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KINEMATRIX: A nostro avviso, nel contesto del cinema italiano inteso come settore, sembrano mancare alcune fondamentali sinergie. A partire da quelle che sono le scuole di cinema, passando per la fase produttiva, realizzativa, distributiva e critica per giungere all'effettivo contatto con il pubblico sembrano emergere degli scollamenti. Un evento come quello del Festival di Venezia rappresenta una delle rare occasioni in cui i rappresentanti di ognuno dei settori citati possono venire a contatto fra loro. Cosa potrebbe o dovrebbe fare il Festival di Venezia per creare queste occasioni di incontro e cosa, quindi, non è stato fatto nelle ultime edizioni?
MARCO MULLER "Occorre innanzitutto fare una premessa. Mai come in questo momento c'è stato bisogno di un ragionamento sui nuovi modi di produzione leggeri, sulla possibilità di affermare la cifra di un cinema che recupera autonomia, proprio perché fa coincidere l'autonomia estetica con quella finanziaria. A questo punto ciò significa cominciare a ragionare sulla circolazione dei film anche attraverso i festival ma anche dopo il primo lancio festivaliero pensando agli spazi autonomie alle sacche di resistenza che ancora possono crearsi. Credo che molte delle recenti polemiche su questa edizione della Mostra di Venezia siano fatte ad arte perché, in fondo, ciò che manca a Venezia sono quei prodotti molto medi che poi, in realtà, finiscono nelle sale e tutti vedranno nei cinema sotto casa. Il problema è quello di capire, e qui generalizzo molto, che da cinque anni a questa parte esiste una divaricazione tra il cinema che si fa a partire da cinque miliardi e il cinema che si fa sotto il miliardo e mezzo; a metà c'è una specie di strana zona grigia dove sono pochi quelli che hanno il coraggio di addentrasi, perché, naturalmente, a fare un film sotto il miliardo e mezzo tra l'articolo 8, un po' di soldi dal fondo di garanzia, la prevendita televisiva ci si può anche pensare; a fare un film sopra i cinque miliardi ci si può ovviamente pensare ma a questo punto assieme ai finanziamenti intervengono anche i condizionamenti, una serie di alleanze, dove giustamente chi investe poi vuole dire la sua, non tanto sul prodotto finito quanto su un certo taglio, sui modi di circolazione e sul "posizionamento" che il film deve avere nell'attuale circolazione commerciale. Ora, i festival sono sempre stati in qualche modo non tanto un surrogato, perché sarebbe veramente infame pensare che i film possano circolare soltanto attraverso i festival, ma sono stati sempre una risposta a quello che non funzionava nel circuito di formazione e circolazione; però sono stati una risposta perché dovevano recuperare centralità, cerare visibilità per ciò che altrimenti sarebbe stato spinto verso la marginalità. Ma questo non è un discorso di oggi: sono vent'anni che discutiamo delle vistosissima censura del mercato, per cui alcuni film non hanno cittadinanza nelle sale; e proprio a questo forse i festival dovrebbero servire, a dimostrare che la raccolta di migliaia di individualità… parlo di migliaia perché io vengo da un festival, Locarno, dove mi sarei sentito male a non ragionare per migliaia di spettatori alle proiezioni per ogni film; quindi, in qualche modo, con questo riaffermavamo la possibilità di trovare… io non credo nel pubblico come cosa astratta… gli strati di spettatori sensibili, giusti per un certo tipo di film, e quindi di sollecitare alcune ipotesi distributive piccole, ragionate, calibrate, messe assieme con grande sforzo e sussidi culturali istituzionali, poi il ventaglio dei possibili è enorme. Però, in questo senso, i festival dovevano proprio avere un'incidenza su quello che succede dopo, perché senza dubbio i festival funzionano soltanto quando sono il punto di partenza di discorsi, fruizioni e visioni che accadranno altrove, in altri tempi e con altri ritmi.
KMX: Ma allora quale deve essere il ruolo di Venezia, magari già dal terzo anno di Barbera? Quale la differenziazione che possa permettere a ciascuno di questi festival di sopravvivere, di durare durante l'anno ed eventualmente di seguire il film anche a posteriori, in modo che non ci sia, come lei ci ha detto l'anno scorso (vedi intervista a Marco Muller) una semplice contrapposizione tra quei festival che si promuovono e quelli che al contrario proteggono i film o lanciano i registi?
