
KINEMATRIX: Il crtometraggio oggi: può essere considerato una forma
d'arte a sé; è veramente un viatico per i giovani talenti e, infine, come
ti sembra che i cortometraggi siano collocati nell'ambito di questa Mostra
del Cinema?
GIUSEPPE PICCIONI: "Forma d'arte… vedi, io per il cinema faccio
sempre molta attenzione ad usare la parola arte, perché mi piace che il
cinema sia anche un affare sporco, nel quale convivono gli aspetti artistici
assieme ad altri che invece sono un po' più legati alle vicende diciamo
meno esaltanti di questo mondo. Però, al di là di questo, ho l'impressione
per Venezia sia stata fatta una selezione molto interessante dei corti,
quindi per una volta far parte di una giuria è stato piacevole: è stato
piacevole vederli, non ci siamo sentiti puniti da questo compito che si
è stato affidato. Forse in un festival importante come quello di Venezia
mi auguro che ci sia stata l'attenzione giusta… però noi non abbiamo visto
i corti in sala, col pubblico, quindi non saprei dire che accoglienza
abbiano avuto in sala e forse voi lo sapete meglio di me. Il mio timore
è sempre quello che i corti siano sempre un po' i parenti poveri di quello
che è poi il centro della manifestazione. Io credo che, in realtà, poi
i corti, soprattutto quelli di quest'anno, abbiano superato quella sorta
di esame di maturità, al di là del quale venivano considerati sempre e
solo il viatico per la carriera di un giovane, o un biglietto da visita;
questo, comunque, fa parte della loro natura. Ma non è solo un'anticamera
del lungometraggio, mi auguro e almeno ho avuto l'impressione che nelle
intenzioni di questi cineasti ci fosse soltanto questo: anche perché alcuni
corto sono stati effettivamente delle cose casuali, ma in altri casi s'è
chi non ha fatto altro che corti, per cui il corto sta assumendo una propria
dignità, perché è come se uno scrittore invece del romanzo scegliesse
il racconto. E questo riguarda anche me, riguarda anche cineasti che non
hanno alle spalle questo tipo di esperienza di cortista. Sarebbe interessante
che anche i registi già affermati, maturi o navigati potessero di tanto
in tanto esprimersi in un modo più personale all'interno della macchina-cinema,
piuttosto che mettere insieme una sceneggiatura in modo convenzionale,
quando un anno della tua vita e del tuo lavoro se ne va. Una maniera più
generosa, più personale, dalla piccola inchiesta alla piccola fiction…
insomma qualcosa di diverso dal lungometraggio.
KMX: Cosa si può fare, più concretamente, perché tali prodotti
possano essere distribuiti e possano sopravvivere più a lungo e magari
rimanere nella memoria della gente?
GIUSEPPE PICCIONI:
"C'è un problema grosso. Ad esempio, a me la cosa che ha più colpito è
che tutti i corti visti quest'anno erano molto interessanti, tutti molto
lunghi e questo significa che il corto si sta affrancando dal concetto
di corto come "idea trovata", ma anche come prodotto dotato di un respiro:
un po' il corrispondente di un racconto. Questo però significa un problema
ulteriore per la distribuzione, perché come ben sapete, se un corto ha
la fortuna di precedere in sala un film è proprio grazie al suo formato
standard (cinque o dieci minuti, o fino al quarto d'ora). E allora c'è
questa sorta di maledizione che però è anche la forza del cortometraggio.
Maledizione perché la sua visibilità è relegata a palinsesti impossibili,
televisivi o limitati ai festival o a rassegne specializzate. Però il
punto di forza è che non avendo vicina la verifica stringente del mercato,
un cortista prende più rischi, perché un corto può e deve contenere innovazioni
del linguaggio, un approccio al racconto molto più originale di quello
che accade per i film di lungometraggio dove la commistione di forze produttive
a volte genera qualcosa che è più vicino al valore medio e che non urti
troppo certe sensibilità. Ecco, questa è una cosa interessante, anche
s francamente io non riesco ad essere concreto nel dire come un corto
possa avere un buon mercato. Il corto dovrebbe riceve l'attenzione che
merita da parte dello Stato, dovrebbe essere più protetto, un po' la funzione
che aveva quello che si chiamava l'articolo 28, perché è una fucina di
talenti, anche perché adesso abbiamo la fortuna di avere i cosiddetti
canali tematici, che potrebbero essere una buona destinazione per questi
prodotti. Certo, vedere i corti in sala è un'altra cosa".
KMX: Sarebbe proponibile presentare nelle sale film composti solamente
di cortometraggi?

