|
||||
|
||||
![]() |
||||
MARTIN SCORSESE A RIMINI
L’autore de IL DOLCE CINEMA/IL MIO VIAGGIO IN
ITALIA, infatti, si era precedentemente dedicato con attenzione a preservare
la memoria delle pellicole statunitensi prodotte sino agli anni Settanta
(VIAGGIO NEL CINEMA AMERICANO, 1995).
Chi è stato all’UCLA (ma non all’USC, che ha fama migliore) e ha girato tra gli scaffali di biblioteche e book-shop, conosce la sconfortante sensazione di assenza della memoria. Sono pochissime le monografie, scarse le sceneggiature, rari i saggi relativi all’epoca che arriva sino ai fatidici Seventies, quando il New American Cinema portava sugli schermi la realtà urbana del disagio, le angosce del singolo individuo perso dentro i suoni e i colori della metropoli alienata. E se Paul Schrader, epitome di tali individualità borderline, sensibili e sofferte, si era salvato scrivendo TAXI DRIVER, dopo divorzi, dipendenze varie e licenziamenti dall’American Film Institute, Scorsese, raccogliendone il testimone artistico, aveva rappresentato il tutto con una regia rivoluzionaria, sintonizzata e sincronizzata su ritmi e frequenze di New York.
Se chiedete a uno studente di cinema di Los Angeles, non potrà far a meno di ricordare Scorsese e Taxi Driver, ma non vi citerà un titolo di Howard Hawks e con scioltezza snocciolerà i nomi degli sceneggiatori studiati, tra cui sicuramente troveranno posto nomi a noi giustamente sconosciuti o meteore sopravvalutate come Kevin Williamson.
Persino ricevendo il Premio intitolato a John Huston, nel 1996, Scorsese parlò di “restoring”, di rispetto e di difesa dei “valori morali” del cineasta, di difesa del sistema-cinema a rischio di entropia, di diritti dell’Artista e di copyright usurpato dagli Studios. Una mosca bianca, un esempio meraviglioso di fede (lui che voleva essere un “parish priest”) in qualcosa di grandioso, quasi la dimostrazione di una vocazione che va oltre il talento artistico. “The Film Foundation”, “The Artists Rights Foundation”, tutte battaglie poco appoggiate in patria, vengono qui salutate con plauso e stima. C’è sempre un riferimento generoso all’Italia, nei discorsi pubblici di Scorsese: l’incontro con Jack Valenti della MPAA a Sorrento, nel 1970, il lavoro sul DOLCE CINEMA, i frequenti viaggi anche per incontrare Fellini, mai gratuiti e sempre volti a garantire un futuro alle pellicole bisognose di attenzioni e restauri. Di questi ultimi incontri, il regista ha fatto un racconto completo, appassionato e commovente, mettendo in parallelo la malattia del maestro riminese e quella del padre, scomparso quattro mesi prima di Fellini stesso.
Le passeggiate per la Roma notturna che ispirò
SATYRICON, la Roma sotterranea, catacombale; la battaglia per far
distribuire LA VOCE DELLA LUNA, quando entrambi furono sconfitti dal
disinteresse delle Majors, seppur dopo gli ottimi incassi de L’INTERVISTA in
America; addirittura il primissimo incontro del ’70 (forse proprio a
Sorrento), quando il ventisettenne studente dell’American Film Institute,
già cormaniano d.o.c., andò a presentare suoi brevi lavori, certo, ma anche a
diffondere il materiale di altri colleghi alle prime armi. Un uomo che vive
per il cinema a 360 gradi, come ha capito lo spettatore che, al Fulgor, gli
ha urlato “Marty, sei un essere umano meraviglioso”, trascendendo i termini
del premio e del contesto generale in cui veniva consegnato.
La citazione de I VITELLONI, per quanto
doverosa, conteneva comunque qualcosa di personale, di sentito. La Rimini
immaginata dal giovanissimo talento, che iniziò a soli quattro anni di età,
nel 1946, a seguire il cinema anche italiano sugli schermi newyorkesi, era
un luogo della fantasia, poi diventato topos di riferimento per altri
cineasti affascinati dalla spiagge oniriche de I VITELLONI e de LA DOLCE
VITA, dalle feste di matrimonio (ovviamente AMARCORD), o dalla potente
valenza simbolica della palla di ferro - citata dal regista - di PROVA
D’ORCHESTRA, che nel 1978 acquisiva un valore politico riferito al tragico
presente e preconizzava il buio decennio successivo.
Il concerto d’addio della Band dylaniana del ‘78 - il link è fin troppo evidente - lascia il posto a un fiume in piena di materiale fatto decantare, distillato e riportato in vita con l’arte del montaggio, infine fissato nello splendore contrastato del b/n, in cui la torrenziale produzione di Robert Zimmerman di quegli anni irripetibili è perfetta metafora di un’America che aveva nel Village di Greenwich l’ombelico di un non-movimento (c’era stato Kerouac, Woody Guthrie era in manicomio, resistevano sentori di Esistenzialismo, ma non di più) ancora lontano dal preciso impegno politico.
Scorsese e lo stesso Dylan non fanno sconti al proprio passato: l’opzione della lotta dura non era nelle prospettive delle star dell’epoca - fatta eccezione, pare, per Joan Baez e Pete Seeger, il resistenziale comunista che voleva tagliare i cavi elettrici del concerto del ’65 - e all’alba del Movimento, dopo l’incidente motociclistico del ’66, si ferma la parabola dylaniana, il suo coinvolgimento all’interno dello Human Rights, la valenza di messaggio collettivo dei suoi testi, da MASTERS OF WAR a BLOWIN IN THE WIND, e forse la grandezza di un’artista poi ritrovatosi solo a sprazzi (BLOOD ON THE TRACKS - HARD RAIN - DESIRE).
Certo, Scorsese dice di essersi sentito troppo
coinvolto - è praticamente coetaneo di Dylan - e di aver voluto
principalmente assemblare materiale altrui (compaiono Ginsberg e Seeger,
Baez, Al Kooper e Mike Bloomfield). Ma forse un po’ di distacco emotivo ci
fu anche nel cineasta in erba, che come molti visse la svolta e il ritiro
quasi si trattasse di un tradimento verso gli ideali di una generazione.
|
||||
|
||||
|