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La domanda: «il cinema può migliorare la vita?» non ha una risposta ovvia. Il cinema è, in quanto arte, fondamentalmente una forma di comunicazione. La “settima arte” è nata per raccontare, documentare, talvolta anche, paternalisticamente o meno, per insegnare. La sua specificità è distinta, oltre dalle caratteristiche tecniche, anche per la vastità del pubblico cui si rivolge. Intanto dunque si può dire che il cinema appartenga alla vita di (quasi, purtroppo) tutti. E’ opportuno però distinguere quale tipo di cinema. Infatti, com’è d’altra parte noto, nel cinema è Hollywood che la fa da padrona. Un contatto con il cinema, per la maggior parte delle persone utenti, significa un contatto con la mastodontica factory hollywoodiana e quindi il cinema spesso si riduce a divenire una comunicazione privilegiata tra Stati Uniti (o chi per essi) e resto del mondo, considerato anche il fatto che il cinema degli altri paesi sia, nonostante una situazione migliorata da circa un decennio, totalmente incompetitivo, sul piano della diffusione, rispetto a quello nordamericano. Ciò comunque non pregiudica la validità artistica del cinema extra-statunitense; anzi, semmai è forse vero il contrario, che la maggior parte delle volte i lavori nati fuori dall’ombra hollywoodiana rappresentino le creazioni più interessanti, più innovative e più profonde del panorama mondiale. Dunque la domanda iniziale si può tradurre così: «esiste un cinema che può migliorare la vita?», specificando bene che non si vuole distinguere esclusivamente in base alla provenienza geografica del cinema, ma soprattutto in base alla sua “provenienza artistica”; cioè operando una selezione tra i film nati con un certo intento artistico, comunicativo, espressivo e tra invece quei prodotti cinematografici (film è un termine che deve avere un carattere omogeneo che voglio usare per i primi) che sono privi di quest’intento. E’ una distinzione quantomeno arbitraria e labile, e comunque è completamente soggettiva e proprio per questo non è assolutamente priva di senso. Infatti, sempre più spesso, per criticare un qualsiasi prodotto artistico, si sente dire che esso è “troppo commerciale”: credo che proprio questa distinzione, sulla base del commercio, sia inapplicabile; tutti, film compresi, sono prodotti da vendere, hanno un certo obiettivo al botteghino, hanno un certo costo per la produzione. Alcuni film, bellissimi, sono stati record di incassi, e non credo che nessuno, regista o produttore o distributore, si vergognerà mai di averli realizzati solo perché hanno totalizzato una montagna di soldi: non credo che questo possa dispiacere a qualcuno. Comunque gli incassi di un prodotto cinematografico non dicono niente sulla sua validità artistica: molti film che mi sono diventati cari, sono stati autentici “flop” al botteghino; molti film che non mi sono piaciuti hanno guadagnato molto (con alcune eccezioni). Ma ovviamente neanche il loro piacermi o meno deve impormi di poter giudicare in modo assoluto un prodotto cinematografico: qualcosa che non mi piace potrà essere la cosa più bella per qualcun altro, e viceversa. La validità artistica è comunque una proiezione dei propri gusti personali; talvolta i critici si dimenticano di essere solo una prospettiva su un numero enorme, ed hanno la smodata pretesa di essere gli unici arbitri dell’arte; forse l’ego impedisce loro di comprendere l’alterità, e o la riducono a noumeno (quante volte dissero “non si capisce niente!”