MARCO MULLER: "Io credo che Alberto Barbera stia facendo più che egregiamente il suo mestiere di direttore di Venezia, come lo faceva quando era fabbricante di festival di tipo diverso. Adesso, per forza, deve inserirsi in un solco tracciato dai suoi predecessori. Venezia non può non rispondere a quelle caratteristiche segnate dalla sua storia, quindi non è possibile pensare che Venezia possa rinunciare a quei film che tutti aspettano. Il problema è che non è più possibile continuare a lavorare seriamente su un numero così elevato di film: quest'anno, e io non ho problemi a dirlo, ci sono troppi film a Venezia, senza contare che così si fa del male ai film! Io rimango allibito quando vedo fino a che punto la stampa quotidiana buca costantemente una media di due o tre lungometraggi di "Cinema del Presente" o di "Nuovi Territori", senza parlare dei formati fuori norma. C'è chiaramente una contraddizione in termini nel cercare di offrire un osservatorio sulle nuove tendenze quando nessuno ne parla e soprattutto nessuno riesce a ragionare sulle dinamiche del nuovo quando ci sono contenitori così enormi, senza la possibilità di confrontare i film fra di loro, o quando ci si riscese ne vede uno e lo si confronta per forza magari con quelli più grossi. Io credo che Venezia debba ridurre il numero dei film, combinando gli elementi bene proprio come sta effettivamente facendo Alberto Barbera con grande professionalità. Ormai, e lo sappiamo da tanto tempo, chi decide davvero non sono più i registi, e questo è noto perché sono vent'anni che i registi non vanno più ai festival con le pizze sotto al braccio, ma sono sempre di meno i produttori e sempre di più naturalmente gli specialisti preposti al marketing, quindi i venditori. La scelta di un festival viene fatta a seconda delle esigenze, ma non di quel film in particolare, ma di un pacchetto di film: se infatti andate a leggervi trasversalmente i cataloghi di tanti festival, vi accorgerete che un film che quel festival voleva in concorso ha una coda di altri tre o quattro film. Perché sono i venditori stessi che per primi ammazzano il film, perché si pongono questa domanda: "ma quanto mi costa andare a Venezia? Centocinquanta milioni? Allora perché non buttarcene dietro altri tre, per fare il lavoro completo?". Naturalmente se invece loro stessero a scegliere il film giusto per Venezia, quello per Locarno o Torino, verrebbero a spendere magari duecentoventi o duecentocinquanta milioni, per cui fanno proprio un ragionamento in soldoni, ma chi ne fa le spese sono alla fine quei film condannati a non essere più ben visti, perché sono stati mal visti in occasione della prima mondiale, quindi non possono più trovarsi in concorso altrove. Io non credo naturalmente nei concorsi, anche se sono stato costretto a fare un concorso dopo aver lavorato dodici anni nei festival senza concorso, e mi rendo conto che si tratta di una costruzione artificiosissima, di cui però si ha bisogno per alzare la reputazione del film, per cui se è inserito in concorso automaticamente viene ritenuto più interessante, facendo crescere la voglia di vederlo. Ci vorrebbe dunque un discorso a monte fatto con i capipagina dei quotidiani o con i responsabili dell'informazione radiotelevisiva, per capire quanto possono coprire, ad esempio, di quanto non uscirebbe dal festival a due settimane nelle sale. Offrire in cambio qualcosa che sicuramente verrebbe richiesto per ottenere un minimo di attenzione per quello cui, normalmente, non verrebbe regalata quell'attenzione".
MARIO SESTI: "
A volte ho l'impressione che la critica usi degli strumenti totalmente
inservibili se adottati per comprendere come il cinema italiano possa uscire
da questa sorta di isolamento, chiamiamolo così perché la parola crisi è una
parola molto inadatta, che forse poteva servire negli anni Sessanta o
Settanta quando c'erano delle fasi fisiologiche di contrazione del mercato,
oppure di grandi cambiamenti generazionali. Il vero scenario, che poi è così
più grande di noi che sarebbe anche presuntuoso pensare di poterlo
modificare o contrastare, è che c'è in tutto il pianeta un unico linguaggio
che è quello del cinema hollywoodiano e tutto il resto… e poi non è che il
cinema europeo goda di una migliore saluto rispetto al cinema italiano,
anzi; e in questo senso il ragionamento di Paolo è ancora più interessante
per il fatto che probabilmente il cinema italiano gode, anche se questo può
apparire paradossale agli occhi di chi analizza il box-office, di una
ricchezza di soggetti, nel senso di registi, di piccole produzioni, di
attori che forse solo la Francia ha e magari la Gran Bretagna, anche se da
sempre la Gran Bretagna è una specie di appendice di Hollywood.
