Oshii Mamoru

le affinità sotto il guscio

un libro di Davide Tarò

 

di Marco GROSOLI

 

È vero: Oshii Mamoru qui in occidente continua a venire sottovalutato. Il suo passaggio a Cannes 2004 con il capolavoro Innocence: Ghost in the shell II, per dirne una, è stato colpevolissimamente posto sotto silenzio, se non snobbato in modo supponente.
Ciò non significa però che qualunque cosa si scriva su di lui giova alla causa. “Oshii Mamoru: le affinità sotto il guscio”, di Davide Tarò, è un tentativo volenteroso ma insoddisfacente di immersione in un universo complesso ma compatto come quello oshiiano.
Confusamente, e in un qualche modo, la spina dorsale della visione dell’autore nipponico passa. Non tanto quando si sciorinano i suoi topoi ricorrenti e ciò che significherebbero, ovvero cani, gatti, simboli religiosi, realtà percettive a strati, illusorie tracce narrative di investigazione e quant’altro. Piuttosto, qua e là emerge timidamente la scorza più autentica della sua Weltanschauung: in un mondo i cui i soggetti sono smarriti in una maglia percettiva che sistematicamente scarta l’essenziale (e la tecnologia è solo la manifestazione più limpida di questo inevitabile scarto/inganno percettivo), e che quindi riduce la memoria a un apparato disconnesso ed estraneo (e di conseguenza tranquillamente supportabile dalle più varie protesi tecnologiche), al cinema (di Oshii) non resta che dar conto di una sensorialità sospesa e senza oggetto, orfana della referenza, annegata nelle putrescenti rovine oggettuali che invadono lo spazio (tanto care all’iconografia cyberpunk) e dispersa negli infiniti strati delle realtà. È questa sospensione il cuore della regia Oshiiana, e del suo straordinario spessore filosofico.
Tarò gira intorno a questo principio senza mai coglierlo – e la riprova sta in quanto grottescamente fraintenda Innocence. Anche sorvolando sulle innumerevoli leggerezze (o pesantezze) di stesura, o addirittura ortografiche, va detto che “Oshii Mamoru: le affinità sotto il guscio” si limita ad affastellare spunti tangenziali senza né osare una sintesi né lasciare andare la propria scrittura a uno spaesamento davvero analogico a quello cui mira Oshii con le sue sinfonie dodecafoniche per animazione. Eh sì: avremmo preferito, osiamo dirlo a dispetto di ogni fanzinismo, un’impostazione più occidentale. Più specificamente, ci sembra un’occasione mancata avere trascurato i riferimenti alla nozione di “allegoria” di Walter Benjamin, che pare veramente calzare a pennello con il mondo dipinto da Oshii, in cui una pluralità inservibile di stimoli fisici e sensoriali sfida ogni possibilità di sintesi e rimanda a una trascendenza sempre rimandata. Se poi si pensa alla ricorrenza forte nei suoi film di quella figura prettamente benjaminiana che è l’angelo…
Certo, poi magari Oshii Benjamin manco sa chi è. Ma in casi come questo, calarsi nella propria ottica (occidentale – mica c’è per forza qualcosa di male) è più salutarmente spaesante del nascondersi in un indulgente e illusorio multiculturalismo che crede di poter classificare da fuori e da dentro come più è comodo a seconda delle circostanze. Oshii, e Tarò nonostante i difetti del suo libro lascia intendere di averlo capito, sa bene quanto sia straniante calarsi veramente in quel buco nero che è ciò che ci si illude di conoscere come le proprie tasche.