“When I was still in my teens,I felt I was already an old soul”.
Appena arrivati a San Giorgio,lo sguardo deve girare attorno alla gigantesca
figura gonfiabile di Marc Quinn,uno dei punti cardinali dell’ultima Biennale
Arte,circumnavigandola mentre ne comprende il senso.
Rappresenta il corpo femminile che ha superato l’handicap e ha partorito: in
un certo senso ci annuncia Melody Gardot.
Appena ventisettenne,
lei è già un’ “anima antica”,
sopravvissuta a molte disabilità e che,
grazie alla musicoterapia,
ha deciso di partorire se stessa e rinascere come compositrice.
Si autodefinisce “musicista per caso”.
Dieci anni fa,
investita da un’auto mentre era in bicicletta,
rimase per lungo tempo a rischio di paralisi.
Tutt’ora viene accompagnata da un “black cane” (bastone) e da un paio
di occhiali da sole,
che ne proteggono gli occhi,
ne nascondono lo sguardo e la descrivono come nuova Marlene Dietrich o
Veronica Lake, anti-diva noir scivolata per caso negli Anni Dieci del
XXI° secolo.
Gardot è quindi la rappresentazione vivente, quasi l’icona del tenace
riscatto fisico dopo il trauma sofferto, ancora adolescente,
e per il quale rischiò la vita,
la perdita della vista,
l’uso delle gambe e che le ha lasciato zone d’ombra nella memoria.
Oggi la sua immagine,
anche sul palco,
trattiene
orgogliosamente i segni del passato.
L’evento del 24 luglio al Teatro Verde è il centro,
il fulcro dell’estate musicale veneziana:
il perno para-jazzistico del jazz che gira intorno e allo stesso tempo
l’epitome di un approccio aperto a sonorità crossover e a
contaminazioni ormai ineludibili nell’ anno 2013 (musica brasiliana,
africana,
francese e flamenco), cioè un’epoca in cui il termine “world music” è al
contempo desueto,
naif
eppure perfettamente attuale nel catturare lo zeitgeist glocal del
fare musica quasi a metà degli Anni Dieci del Terzo Millennio.
Necessariamente e coerentemente più vissuta dei suoi 27 anni,
la musicista del New Jersey può vantare un brano destinato a diventare
standard nei repertori dei prossimi decenni (“Baby I’m a Fool”,2009)
e accelera a ogni nuovo album una crescita artistica inusuale per artisti
della sua età.
è
come se la malattia e la lunga riabilitazione l’avessero collocata fuori dal
tempo,in uno stato di grazia eterotopica riservata agli eletti, garantendole
comunicazione diretta con i grandi del passato,che ora attraversano il suo
corpo e la splendida voce incantatrice per tornare a risuonare dentro la
nuova cassa armonica, fattasi Angelo/annunciatore, di Melody.
Dopo l’incipit di “Goodbye”,
suadente ossimoro blues (goodbye/hello) per un inizio di concerto color
seppia, tra brevi frasi swinganti del clarinetto e brevi sincopi del piano,
Gardot mette in chiaro quella natura sciamanica,di medium della
musica.
Al secondo brano
-
“Mira”
- siamo già in Brasile, dalle parti di Rio, quartiere Antonio Carlos Jobim,
appena un po’ velocizzato e updated in stile Marisa Monte (metà anni
’90), ma paradossalmente risultante in qualcosa di vicinissimo a ciò che
cantava Elis Regina nel biennio ‘73/’74 (Gardot è infatti molto più
espressiva di Maria Rita, figlia di Elis e oggi celebrata in patria).
è
durante “Sodade” (Amandio
Dos Santos Cardoso Cabral, Ramos Luis Ramos Morais) che Melody richiama
letteralmente, evocandola sul palco del Teatro Verde, Cesaria
Evora,a due anni dal suo recital d’addio alla Fenice. Nonostante l’onda
emozionale,la musicista riesce a controllare il timbro vocale,assolutamente
suo e non imitativo e a disporre il canto entro un arrangiamento che
porta il brano lontano dall’originale.
La Gardot, e chi le cura i brani, è sempre in grado di reinventare le
composizioni, che trovano il primo filtro interpretativo nella voce
apparentemente dialogante,
in realtà emozionante,
densa,
intensa della musicista.
Candidamente,
Melody si offre al pubblico,
coprendo lentamente i pochi metri della terrazza aggettante del Teatro
Verde: improvvisa storie,
ripercorre aneddoti,
ci porta in giro per il mondo ed è,
anche quel suo parlare,
un canto.