Ciononostante il pubblico medio cinematografico, che è un pubblico costante
che esiste, perché il cinema è comunque la cosa che tutti vanno a vedere ed
è questa la cosa che ci interessa, nel senso che alcuni amano la musica
rock, altri la classica, qualcun altro ama la pittura ma tutti vanno a
vedere i film; questo ci dispiace ancora di più perché siamo in un paese in
cui il cinema era la prima forma di intrattenimento, tanto che avevamo il
numero maggiore di spettatori dopo la Russia e l'America, una cosa storica e
prodigiosa, ora irrimediabilmente dissolta. Mi chiedo se, rispetto a questa
solidarietà o a questo fiancheggiamento che anche secondo me c'è stato… è
vero poi che a volte la critica ha preferito, specie negli anni passati, non
parlare del cinema italiano per non fargli del male, e per me questo è stato
un errore… ma penso che l'unico interlocutore che questi registi hanno non
sia nelle produzioni, e nemmeno nel pubblico: provate a chiedere ad un
ragazzo di diciotto o vent'anni, ovvero la fascia dei consumatori, per lui
probabilmente il cinema italiano nemmeno esiste o viene considerato come
fosse la poesia.
MARCO MULLER: "Vorrei aggiungere una
cosa a quanto diceva Mario, che mi sembra molto sana come visione. Basta
guardare fuori dall'Italia per capire come le risposte vadano trovate in
quella direzione. L'esempio più clamoroso è naturalmente quello di Parigi
che, da sempre, è stata una straordinaria cineteca del presente
cinematografico perché in Francia si riesce a vedere ancora quasi tutto:
tutto quello che danno in festival in qualche modo arriva alla distribuzione
francese; escono dai quindici ai venti nuovi titoli ogni mercoledì. Molti di
quei film escono anche perché il distributore che li ha comprati, lo ha
fatto con i soldi di una televisione, un piccolo investimento, per cui deve
farli uscire in sala altrimenti la televisione non glieli compra; li butta
lì e dopo due settimane scompaiono, staccano due o tremila biglietti, però
allora questa straordinaria varietà non garantisce da sola che vengano
trovati i gruppi di spettatori sensibili, giusti per questi film. Diceva
prima Mario che la lingua mondiale del cinema è il cinema hollywoodiano, e
che quindi è necessario inventare altre strategie linguistiche per fare
breccia lì dentro: per parlare come gli americano non c'è dubbio che da una
parte vi sia un sistema basato principalmente sull'entertainment, con
all'interno alcuni singolarissimi cineasti sabotatori, quelli di cui mi sono
interessato in particolare negli ultimi anni, da Joe Dante (cfr.
intervista a Joe
Dante su KMX) allo stresso Paul Verhoeven al quale abbiamo
dedicato un omaggio quest'anno, cioè quelli che dall'interno riescono a non
far funzionare perfettamente la macchina, in qualche modo a svitare qualche
bullone in modo che il ronzio della macchina suoni differente, ma non c'è
dubbio che se le abitudini di visione dei diversi gruppi di spettatori però
sono sempre le stesse, è proprio quello che dice Mario, cioè bisogna anche
riuscire a capire che… chi si occupa del marketing, chi fa le indagini di
mercato forse delle risposte le può dare, ovvero perché questo film ha
sfondato, perché in quelle condizioni particolarissime quel tema o quell'opzione
stilistica sono state meglio ricevute; d'altra parte c'è anche un
ragionamento molto terra terra legato ai modi di distribuzione, cioè perché
a questo punto è stato possibile tenere quel film sugli schermi più di due o
tre settimane, perché è stato possibile incunearsi in un interstizio?
