Music begins to atrophy when it departs too far from the dance...
Poetry
begins to atrophy when it gets too far from music.
(Ezra Pound)
Come il San Giorgio di
Vittore Carpaccio,
Patti Smith arriva in volo fino alla dead city veneziana atterrita
dal drago,
lei a cavallo di cani ululanti di nome Banga e Lenny Kaye, insieme ai quali
chiama a raccolta le fiere impietrite dalla Storia, scioglie il leone di San
Marco e percorre di notte le calli con la sua banda di giustizieri
travestiti da bestie. Il drago è l’apatia, la fissità di una città che
chiede solo di essere continuamente scossa dalla Cultura, dai Poeti e dagli
Artisti, com’ è successo in questa mirabile seconda edizione del “L.i.v.e.
in Venice”, il vero grande evento musicale delle ultime estati in laguna.
Per organizzare qualcosa che non ripetesse all’infinito la litania o il
rosario dei topoi classici della nostra città, bisognava andare a
cercare un luogo dimenticato e una location adatta ai concerti all’aperto.
Il riuso del Teatro Verde è stato il colpo di genio di Aloud Promotion e di
Ponderosa, cui si deve “L.I.V.”.
Alcuni veneziani tra il
pubblico non conoscevano nemmeno l’esistenza di questo anfiteatro,
completato nel 1954 su progetto di Luigi Vietti e Angelo Scattolin e che ora
ci permette di ammirare Patti Smith, i Buena Vista Social Club o Melody
Gardot avendo come sfondo il bacino di San Marco verso il Lido. Tutto lo
spazio che precede il teatro, dall’entrata laterale sino al grande parco e
al retro-palco verso l’acqua è quanto di più semplicemente scenografico
esista in laguna, senza però dover “sembrare Venezia”, quella delle pietre
angolari, dei marmi, delle colonne e dei bovoli.
è
fisiologico chiedere un po’ di verde in estate, anche restando in città:è
l’occhio stesso a volerlo e, a San Giorgio, questo è possibile averlo senza
doversi spingere fino al Lido. Chi scrive ricorda Leonard Cohen in
Piazza San Marco, Cesaria Evora alla Fenice e Chico Buarque al
Casinò estivo, ma lo scenario della cavea artificiale del Teatro Verde non
ha paragoni e conferisce qualcosa di magico agli spettacoli, anche solo
grazie all’aggiunta di semplici spot di luce colorata rivolti verso le
colonne naturali dei cipressi.
Noi siamo già in attesa dell’edizione 2014, sperando che l’evento si
trasformi in un festival sviluppato lungo l’arco di dieci giorni/due
settimane, arricchito, se possibile, da iniziative collaterali che accolgano
il pubblico sin dal primo pomeriggio. Marc Quinn e “Fragile”
hanno svolto egregiamente il loro compito
-
anche a prescindere dai concerti, ovviamente
- ma sarebbe interessante poter rimanere all’interno dell’area del parco
a partire da qualche ora prima degli spettacoli.
And the winged Lion became an howling dog…
Patti Smith è
perfetta nel cogliere il significato del genius loci,
intrecciando memoria collettiva e luoghi interiori.
Nei
suoi racconti il venezianissimo Albino Luciani,già celebrato in “Wave”,
incontra Ezra Pound,probabilmente nella chiesa di San Giorgio,
spesso
citata tra un brano e l’altro,
prima
di tornare a San Michele,
mentre
durante l’esecuzione di “Banga” è l’intera schiera di sculture
zoomorfe veneziane ad essere convocata per un poetico/maledetto raid
notturno al seguito della godmother of punk e del leone alato di San
Marco portato in vita.
La
poetessa newyorchese va sempre oltre i confini del testo musicale e si pone
al centro di un rito collettivo (quello sacro del LIVE) che esige la
condivisione delle dimensioni private dei presenti.
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E quando viene rievocata la celebrazione del rito della fertilità grazie al
quale il mare/madre della laguna le avrebbe permesso di avere un figlio, il
glamour si fonde alla dimensione domestica, poiché sarebbe stata Isabella
Rossellini a farle lanciare in acqua una delle due scarpe, come
richiesto dalla tradizione.
La Smith è quindi un catalizzatore di energia pronta per essere
redistribuita in forma di poesia recitata, danza, musica. La perfetta
sintesi auspicata da Ezra Pound si realizza nella fusione di gesto
aggraziato, affabulazione e
canto. è
in questa forma complessa che ci vengono regalate “Privilege/Set me free”,
”Distant Fingers”, ”Break it Up”, ”Dancing Barefoot” e “Pissing
in a River”, cioè il cuore della produzione smithiana degli anni
Settanta, mentre al centro e alla fine del concerto stanno due
concentrazioni di rock puro, con meno poesia e più spazio alla band (“her
band”, ma anche dell’eterno Lenny Kaye).
Ascoltiamo “Summertime
Blues”, cioè Eddie Cochran catapultato dagli albori del rock’n roll
(1958!), ”Banga” e “Dead City”.
A fatica si rimane seduti e siccome “la gente ha in mano il potere”, quando
parte “Because the Night” conquistiamo tutti il quasi-proscenio, che
al Teatro Verde significa rischiare di cadere nel golfo mistico. ”Gloria”
è pura apoteosi di energia animalesca, forse ancor più potente e aggregante
del precedente inno smithiano-springsteeniano. Scendono dai gradoni
semicircolari del T. Verde fiumi di teenager assolutamente non
pronosticabili, quasi avessero capito che la set-list, dopo
l’inevitabile “People have the Power”, prevede “My Generation” (Who,
1965).
Nonne e mamme coetanee della Smith assumono fattezze e sguardo acceso di
figlie e nipoti, quindi benedette da un fotoritocco dell’anima che solo la
musica eternamente giovane, il rock, può assicurare.
Dopotutto sappiamo da tempo che il rock’n roll “is here to stay”.
Forever.
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