?) o la stroncano. Un buon critico deve esprimere i propri gusti personali e non spacciarli per universali; se si chiede a una persona l’obiettività, è chiedere di azzerare la sua individualità. Così, se si ponesse quella fatidica domanda, se il cinema migliora la vita, esisterebbero pochi dubbi su una risposta affermativa, ma ognuno penserebbe a un cinema diverso, quello che gli ha migliorato la vita, ai film che gli hanno rappresentato qualcosa . “Eccome!” risponderei io, e ripenserei a quanto “utili” sono le battute dei film, magari quando si corteggia qualcuno. Io attribuisco al cinema, fra tutte le arti, la capacità più grande di accompagnare la nostra immaginazione, la nostra fantasia, i nostri ricordi: sfido chiunque a dimostrare che questo non sia un grande favore. Quanti posti, quante persone, quante situazioni ed emozioni abbiamo vissuto con il cinema? Quante cose il cinema ci ha fatto ricordare, cose rimosse, dimenticate? Il cinema è importante perché è un esperienza completa (certe volte addirittura credo di poter sentire gli odori e di poter assaporare i gusti in bocca) e pertanto è facile da ingoiare e da interiorizzare; il cinema è magico perché è “immediato”, non è una forma d’arte concettuale, e quindi difficile (con le opportune distinzioni, certo; ma credo non si offenda nessuno) ma è generalmente accessibile a tutti. E quando si riesce a interiorizzare il cinema, o qualsiasi altra cosa, credo che allora avvenga un vero e proprio miracolo concesso agli uomini da un qualche Prometeo: ci facciamo attraversare da un’esistenza estranea, separata, e ci fondiamo con essa, trasformiamo in intimità la distanza fisica tra i corpi, e la comunicazione si gioca tutta all’interno di noi stessi. E’ una concezione non distante da quella espressa da Salinger nel “Giovane Holden” in cui scrive che i libri più belli sono quelli i cui autori “vorresti chiamarli al telefono ogni volta che ti gira”. Il cinema offre questa possibilità per cui dobbiamo esserne grati: le storie e i personaggi del cinema diventano molto spesso storie nostre e personaggi che ci rispecchiano, gli autori da perfetti sconosciuti diventano nostri amici. Si vivono emozioni così intense che la linea che separa sogno e realtà perde nitidezza e assume contorni così sfumati che i due piani si equivalgono. Il cinema migliora la vita perché fa vivere sogni abbacinatori, forti come la vita vera, e offre possibilità che la vita vera non può dare. Oppure certe volte ci immedesimiamo così fisiologicamente che sembra di essere, noi stessi, raccontati dal film, che la nostra vita sia un sogno. Il cinema può fare anche questo: addolcire la vita in una dimensione onirica; ed è anch’esso un miglioramento, perché ci fa dimenticare delle ansie, delle paure di tutte quelle braccia tese che costantemente, giorno dopo giorno, sembrano costringerci a un’esistenza non placata. Basta guardare gli occhi di Cecilia (Mia Farrow), la protagonista di “La Rosa Purpurea del Cairo” di Woody Allen, quando, al cinema vede (e rivede) il film omonimo, o alla fine, Fred Astaire e Ginger Rogers che danzano su “Cheek to Cheek”. E’ uno sguardo straordinariamente espressivo, che si può vedere stampato solo in chi ritrova un’immensa felicità e gioia di vivere, dopo essersi lasciata alle spalle tristezza, miseria, maltrattamenti, a cui l’indifesa e vulnerabile Cecilia non sa rispondere. Cecilia vive in una condizione veramente disperata: il tempo è quello della grande crisi economica post-’29 in cui molte fabbriche dovettero chiudere i battenti (lei vive nel New Jersey, dove “niente è impossibile”) lasciando disoccupato anche il marito, ubriacone, sfruttatore, violento (“…Ma ti avverto sempre prima. Poi, se non metti giudizio, te le suono!”), insensibile, adultero, perdigiorno( trascorre le sue giornate a giocare a sottomuro e a “dare noia alle ragazze che passano”), approfittatore (della crisi, per non lavorare, e della moglie che lo mantiene). Cecilia è l’esatto contrario: romantica, dolce, sensibile, passionale (anche se a volte le proprie passioni la spaventano: “Non posso, sono sposata!” ripete sempre), inguaribile sognatrice ( verrà licenziata dal ristorante in cui lavora perché troppo “distratta”), troppo buona per provare veramente rancore e odio, remissiva talvolta a chi vuole bene (ogni volta che cerca di scappare da casa e da suo marito finisce per ritornarci). L’unico riscatto glielo offre il cinema, dentro