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La
mano del tiranno Il rilancio esistente tra la mano del disegnatore e quella del regista è continuo e ossessivo, e si spinge sino alla sovrapposizione reciproca: nelle parole dello stesso Robert Rodriguez, Sin City non è un adattamento, ma una trasposizione, poiché le tavole del fumetto non si limitano a ispirare la realizzazione del film, ma addirittura ne divengono lo storyboard, secondo il principio quasi mai disatteso di girare un’inquadratura per ogni vignetta. L’idea è evidentemente rivoluzionaria, poiché si è trattato di lavorare secondo un principio inverso rispetto a quello usuale: non si adatta il fumetto (d’ora in poi Sin City novel) alle possibilità espressive del medium cinema, ma al contrario si impiegano le risorse linguistiche e tecniche del cinema per creare un’opera (d’ora in poi Sin City movie) che sia il più aderente possibile al fumetto. In un’ottica del genere, la mano – nella fattispecie quella di Frank Miller – non può che occupare un ruolo di primissimo piano: la mano altro non è che la matrice del fenomeno “Sin City”, una matrice insieme tecnica e concettuale.
La
mano onnipotente
In Sin City movie dunque non esiste l’occhio del regista, esiste solo la mano del disegnatore. Al di là infatti della concezione radicale di “fedeltà al testo originario” (concretizzata nel vincolo una vignetta = una inquadratura), il film mette in scena la scomparsa dell’occhio del regista attraverso la subordinazione della macchina da presa – in termini di movimento e montaggio – allo sguardo (alla mano) di Miller. In Sin City movie la macchina da presa non esplora mai lo spazio: non ci sono piani sequenza (ecco l’eco del testo fumettistico) né ampi movimenti di macchina che non siano già in qualche modo suggeriti dal fumetto (come nel caso del volo di Marv giù per la tromba delle scale). Questo perché lo spazio di “Sin City” è creato ad hoc, disegnato appositamente pixel per pixel per fare da sfondo a una determinata inquadratura: è uno spazio che non riserva sorprese e in cui la mdp non ha nulla da scoprire perché si ritrova sotto l’onnipotente controllo della mano che lo ha creato, e lo ha creato perché fosse funzionale a una certa ripresa, vale a dire coerente con la singola vignetta di Sin City novel cui la singola inquadratura di Sin City movie corrisponde. In questo senso, il criterio di funzionalità e di economicità delle riprese su cui hanno puntato Miller e Rodriguez si avvicina imprevedibilmente allo stile cinematografico “classico”: una figura come il décadrage – per certi versi simbolo dell’estetica cinematografica moderna – non ha alcuna possibilità di essere contemplata nel mondo di “Sin City”, e questo sembra suggerire “in negativo” la classicità che permea lo sguardo milleriano. Il che è paradossale, dato il profondo e sincero (se di sincerità si può parlare) spirito postmoderno che anima un progetto filmico come SIN CITY. O forse – ripensandoci – non è affatto paradossale, se si tiene conto del carattere onnivoro e proteiforme che si è soliti attribuire all’estetica postmoderna…
Neoclassicismi Le motivazioni di questa scelta sono ovviamente da ricercarsi in Sin City novel: se si prova a spingere lo sguardo oltre la violenza efferata e la fisicità esplosiva che caratterizza i corpi del fumetto, si troveranno gli indizi di una profonda e radicata attitudine noir, sia a livello formale che tematico. Gli angoli di ripresa insoliti, l’uso del chiaroscuro e più in generale di una fotografia cupa e notturna che privilegia le zone d’ombra da un lato; la perversione, il sesso, l’onore e il crimine nella sua accezione più romantica dall’altro: tutti questi elementi – ben presenti in “Sin City” – non sono altro che vestigia del noir classico americano. Il fenomeno “Sin City” si nutre a piene mani di quell’immaginario, certamente letterario (da Chandler a Spillane, da Hammett a Cain) ma soprattutto visivo, e dunque cinematografico: la grande stagione del noir classico americano iniziata a metà degli anni Quaranta costituisce un serbatoio di immagini, temi e moods ormai sedimentati nell’immaginario planetario, e di cui “Sin City” tenta una sorta di sintesi. Le atmosfere noir richiamate da Sin City movie vanno ben oltre l’uso del bianco e nero, e trovano la loro espressione più sottile nell’assenza della mano del regista: il mondo di Sin City è talmente artefatto – talmente costruito dalla mano di Miller – da replicare quell’occultamento dell’enunciatore che costituiva il fondamento discorsivo del cinema classico. Come dire che la mano di Miller è talmente ubiqua da non essere in nessun luogo.
Questo perché Sin City movie esplora sino alle estreme conseguenze la strada del volto (e del corpo) come materialità, come elemento tanto visivo quanto tattile e concreto. I volti che popolano “Sin City” sono volti insanguinati, feriti, sfregiati, con chiaroscuri violenti che sottolineano ora gli occhi, ora la bocca. I corpi stessi vengono colpiti e mutilati, martoriati e decapitati: è la fisicità (e con essa la violenza) a dominare su tutto. I volti non esprimono emozioni se non attraverso i segni che si portano addosso, e che trovano nell’esibizione il senso della loro esistenza: la cicatrice che solca la fronte di Hartigan, per esempio, dice molto di più su tanti anni di lotte contro i criminali che non il suo sguardo. Sin City movie richiede allora di partecipare al film anche con una sensibilità tattile, che per quanto passi inevitabilmente dall’occhio, non può esaurirsi nel puro atto di visione, ma deve estendersi ad un’idea di tatto, più che al senso del tatto in sé.
