È vero: Oshii Mamoru qui in
occidente continua a venire sottovalutato. Il suo passaggio a Cannes 2004
con il capolavoro Innocence: Ghost
in the shell II, per dirne una, è stato colpevolissimamente posto
sotto silenzio, se non snobbato in modo supponente.
Ciò non significa però che qualunque cosa si scriva su di lui giova alla
causa. “Oshii Mamoru: le affinità sotto il guscio”, di Davide Tarò, è un
tentativo volenteroso ma insoddisfacente di immersione in un universo
complesso ma compatto come quello oshiiano.
Confusamente, e in un qualche modo, la spina dorsale della visione
dell’autore nipponico passa. Non tanto quando si sciorinano i suoi topoi
ricorrenti e ciò che significherebbero, ovvero cani, gatti, simboli
religiosi, realtà percettive a strati, illusorie tracce narrative di
investigazione e quant’altro. Piuttosto, qua e là emerge timidamente la
scorza più autentica della sua Weltanschauung: in un mondo i cui i
soggetti sono smarriti in una maglia percettiva che sistematicamente scarta
l’essenziale (e la tecnologia è solo la manifestazione più limpida di questo
inevitabile scarto/inganno percettivo), e che quindi riduce la memoria a un
apparato disconnesso ed estraneo (e di conseguenza tranquillamente
supportabile dalle più varie protesi tecnologiche), al cinema (di Oshii) non
resta che dar conto di una sensorialità sospesa e senza oggetto, orfana
della referenza, annegata nelle putrescenti rovine oggettuali che invadono
lo spazio (tanto care all’iconografia cyberpunk) e dispersa negli infiniti
strati delle realtà. È questa sospensione il cuore della regia Oshiiana, e
del suo straordinario spessore filosofico.
Tarò gira intorno a questo principio senza mai coglierlo – e la riprova sta
in quanto grottescamente fraintenda
Innocence. Anche sorvolando sulle innumerevoli leggerezze (o
pesantezze) di stesura, o addirittura ortografiche, va detto che “Oshii
Mamoru: le affinità sotto il guscio” si limita ad affastellare spunti
tangenziali senza né osare una sintesi né lasciare andare la propria
scrittura a uno spaesamento davvero analogico a quello cui mira Oshii con le
sue sinfonie dodecafoniche per animazione. Eh sì: avremmo preferito, osiamo
dirlo a dispetto di ogni fanzinismo, un’impostazione più occidentale. Più
specificamente, ci sembra un’occasione mancata avere trascurato i
riferimenti alla nozione di “allegoria” di Walter Benjamin, che pare
veramente calzare a pennello con il mondo dipinto da Oshii, in cui una
pluralità inservibile di stimoli fisici e sensoriali sfida ogni possibilità
di sintesi e rimanda a una trascendenza sempre rimandata. Se poi si pensa
alla ricorrenza forte nei suoi film di quella figura prettamente
benjaminiana che è l’angelo…
Certo, poi magari Oshii Benjamin manco sa chi è. Ma in casi come questo,
calarsi nella propria ottica (occidentale – mica c’è per forza qualcosa di
male) è più salutarmente spaesante del nascondersi in un indulgente e
illusorio multiculturalismo che crede di poter classificare da fuori e da
dentro come più è comodo a seconda delle circostanze. Oshii, e Tarò
nonostante i difetti del suo libro lascia intendere di averlo capito, sa
bene quanto sia straniante calarsi veramente in quel buco nero che è ciò che
ci si illude di conoscere come le proprie tasche.
|