Va al cuore di “Sodade”, Melody, disossando la nostalgia, ora assoluta e non
solo capoverdiana.

(In)collocabile tra Esperanza Spalding, Diana Krall,
Madeleine Peyroux e Norah Jones,Melody Gardot è l’assoluta novità di
questi ultimi anni in campo melodico-jazzistico per quello che riguarda la
composizione e l’interpretazione al femminile e ha già acquisito
l’invidiabile e rarissimo status di Rispettabilità e Indipendenza Artistica
in un ambito tutto declinato al maschile. La critica,
affrontando Gardot,
si trova davanti l’imperscrutabilità del monolito kubrickiano fattosi
musica: contemporaneo,
modernissimo e allo stesso tempo messaggero di ancestralità assolute.
In un certo senso è come se il traum,il sogno attraversato durante il
periodo di ricovero e riabilitazione l’avesse proiettata a ritroso,
attraverso una porta temporale,
nei territori del jazz,
della bossa nova,del samba,del flamenco e di Edith Piaf,
aprendole forme di conoscenza diretta che l’Ipod o Itunes non le
avrebbero mai permesso. Gardot è riemersa da un luogo e da un tempo “altri”,
dopo aver vissuto cento anni.
Rispetto alle altre cantanti vagamente accostabili al suo stile, Gardot
sembra ESSERE quello che canta e non indossare i panni da portare e smettere
subito dopo.
è,
in un modo ineffabile, antichissima e attuale, a differenza delle altre
chanteuses, solo transeunti.
La lunghissima versione live di “Les Etolies”, insieme alla
successiva “So we meet again,my heartache”, sono la continuazione di
quel tragitto interiore attraverso le porte del tempo: prima Gardot ci
conduce a Parigi,tra buskers che l’adottano per una giornata
d’improvvisazione in strada, usando lo scat per ritmare la camminata
e il passo appena un po’ più veloce del solito, lasciando al sax il compito
di porre una chiosa a questo excursus piaffiano.Attraversiamo quindi
la Buenos Aires mentale di “So we meet again”, dove il tango, sottratta la
sezione d’archi e aggiunte diverse settime/none,si fonde miracolosamente a
inimmaginabili passi sambati.
Il trittico successivo costituisce in pratica il cuore del secondo album:
“My one and only thrill”,”Baby I’m a fool”, “Who will comfort me”,
i tre capolavori del repertorio di Gardot,
hanno la ricchezza armonica gershwiniana di alcuni classici jazz senza
tempo,
offrendo peraltro linee melodiche ora swinganti (il terzo brano) ora
drammatiche (il primo) ora tristemente confessionali,
come nella tradizione delle migliori torch song (Baby I’m a fool).
Rispetto alle versioni in studio è bello poter non sentire la mancanza degli
archi
-
cosa che accade spesso a causa dell’ overarrangement maschile
dell’essenzialità emotiva femminile: quasi un misunderstanding sessista
involontario
- e poter godere solo dei fiati e delle percussioni (congas,
cajun drum, washboard).
Melody canta divinamente e chitarra o piano sono un’appendice casuale e
minimalista delle linee vocali.
La festa finale,
con tanto di cavaquinho,è un ritorno in Brasile,
stavolta a Salvador De Bahia,
per la festa di Iemanjà,
divinità sincretica che celebra il mare-madre dei pretos, ovvero la comunità
di colore, di provenienza angolano-congolese.
Come ogni secondo giorno di febbraio a Bahia,
anche noi balliamo e celebriamo,
con rito pagano,
la laguna,
l’acqua,
il samba,
stretti nei semicerchi del Teatro Verde,
gloriosamente festante.
Bellissimo e imprevedibilmente cupo il bis “The Preacher Man”,
ancora inedito,
con Gardot all’elettroacustica a tracciare segmenti rock-blues costruiti su
sequenze di mezzitoni, che peraltro non cancellano il saluto gioioso della
song precedente: “I’m coming back one day”.
White lady gone to the Southern sea
Why do you appear so suddenly
We want to honor your melody
With a little bitty boat set out on the seaIe
Iemanja, Iemanja, Iemanja
I dream of days spent in Salvador
With my little darling forever more
Taking a walk along the shore
Feels like heaven's an open door
Iemanja, Iemanja
If I were to offer a plain perfume
And if I were to honor the shining moon
As she sits so lonely upon the dune
Madre d'agua, See you soon
E'na lahia Iemanja,
E'laiana Iemanja
E'Iemanja, E'Iemanja
I wanted to stayI gotta go
but I'm coming back one day
(Lyrics: Melody Gardot) |