L.I.V.E. IN VENICE 2013

 

MELODY GARDOT
the absence

 

Teatro Verde, Isola di San Giorgio, Venezia
24 luglio 2013 h.21

 

di Gabriele FRANCIONI
 

30/Lode

 fotogallery © Nadia Bisighini I fotogallery © Flavia Chiroli

“When I was still in my teens,I felt I was already an old soul”.

Appena arrivati a San Giorgio,lo sguardo deve girare attorno alla gigantesca figura gonfiabile di Marc Quinn,uno dei punti cardinali dell’ultima Biennale Arte,circumnavigandola mentre ne comprende il senso. Rappresenta il corpo femminile che ha superato l’handicap e ha partorito: in un certo senso ci annuncia Melody Gardot. Appena ventisettenne, lei è già un’ “anima antica”, sopravvissuta a molte disabilità e che, grazie alla musicoterapia, ha deciso di partorire se stessa e rinascere come compositrice. 
Si autodefinisce “musicista per caso”.
Dieci anni fa,
investita da un’auto mentre era in bicicletta, rimase per lungo tempo a rischio di  paralisi.
Tutt’ora viene accompagnata da un “black cane” (bastone) e da un paio di occhiali da sole,
che ne proteggono gli occhi, ne nascondono lo sguardo e la descrivono come nuova Marlene Dietrich o Veronica Lake, anti-diva noir scivolata per caso negli Anni Dieci del XXI° secolo.
Gardot è quindi la rappresentazione vivente, quasi l’icona del tenace riscatto fisico dopo il trauma sofferto, ancora adolescente,
e per il quale rischiò la vita, la perdita della vista, l’uso delle gambe e che le ha lasciato zone d’ombra nella memoria.
Oggi la sua immagine,
anche sul palco, trattiene orgogliosamente i segni del passato.

                             

L’evento del 24 luglio al Teatro Verde è il centro, il fulcro dell’estate musicale veneziana: il perno para-jazzistico del jazz che gira intorno e allo stesso tempo  l’epitome di un approccio aperto a sonorità crossover e a contaminazioni ormai ineludibili nell’ anno 2013 (musica brasiliana, africana, francese e flamenco), cioè un’epoca in cui il termine “world music” è al contempo desueto, naif eppure perfettamente attuale nel catturare lo zeitgeist glocal del fare musica quasi a metà degli Anni Dieci del Terzo Millennio.
Necessariamente e coerentemente più vissuta dei suoi 27 anni,
la musicista del New Jersey può vantare un brano destinato a diventare standard nei repertori dei prossimi decenni (“Baby I’m a Fool”,2009) e accelera a ogni nuovo album una crescita artistica inusuale per artisti della sua età.
è come se la malattia e la lunga riabilitazione l’avessero collocata fuori dal tempo,in uno stato di grazia eterotopica riservata agli eletti, garantendole comunicazione diretta con i grandi del passato,che ora attraversano il suo corpo e la splendida voce incantatrice per tornare a risuonare dentro la nuova cassa armonica, fattasi Angelo/annunciatore, di Melody.
Dopo l’incipit di “Goodbye”,
suadente ossimoro blues (goodbye/hello) per un inizio di concerto color seppia, tra brevi frasi swinganti del clarinetto e brevi sincopi del piano, Gardot mette in chiaro quella natura sciamanica,di medium della musica.
Al secondo brano
- Mira - siamo già in Brasile, dalle parti di Rio, quartiere Antonio Carlos Jobim, appena un po’ velocizzato e updated in stile Marisa Monte (metà anni ’90), ma paradossalmente risultante in qualcosa di vicinissimo a ciò che cantava Elis Regina nel biennio ‘73/’74 (Gardot è infatti molto più espressiva di Maria Rita, figlia di Elis e oggi celebrata in patria).
è durante “Sodade” (Amandio Dos Santos Cardoso Cabral, Ramos Luis Ramos Morais) che Melody richiama letteralmente, evocandola sul palco del Teatro Verde, Cesaria Evora,a due anni dal suo recital d’addio alla Fenice. Nonostante l’onda emozionale,la musicista riesce a controllare il timbro vocale,assolutamente suo e non imitativo e a disporre il canto entro un arrangiamento che porta il brano lontano dall’originale.
La Gardot, e chi le cura i brani, è sempre in grado di reinventare le composizioni, che trovano il primo filtro interpretativo nella voce apparentemente dialogante,
in realtà emozionante, densa, intensa della musicista.
Candidamente,
Melody si offre al pubblico, coprendo lentamente i pochi metri della terrazza aggettante del Teatro Verde: improvvisa storie, ripercorre aneddoti, ci porta in giro per il mondo ed è, anche quel suo parlare, un canto.