Gli stessi corpi degli attori vengono brutalizzati, devotamente asserviti ai personaggi che devono interpretare: Miller e Rodriguez non richiedono che si dia “spessore” a un personaggio, l’importante è – magari con la giusta dose di make-up – che l’attore assomigli il più possibile a questo o a quel personaggio creato dalla penna di Miller. Ed ecco allora Benicio Del Toro aggiustarsi un po’ il naso e il mento per interpretare Jackie Boy, o Mickey Rourke sopportare estenuanti sedute di trucco per ottenere la faccia deforme di Marv. Sebbene coperti da maschere che li rendono immediatamente riconoscibili come personaggi della graphic novel di Miller, questi volti restano profondamente organici: sono indubitabilmente fatti di carne e sangue, e la violenza efferata (si pensi alla vendetta di Marv su Kevin) che si abbatte su di essi è lì a dimostrarlo. I volti di Sin City movie raggiungono un grado di concretezza del tutto inedito perché si situano a metà tra la maschera e la carne: i tratti iper-marcati di un Hartigan o di un Marv lavorano come significanti di una riconoscibilità immediata, ma questo non li astrae per nulla dalla loro fisicità. I loro volti sono lì per essere feriti e accarezzati: per essere toccati con mano.
Il fumetto inevitabilmente per rappresentare i dialoghi predilige lavorare sulla composizione del quadro, sulla profondità di campo e sulla compresenza in una stessa vignetta dei due personaggi: per ragioni di economia rappresentativa, il fumetto non ricorre sistematicamente (come fa il film) alla struttura del campo/controcampo; si tratta di una modalità rappresentativa improntata alla sintesi. Sin City movie invece utilizza la struttura del campo/controcampo al di là di quanto non preveda il fumetto: è il caso, tra gli altri, del dialogo tra Roark e Hartigan in ospedale, dello scambio di battute tra Marv e Wendy mentre lui è legato a una sedia e della conversazione tra Dwight e Jackie Boy in macchina. L’uso del campo/controcampo è necessario per spezzare la staticità di alcune inquadrature: le inquadrature di Sin City movie sono dei tableaux vivants nel senso più letterale del termine, perché sono esattamente dei disegni che prendono vita grazie al movimento; la composizione del quadro è – sulla scorta del fumetto – uno degli aspetti a cui è dedicata la maggiore attenzione, ma ciò evidentemente non può bastare: ecco allora la necessità di impiegare la ripresa in campo/controcampo.
La ridondanza del campo/controcampo in ambito cinematografico è accettata dallo spettatore, e anzi costituisce uno dei pilastri linguistici su cui si regge una narrazione che ricerca la completa intelligibilità; in ambito fumettistico invece, il lettore non accetterebbe con la disinvoltura dello spettatore cinematografico una pagina intera di volti che si ripetono uguali a se stessi. Questa irriducibile differenza tra i due media trova probabilmente la sua ragione profonda nella fondamentale “caducità” che caratterizza l’immagine filmica contro il carattere di “permanenza” di quella fumettistica: il campo/controcampo è una struttura fondata sull’assenza, nel senso che permette allo spettatore di inscriversi nel film ricorrendo sistematicamente ad una dialettica articolata sulla ripetizione del dittico scomparsa/riapparizione dei volti dei parlanti. Il cinema letteralmente sostituisce un volto all’altro, poiché l’immagine precedente scompare – si fa appunto assente – per lasciare spazio a quella successiva, salvo poi ricomparire dopo quest’ultima, favorendo l’intelligibilità del testo e dunque l’inscrizione del soggetto spettatoriale nel film. Le vignette di un fumetto invece – per propria natura – non sono mai assenti: le vignette non possono che darsi in presenza, anzi in compresenza tra di loro; una non esclude mai l’altra, non ne provoca l’eclissi: si offrono entrambe contemporaneamente allo sguardo del lettore. Sul grande schermo dunque i volti si danno come luogo di scacco dell’onnipotenza della mano: è come se di fronte a uno degli oggetti più propriamente cinematografici e insieme più profondamente umani (di cui il concetto epsteiniano di fotogenia offre una mirabile sintesi) del medium, la mano dovesse ammettere – anche se solo marginalmente – la superiorità delle tecniche espressive del medium che la ospita1.
La specificità più intrinseca del cinema si manifesta in tutta la sua evidenza nell’alternanza del campo/controcampo, che permette al cinema di affermare la sua autonomia e peculiarità all’interno del suo campo d’elezione: quello dell’immagine in movimento.
1 Ovviamente accade anche l’inverso, cioè che la specificità del medium fumetto si riveli irriducibile alle tecniche espressive del cinema. è il caso dell’utilizzo dell’onomatopea come cornice di una vignetta: all’interno delle tre scritte “blam” Miller disegna nell’ordine la pistola di Marv che spara, il cranio del prete che viene colpito e la guglia della chiesa (cfr. Sin City, vol.1, Magic press, Roma 2004, p. 76).
La Mano del Tiranno, 26 giugno 2007 |
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