Naturalmente, io dalla Svizzera questa cosa l'ho osservata male, ma
l'impressione è che
per PANE E TULIPANI sia successo proprio questo: si è partiti piccoli e poi c'è stata
l'intuizione di quello che il film poteva arrivare a dare, c'è stata una
scommessa,
c'è stato un distributore che ha deciso in qualche
modo di investire altri soldi, e a quel punto sì che le cose hanno
cominciato a funzionare. Nel caso di PANE E TULIPANI qualcuno che al momento giusto ha
deciso di raddoppiare il numero di copie, di forzare il blocco, riuscendo a
far partire la cosa. In altri casi, con altri film che magari avrebbero
potuto sfondare gli operatori che avrebbero dovuto prendere queste decisioni
o non le hanno prese o non se ne sono accorti in tempo".
MARIO SESTI: "Guarda, però, che di passi avanti verso il pubblico è lastricato l'Inferno degli Autori… io penso che siano più documentabili i tentativi falliti di passi avanti verso il pubblico che… anche i Vanzina ne hanno fatti infiniti, hanno tentati vari generi, nella convinzione che, magari, invece della loro commediaccia di Natale, potessero fare qualcos'altro e spesso, invece, sono stati duramente puniti. In generale, il passo avanti verso il pubblico non è mai quello che uno pensa di poter identificare con la commedia o… in definitiva, come tentavo di dire prima, non sai mai qual è il passo avanti verso il pubblico, fin quando non lo fai e fin quando non capisci che ha una qualità che il pubblico è in grado di apprezzare e non coincide mai, soprattutto, con quelli che vengono considerati passai avanti, in maniera un po' convenzionale, da parte della critica, come per esempio la scelta della commedia. Commedia, in Italia, significa sempre lanciare un cenno d'intesa verso il pubblico popolare. Ma non è detto. Il film di Piccioni, ad esempio, è drammaticissimo, senza riscatto, senza speranza, di un'amarezza abissale. Eppure quello è stato un passo avanti verso il pubblico, senza che prima si capisse che fosse quello. In generale, il discorso di Paolo è decisivo, ma non soltanto oggi. Un paio di stagioni fa, ma anche di recente, c'è stata questa polemica che io ritengo veramente offensiva e che la dice lunga sul grado di conoscenza delle cose del cinema: alcuni esponenti politici, in particolar modo della destra, hanno rimproverato allo Stato di finanziare opere che, in realtà, non producevano degli esiti. Basterebbe dire che quelle opere vengono prodotte proprio perché non c'è un mercato in grado di sostenerle, altrimenti che le si finanzia a fare! Però, l'anno di LADRI DI BICICLETTE c'è stato un film di Macario che fece molto di più di quanto, in proporzione, ha fatto Pieraccioni, anche mille volte di più, ma se lo chiedi al pubblico, non c'è chi se lo ricordi. Secondo questi criteri un LADRI DI BICICLETTE non lo si dovrebbe fare e la dimenticanza di questo è veramente un segno di gravità. Questo fatto che se lo Stato finanzia opere commerciali, allora che le finanzia a fare, o, se le finanzia e poi non prendono soldi allora perché le ha finanziate… lo Stato deve finanziare tutto ciò che, forse, deve essere fatto proprio perché non incontra un pubblico in quel momento, no? E questo lo dico anche da un punto di vista imprenditoriale. Una volta Coppola disse che i profitti di un film non si calcolano solo in base ai profitti che fa quando esce, ma si calcolano come si fa con i profitti di un palazzo: quante volte nel tempo riesci a sfruttarlo. LADRI DI BICICLETTE… o il più grosso disastro economico del cinema italiano, il GATTOPARDO, in realtà ha prodotto, sì, il fallimento del suo produttore, ma la banca che ha acquisito i diritti, ancora ci campa! Questo è fondamentale capire: il vero profitto di un film si calcola sui tempi lunghissimi, molto di più adesso che allora, perché gli sfruttamenti si sono moltiplicati." MARCO MULLER: "Sempre a proposito di PANE E TULIPANI, un altro elemento riguarda la particolare scelta degli attori, perché non possiamo certo dire che il nostro attore nazionale svizzero