GIUSEPPE PICCIONI: "E' accaduto questo, ci sono state esperienze di
questo tipo. La proposta dovrebbe essere molto leale, perché se il pubblico
che è molto smaliziato intravede che all'interno di quel progetto c'è
un trucco, per cui tu spacci un insieme di corti per un film normale,
in quel caso la proposta è destinata a non avere alcun successo. Se incede
questo tipo di proposta leale diventa una tendenza per cui giornalisti
e media creano un'attenzione attorno a dei corti che siano veramente meritevoli,
il meccanismo può funzionare. Credo che la questione del merito sia comunque
decisiva. Alcune debolezze del cinema italiano sono dovute al fatto che,
molto spesso, l'attenzione dei media verso i talent è carente, e questo
compromette la salute del nostro cinema. Ecco quindi che questa proposta
fatta con lealtà potrebbe essere un'ottima idea. Io ho avuto la fortuna
di riceve un'attenzione anche a livello internazionale per un mio lavoro,
ma quando si parla di conquistare spazio, la macchina intera deve muoversi,
deve essere messa in atto una campagna, ci deve essere un ufficio stampa
che funzioni: qualcosa che non sia solo tanto per fare, mentre spesso
ci imbattiamo in iniziative italiane all'estero che sono veramente fatte
tanto per fare, o delle rassegne di corti messe su solo perché c'è il
piccolo finanziamento da parte del Comune e allora, forse, se anche queste
rassegne fossero minori in quanto a numero ma condotte con più forza,
con più fondi, qualificandole sempre di più, allora anche i corti potrebbero
seguire un percorso migliore".
KMX: Ma allora Venezia, in futuro, non potrebbe prendersi la responsabilità
di cercare nuovi talenti proprio a partire da queste rassegne sparse nel
territorio e di presentarli o nella sezione apposita o, addirittura, senza
passare attraverso la prova del fuoco del primo lungometraggio, nella
sezione principale?
GIUSEPPE PICCIONI: "Sì, in effetti, c'è la tendenza a proporti
ai festival solo dopo che hai ottenuto la "patente" che ti è conferita
dall'aver girato un primo lungometraggio, patente di senatore. Penso che
questa ricerca sarebbe interessante, anche se comporta un grande lavoro.
Mi viene in mente il film di Mazzacurati in cui Bentivoglio dice di essere
uno tagliato fuori perché non conosce nemmeno il computer, e allora mi
viene in mente che dietro di noi c'è una miriade di persone che ha un
approccio completamente diverso perché sono nati con una telecamera digitale
in mano e hanno una percezione della realtà, del racconto del linguaggio,
completamente diversa della quale noi troviamo sullo schermo solo un pallido
riflesso. Le esperienze probabilmente più interessanti, oggi, non vengono
dai noi registi affermati, ma sono piuttosto quelle relative a situazioni
marginali dal punto di vista del linguaggio usato e, di conseguenza, un
festival dovrebbe rispecchiare questa situazione e non favorire i senatori,
ma non deve nemmeno danneggiarli. Deve favorire un ricambio perché abbiamo
un modo di fare cinema che verrà, di qui a qualche mese o qualche anno,
completamente cambiato in funzione di questa rivoluzione nell'approccio.
Ho qualche timore… che possano esserci troppi concorrenti".
KMX: Per concludere, due parole sulla sua esperienza della Scuola
di Sceneggiatura di Cagli, vicino a Pesaro…

GIUSEPPE PICCIONI: "E' stata un'esperienza vissuta in maniera silenziosa,
quasi clandestina. personalmente mi ha sorpreso, mi ha dato molte cose,
anche perché ho dovuto ricoprire un ruolo di direttore didattico, di docente.
Inoltre ho scoperto che ci sono dei talenti, persone che hanno la vocazione
di scrivere, e tutto sta anche da parte nostra nel non imbrigliarle solo
nelle regole del mestiere, facendo convivere le regole realistiche di
esso con un approccio più personale che hanno questi ragazzi nell'esprimere
un loro modo di raccontare, e quindi dio non essere buoni per qualunque
tipo di sceneggiatura. Penso che alcuni di loro, in questo modo, riusciranno
a lavorare. Delle volte ho paura delle tendenza nostrana a sfornare sceneggiatori
come se fossero dei tecnici della scrittura cinematografica, perché adesso
l'intervento delle televisioni è molto forte, e c'è il rischio che una
scena sia il risultato del buon senso medio di tante persone e non il
risultato di una scelta personale. In questo mestiere il segreto è quello
di scrivere e girare operando delle scelte, in modo tale che quello che
giriamo rifletta un punto di vista preciso, una scelta. Il film ci piace
quando intravediamo un punto di vista, e non solo perché la scena non
dura più di due o tre minuti: ne LE IENE Tarantino costruisce una scena
di sei minuti che è un dialogo su Like a Virgin di Madonna, nella
quale non c'è nessuna intenzione di spiegare che quelli sono dei malviventi,
mentre noi quando lavoriamo dobbiamo far capire dalla prima scena chi
sono. Invece no, possiamo dirlo più avanti! Le regole sono fatte per essere
infrante: in questo senso mi pare che questi ragazzi avranno la possibilità
di lavorare ma anche di mantenere una loro personalità. Me ne sono accorto
quando ho dovuto dare un compito scritto da completare in una mattinata:
avevo anticipato loro che era una semplice formalità da espletare e che
non credevo potesse essere una prova significativa, e invece loro, che
in cinque o sei or dovevano sviluppare un trattamentino, una sequenza,
la sceneggiatura di una delle scene, che era chiedere qualcosa di impossibile,
mi hanno sorpreso e sono venute fuori delle storie "importanti" scritte
in pochissimo tempo, e l cosa mi ha fatto molto piacere. Alla fine ognuno
di loro ha scritto una sceneggiatura e alcuni la stanno finendo adesso
e ci capita di incontrarsi per discuterne, e io mi auguro che riescano
a lavorare, anche se non solo sulle sit-com e le soap-opera".
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