipotente controllo della mano che lo ha creato, e lo ha creato perché fosse funzionale a una certa ripresa, vale a dire coerente con la singola vignetta di Sin City novel cui la singola inquadratura di Sin City movie corrisponde. In questo senso, il criterio di funzionalità e di economicità delle riprese su cui hanno puntato Miller e Rodriguez si avvicina imprevedibilmente allo stile cinematografico “classico”: una figura come il décadrage – per certi versi simbolo dell’estetica cinematografica moderna – non ha alcuna possibilità di essere contemplata nel mondo di “Sin City”, e questo sembra suggerire “in negativo” la classicità che permea lo sguardo milleriano. Il che è paradossale, dato il profondo e sincero (se di sincerità si può parlare) spirito postmoderno che anima un progetto filmico come SIN CITY. O forse – ripensandoci – non è affatto paradossale, se si tiene conto del carattere onnivoro e proteiforme che si è soliti attribuire all’estetica postmoderna…



 

Neoclassicismi
Per quanto la mano di Miller (che impugni una matita o un mouse) sia assoluta protagonista a livello dell’atto creativo, non si può dire che lo sia anche a livello di regia pura: lo stile registico di Sin City movie lavora sempre sulla base di un principio di piena intelligibilità narrativa, che prevede i personaggi (le loro azioni, le loro parole) immancabilmente al centro della scena. La regia di Rodriguez e Miller, coerentemente con la graphic novel, non abbandona mai i personaggi, ma anzi accetta di buon grado di subordinarsi senza mezze misure alla storia che sta raccontando. In altri termini, la mano registica di Sin City movie è invisibile: l’enunciatore del discorso filmico rimane sempre ben nascosto, non offre marche immediatamente riconoscibili della propria presenza.

Le motivazioni di questa scelta sono ovviamente da ricercarsi in Sin City novel: se si prova a spingere lo sguardo oltre la violenza efferata e la fisicità esplosiva che caratterizza i corpi del fumetto, si troveranno gli indizi di una profonda e radicata attitudine noir, sia a livello formale che tematico. Gli angoli di ripresa insoliti, l’uso del chiaroscuro e più in generale di una fotografia cupa e notturna che privilegia le zone d’ombra da un lato; la perversione, il sesso, l’onore e il crimine nella sua accezione più romantica dall’altro: tutti questi elementi – ben presenti in “Sin City” – non sono altro che vestigia del noir classico americano. Il fenomeno “Sin City” si nutre a piene mani di quell’immaginario, certamente letterario (da Chandler a Spillane, da Hammett a Cain) ma soprattutto visivo, e dunque cinematografico: la grande stagione del noir classico americano iniziata a metà degli anni Quaranta costituisce un serbatoio di immagini, temi e moods ormai sedimentati nell’immaginario planetario, e di cui “Sin City” tenta una sorta di sintesi. Le atmosfere noir richiamate da Sin City movie vanno ben oltre l’uso del bianco e nero, e trovano la loro espressione più sottile nell’assenza della mano del regista: il mondo di Sin City è talmente artefatto – talmente costruito dalla mano di Miller – da replicare quell’occultamento dell’enunciatore che costituiva il fondamento discorsivo del cinema classico. Come dire che la mano di Miller è talmente ubiqua da non essere in nessun luogo.

 


 


La mano, il volto
Oltre al suo ruolo creativo, la mano è anche la sede dell’esperienza tattile: in questo senso, Sin City movie è un film che – in maniera sottile ma decisa – chiede al suo spettatore di essere guardato con le mani, coinvolgendo cioè un ulteriore senso oltre alla vista e all’udito. O meglio: più che con un senso, Sin City movie cerca il contatto con una sensibilità (con una superficie sensibile) che vada al di là della vista e dell’udito, e che si lega concettualmente alla sensibilità tattile propria delle mani.

Questo perché Sin City movie esplora sino alle estreme conseguenze la strada del volto (e del corpo) come materialità, come elemento tanto visivo quanto tattile e concreto. I volti che popolano “Sin City” sono volti insanguinati, feriti, sfregiati, con chiaroscuri violenti che sottolineano ora gli occhi, ora la bocca. I corpi stessi vengono colpiti e mutilati, martoriati e decapitati: è la fisicità (e con essa la violenza) a dominare su tutto. I volti non esprimono emozioni se non attraverso i segni che si portano addosso, e che trovano nell’esibizione il senso della loro esistenza: la cicatrice che solca la fronte di Hartigan, per esempio, dice molto di più su tanti anni di lotte contro i criminali che non il suo sguardo. Sin City movie richiede allora di partecipare al film anche con una sensibilità tattile, che per quanto passi inevitabilmente dall’occhio, non può esaurirsi nel puro atto di visione, ma deve estendersi ad un’idea di tatto, più che al senso del tatto in sé.