cui può ancora sognare un’esistenza migliore: “superattici, lusso sfrenato, serate al Copacabana…Erano tutti così belli, parlavano così sciolto, era tutto così romantico…”. Dallo schermo nero del cinema, in cui proiettavano “The Purple Rose Of Cairo” scenderà l’innamorato (di lei) Tom Baxter poeta esploratore, che porterà un po’ di romanticismo nella sua vita. E nello schermo ritorna quando Cecilia sceglie Gil, l’attore che lo impersona, imperfetto ma reale. Penso che pochi film, o qualsiasi altra opera non cinematografica, sviluppino una riflessione assieme così gioiosa e profonda come questo di Allen, riflessione comunque accompagnata da un sincero ringraziamento alla settima arte e da un’elucubrazione critica nei confronti di quella classe (attori, produttori) che considerano il cinema come un “mestiere” (Gil vuole girare un film su Lindberg; successivamente viene detto che ha una paura terribile del volo, ma per salvare la sua carriera accetta di volare nel New Jersey per dare la caccia all’attore uscito dallo schermo). L’humour alleniano, irresistibile, qui trova un utilizzo felicissimo, e non rimane mai fine a se stesso, tanto che ogni battuta rimanda spunti di riflessione che toccano i grandi temi della vita: sogno/realtà, perfezione/imperfezione, utopia/disincanto, impulso emotivo/razionalità, amore/vita coniugale e sesso, ricchezza/povertà e miseria, parola/azione, e via di questo passo, i temi sono sempre presentati in forma dicotomica, e non trovano mai una facile conciliazione, se non quella rappresentata dal cinema. Nel cinema infatti Cecilia può riuscire a far valere i primi (più poetici e romantici) sui secondi, che invece dominano nella vita reale. Immersa in quel contesto storico, e in quella situazione familiare così triste, ella sa di non potere spiegarsi le sciagure che costantemente le gravitano addosso. Piange perché viene licenziata, tradita, molestata, ma le lacrime non si trasformano mai in una sorta di ribellismo. Riesce dunque a far convivere mancanza di senso con uno sguardo disincantato sulle cose, una certa qual remissività, o meglio, consapevolezza di essere impotente nei confronti della realtà. Per questo alla fine sceglierà Gil, e lascerà che Tom ritorni al posto che gli appartiene, la finzione cinematografica, nella quale (come nei film anni ’30, in cui i telefoni sono bianchi e tutto è patinato da un ottimismo alla spot Mulino Bianco) tutto è perfetto, e il lieto fine ha sempre la meglio. Proprio per questo il personaggio di Mia conserva un distacco critico dal poeta esploratore. Avverte come sia limitata una vita perfetta, indolore e dunque anestetizzata; la sofferenza può amplificare le gioie della vita, ed è l’unica condizione tale per cui esse possono venire centellinate. “Nella vita non si può scegliere realmente la fantasia perché sarebbe limitante. Il personaggio di Mia può vivere con il suo eroe cinematografico solo in modo limitato e straordinario. Nella vita reale le persone ci deludono. Sono crudeli e la vita stessa è crudele. Se si sceglie la realtà al posto della fantasia, cosa che si deve fare, bisogna pagare poi il relativo prezzo” («Moviegoer», 1985). Cecilia può ritagliare il suo “piccolo” spazio di fantasia rosa e fiori all’interno del cinema Gioiello, ed ogni volta è un piacere profondissimo, ma fuori di esso è consapevole della sua inadeguatezza, del suo essere fuori luogo come qualsiasi schlemiel alleniano. D’altronde questo “essere fuori luogo” è un filo rosso che si può rintracciare in tutte le opere dell’autore. Tutto in questo film è fuori luogo, e nulla si ricompone nel posto che gli spetta: nulla tranne che al cinema Gioiello. Ma anche qui l’uscita di Tom dallo schermo porta scompiglio e disorientamento: gli attori che rimangono nella pellicola dimenticano le proprie battute e entrano su rulli diversi, addirittura provano una sorta di ribaltamento metafisico: “E se fosse una mera questione di semantica? Ridefiniamo noi come mondo reale e