Va al cuore di “Sodade”, Melody, disossando la nostalgia, ora assoluta e non solo capoverdiana.

(In)collocabile tra Esperanza Spalding, Diana Krall, Madeleine Peyroux e Norah Jones,Melody Gardot è l’assoluta novità di questi ultimi anni in campo melodico-jazzistico per quello che riguarda la composizione e l’interpretazione al femminile e ha già acquisito l’invidiabile e rarissimo status di Rispettabilità e Indipendenza Artistica in un ambito tutto declinato al maschile. La critica, affrontando Gardot, si trova davanti l’imperscrutabilità del monolito kubrickiano fattosi musica: contemporaneo, modernissimo e allo stesso tempo messaggero di ancestralità assolute.
In un certo senso è come se il traum,il sogno attraversato durante il periodo di ricovero e riabilitazione l’avesse proiettata a ritroso,
attraverso una porta temporale, nei territori del jazz, della bossa nova,del samba,del flamenco e di Edith Piaf, aprendole forme di conoscenza diretta che l’Ipod o Itunes non le avrebbero mai permesso. Gardot è riemersa da un luogo e da un tempo “altri”, dopo aver vissuto cento anni.
Rispetto alle altre cantanti vagamente accostabili al suo stile, Gardot sembra ESSERE quello che canta e non indossare i panni da portare e smettere subito dopo.
è, in un modo ineffabile, antichissima e attuale, a differenza delle altre chanteuses, solo transeunti.

La lunghissima versione live di “Les Etolies”, insieme alla successiva “So we meet again,my heartache”, sono la continuazione di quel tragitto interiore attraverso le porte del tempo: prima Gardot ci conduce a Parigi,tra buskers che l’adottano per una giornata d’improvvisazione in strada, usando lo scat per ritmare la camminata e il passo appena un po’ più veloce del solito, lasciando al sax il compito di porre una chiosa a questo excursus piaffiano.Attraversiamo quindi la Buenos Aires mentale di “So we meet again”,
dove il tango, sottratta la sezione d’archi e aggiunte diverse settime/none,si fonde miracolosamente a inimmaginabili passi sambati.

Il trittico successivo costituisce in pratica il cuore del secondo album: “My one and only thrill”,”Baby I’m a fool”, “Who will comfort me”,
i tre capolavori del repertorio di Gardot, hanno la ricchezza armonica gershwiniana di alcuni classici jazz senza tempo, offrendo peraltro linee melodiche ora swinganti (il terzo brano) ora drammatiche (il primo) ora tristemente confessionali, come nella tradizione delle migliori torch song (Baby I’m a fool).
Rispetto alle versioni in studio è bello poter non sentire la mancanza degli archi
- cosa che accade spesso a causa dell’ overarrangement maschile dell’essenzialità emotiva femminile: quasi un misunderstanding sessista involontario - e poter godere solo dei fiati e delle percussioni (congas, cajun drum, washboard).

Melody canta divinamente e chitarra o piano sono un’appendice casuale e minimalista delle linee vocali.


La festa finale,
con tanto di cavaquinho,è un ritorno in Brasile, stavolta a Salvador De Bahia, per la festa di Iemanjà, divinità sincretica che celebra il mare-madre dei pretos, ovvero la comunità di colore, di provenienza angolano-congolese.
Come ogni secondo giorno di febbraio a Bahia,
anche noi balliamo e celebriamo, con rito pagano, la laguna, l’acqua, il samba, stretti nei semicerchi del Teatro Verde, gloriosamente festante.
Bellissimo e imprevedibilmente cupo il bis “The Preacher Man”,
ancora inedito, con Gardot all’elettroacustica a tracciare segmenti rock-blues costruiti su sequenze di mezzitoni, che peraltro non cancellano il saluto gioioso della song precedente: “I’m coming back one day”.
 

White lady gone to the Southern sea

Why do you appear so suddenly

We want to honor your melody

With a little bitty boat set out on the seaIe

Iemanja, Iemanja, Iemanja

I dream of days spent in Salvador

With my little darling forever more

Taking a walk along the shore

Feels like heaven's an open door

Iemanja, Iemanja

If I were to offer a plain perfume

And if I were to honor the shining moon

As she sits so lonely upon the dune

Madre d'agua, See you soon

E'na lahia Iemanja,

 E'laiana Iemanja

E'Iemanja, E'Iemanja

I wanted to stayI gotta go

but I'm coming back one day

(Lyrics: Melody Gardot)

SITO UFFICIALE

 

L.I.V.E. in Venice 2013
Melody gardot