 

 

Gli stessi corpi degli attori vengono brutalizzati, devotamente asserviti ai personaggi che devono interpretare: Miller e Rodriguez non richiedono che si dia “spessore” a un personaggio, l’importante è – magari con la giusta dose di make-up – che l’attore assomigli il più possibile a questo o a quel personaggio creato dalla penna di Miller. Ed ecco allora Benicio Del Toro aggiustarsi un po’ il naso e il mento per interpretare Jackie Boy, o Mickey Rourke sopportare estenuanti sedute di trucco per ottenere la faccia deforme di Marv. Sebbene coperti da maschere che li rendono immediatamente riconoscibili come personaggi della graphic novel di Miller, questi volti restano profondamente organici: sono indubitabilmente fatti di carne e sangue, e la violenza efferata (si pensi alla vendetta di Marv su Kevin) che si abbatte su di essi è lì a dimostrarlo.

I volti di Sin City movie raggiungono un grado di concretezza del tutto inedito perché si situano a metà tra la maschera e la carne: i tratti iper-marcati di un Hartigan o di un Marv lavorano come significanti di una riconoscibilità immediata, ma questo non li astrae per nulla dalla loro fisicità. I loro volti sono lì per essere feriti e accarezzati: per essere toccati con mano.



La mano detronizzata
Nella Città del Peccato, dunque, la mano del disegnatore è il vero tiranno. Il cinema tuttavia prova a rivendicare la sua specificità, e trova lo spazio per farlo in una zona periferica, quasi invisibile per sua stessa natura: il montaggio in campo/controcampo.

Il fumetto inevitabilmente per rappresentare i dialoghi predilige lavorare sulla composizione del quadro, sulla profondità di campo e sulla compresenza in una stessa vignetta dei due personaggi: per ragioni di economia rappresentativa, il fumetto non ricorre sistematicamente (come fa il film) alla struttura del campo/controcampo; si tratta di una modalità rappresentativa improntata alla sintesi. Sin City movie invece utilizza la struttura del campo/controcampo al di là di quanto non preveda il fumetto: è il caso, tra gli altri, del dialogo tra Roark e Hartigan in ospedale, dello scambio di battute tra Marv e Wendy mentre lui è legato a una sedia e della conversazione tra Dwight e Jackie Boy in macchina. L’uso del campo/controcampo è necessario per spezzare la staticità di alcune inquadrature: le inquadrature di Sin City movie sono dei tableaux vivants nel senso più letterale del termine, perché sono esattamente dei disegni che prendono vita grazie al movimento; la composizione  del quadro è – sulla scorta del fumetto – uno degli aspetti a cui è dedicata la maggiore attenzione, ma ciò evidentemente non può bastare: ecco allora la necessità di impiegare la ripresa in campo/controcampo.

 

 

La ridondanza del campo/controcampo in ambito cinematografico è accettata dallo spettatore, e anzi costituisce uno dei pilastri linguistici su cui si regge una narrazione che ricerca la completa intelligibilità; in ambito fumettistico invece, il lettore non accetterebbe con la disinvoltura dello spettatore cinematografico una pagina intera di volti che si ripetono uguali a se stessi. Questa irriducibile differenza tra i due media trova probabilmente la sua ragione profonda nella fondamentale “caducità” che caratterizza l’immagine filmica contro il carattere di “permanenza” di quella fumettistica: il campo/controcampo è una struttura fondata sull’assenza, nel senso che permette allo spettatore di inscriversi nel film ricorrendo sistematicamente ad una dialettica articolata sulla ripetizione del dittico scomparsa/riapparizione dei volti dei parlanti. Il cinema letteralmente sostituisce un volto all’altro, poiché l’immagine precedente scompare – si fa appunto assente – per lasciare spazio a quella successiva, salvo poi ricomparire dopo quest’ultima, favorendo l’intelligibilità del testo e dunque l’inscrizione del soggetto spettatoriale nel film. Le vignette di un fumetto invece – per propria natura – non sono mai assenti: le vignette non possono che darsi in presenza, anzi in compresenza tra di loro; una non esclude mai l’altra, non ne provoca l’eclissi: si offrono entrambe contemporaneamente allo sguardo del lettore.

Sul grande schermo dunque i volti si danno come luogo di scacco dell’onnipotenza della mano: è come se di fronte a uno degli oggetti più propriamente cinematografici e insieme più profondamente umani (di cui il concetto epsteiniano di fotogenia offre una mirabile sintesi) del medium, la mano dovesse ammettere – anche se solo marginalmente – la superiorità delle tecniche espressive del medium che la ospita1.

 

La specificità più intrinseca del cinema si manifesta in tutta la sua evidenza nell’alternanza del campo/controcampo, che permette al cinema di affermare la sua autonomia e peculiarità all’interno del suo campo d’elezione: quello dell’immagine in movimento.

 

 

1 Ovviamente accade anche l’inverso, cioè che la specificità del medium fumetto si riveli irriducibile alle tecniche espressive del cinema. è il caso dell’utilizzo dell’onomatopea come cornice di una vignetta: all’interno delle tre scritte “blam” Miller disegna nell’ordine la pistola di Marv che spara, il cranio del prete che viene colpito e la guglia della chiesa (cfr. Sin City, vol.1, Magic press, Roma 2004, p. 76).

 

La Mano del Tiranno, 26 giugno 2007