loro come mondo illusorio”. Anche l’entrata di Cecilia nel film apporta confusione: spinge il cameriere del Copacabana a fare quello che vuole, ballare il tip tap, modifica le situazioni (il tavolo era stato prenotato per sei persone, mentre ora, con lei, sono diventati sette; Tom doveva sposare la cantante del Night, mentre ora le confessa di essere innamorato dell’altra). Dunque Cecilia non trova il “suo” posto né nella finzione, da attrice, né nella vita che conduce. Ma la riflessione alleniana non si limita, per Cecilia, al constatare questa sua inadeguatezza: oltre al cinema, Cecilia crede di aver trovato il suo posto al fianco di Gil attore che riesce a sedurla. In questo personaggio (ma anche nel personaggio del produttore che ascolta solo l’avvocato) si consuma il J’accuse di Allen nei confronti dell’industria cinematografica: Gil illude la povera Cecilia, abbandonandola, non facendosi trovare all’appuntamento davanti al gioiello; egli è un arrivista spregevole e senza scrupoli, pieno di sé, indifferente per un mondo che attorno è allo sfacelo. D’altra parte anche Tom non era a suo agio nella vita vera: al momento del bacio, aspetta la dissolvenza per trovare un momento di intimità con l’amata, paga con i soldi finti da palcoscenico, per scappare pensa che basti salire in macchina, rinuncia al sesso nel bordello perché innamorato perdutamente e riceve per questo una gaia canzonatura dalle entraîneuse; almeno però il personaggio interpretato da Jeff Daniels ha un posto sicuro nel film da cui era scappato per scoprire la vita e lasciare la routine, trovandosi inadatto. Nemmeno sono al loro posto gli spettatori che o stoicamente o con gaudio resistono in sala alla proiezione, anarchica, del film. Alcuni di essi esigono la restituzione del prezzo del biglietto, protestando con il direttore del Gioiello perché nel film “manca trama”, perché “quelli se ne stanno lì a parlare e non succede mai niente”. Anche la regia di Allen è volutamente fuori luogo, dando tempi comici incalzanti, tipici (e le rispettive soluzioni formali, come l’uscita dallo schermo di Tom) di una commedia moderna applicandoli su una storia d’annata (le trovate comiche sono distanti sia dalle gag che connotavano i primi film sia da quelle più sofisticate che distinguono i film successivi fino ad “Accordi e disaccordi” dopo il quale Allen sembra essersi riassestato sulla comicità molto più spontanea degli esordi; queste trovate fanno tutte leva sul senso di straniamento del poeta Tom e della piccola Cecilia, sull’arrivismo ipocrita e sulla brutalità del marito di lei: fanno ridere su cose tristi, dunque, sono anch’esse trovate fuori luogo), restituendo una straordinaria attualità alla situazione, come fosse una fiaba senza tempo, come la leggenda della rosa purpurea (una rosa che vive sulla tomba della moglie di un faraone da millenni), ma d’altronde recupera al contempo una concezione della regia (soprattutto nei movimenti della macchina da presa) caratteristica dei film anni ‘30. Allen inoltre gioca molto sul dualismo lusso ostentato, da una parte, e miseria dall’altra, distinguendo il primo (nel film proiettato) dalla scenografia curatissima ma fasulla come quella di un film di quegli anni (la New York ricostruita in studio) e da un bianco e nero tipico, e la seconda da una scenografia povera e dimessa e da un uso della fotografia a prevalenze cromatiche terrose e sgranate.
In questo quadro così sballato in cui tutto pare avere perso il proprio ruolo naturale, lasciando la realtà in una situazione caotica inspiegabile, solo due cose sembrano poterlo ritrovare: Tom Baxter, poeta esploratore, che con rassegnazione lascia la sua Cecilia al suo corrispettivo Gil, e lo sguardo della stessa Cecilia dal quale scompaiono le lacrime vedendo Fred Astaire e Ginger Rogers ballare “Cheek to cheek” in Top Hat. Potere del cinema.
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Gianni ZEN |
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