Bruno Ganz possa essere considerato una star, e con buona pace della strepitosa Licia Maglietta, che è un'attrice straordinaria, anche lei non è una star. E questo è un sintomo interessantissimo del fatto che, in questo momento, non ci deve essere per forza il comico televisivo, il volto che tutti possono riconoscere, ecc. Ma come si fa a questo punto ad attestarsi su queste posizioni e non tornare indietro? Prendete ad esempio il caso de I CENTO PASSI, un successo di questi ultimi giorni, che è un film dove finalmente si afferma finalmente il fatto che ci siano anche altri attori rispetto ai visi consueti. Io mi sono sempre chiesto come mai i Fantastichini o gli Sperandeo del cinema italiano non venissero valorizzati meglio; una delle spiegazioni può essere che ci si è talmente abituati a costruire i film sempre su quegli stessi dieci nomi, per cui nessuno aveva più interesse. E' una questione di abitudine, la gente perde l'interesse a domandarsi perché non si possa rivolgersi ad altri, comunque bravissimi o di indubbia versatilità. Ad esempio Sperandeo ha fatto nello stesso anno I CENTO PASSI dove fa il mafioso mentre fa lo sceriffo, il giudice d'onore che combatte la mafia in un western all'italiana di Walter Toschi, UN GIUDICE D'ONORE, assolutamente e specularmente opposto come scelta stilistica e di spettacolo rispetto al film di Marco Tullio Giordana". MARIO SESTI: "Un attimo… sempre rispetto a questi passi avanti, parlo per averne conosciuto la vicenda nel caso di Soldini; nel caso di Mazzacurati, posso immaginarmelo: si tratta di due casi di sceneggiature che arrivano sul tavolo dei produttori sostenute lungo l'intero tragitto da una voce fuori campo. E questo viene ritenuto un atto di straordinario intellettualismo, quindi sono film che poi, nel momento produttivo, non vengono concepiti come passi verso il pubblico. Un passo verso il pubblico è VACANZE DI NATALE. Tutto ciò che sta tra VACANZE DI NATALE e Tarkovskij non è considerato popolare: la percezione è questa. Si tratta in realtà di due sceneggiature molto ambizione, per cui quello che voi chiamate "passo verso il pubblico", in realtà è qualcos'altro."
KMX:
Noi lo dicevamo alla luce di questa inchiesta che abbiamo condotto tra i
giovani (vedi la
VIDEOINCHIESTA
realizzata da Andrea De Candido e Gabriele Francioni per KATAWEB CINEMA):
quello che ci colpisce è vedere la loro limitatezza nel cogliere solo quell'aspetto
del film.
Se per caso hanno visto PANE E TULIPANI e invece gli
proponiamo LE ACROBATE loro non notano assolutamente i punti in comune: al
cinema ci sono andati solo per l'emergere della commedia, per cui è vero,
come diceva Paolo, che non c'è stata una scelta deliberata, ma purtroppo il
pubblico sembra essere arrivato al film proprio per questo.
E' abbastanza drammatico…
KMX: Ma non può essere che, alla base, manchi un concreto
confronto, sia tra gli autori, che tra gli autori e la critica? Ad esempio,
alcuni anni fa si facevano, certamente per ragioni precise, dei film
"collettivi" che erano occasione di incontro e di reciproco stimolo o sfida
per gli autori. Invece oggi abbiamo l'impressione che, proprio per scelta,
molti registi siano degli isolati. Noi, ad esempio, abbiamo parlato con Mimmo
Calopresti e con Gabriele Salvatores (cfr.
FORUM 1-b: la
regia): Calopresti, in parole povere, si è detto non
disposto a questo tipo di confronto, mentre Salvatores si diceva quasi
speranzoso o comunque ben disposto ad operazioni di questo tipo o simili. E
per quanto concerne la critica, non è possibile che, invece di limitarsi a
descrivere, molti operatori provino a produrre un lavoro più costruttivo, in
grado di mettere in evidenza ciò che, come diceva lei poco fa, ciò che c'è
di buono, ciò che in realtà manca, nella speranza che altri imbocchino
quella strada, senza per questo imitare chi ha magari individuato qualcosa
di realmente buono, tornando, solo in questo senso, ad una situazione di
trent'anni fa? Pensiamo ad una critica militante come, ad esempio, è stata
in Francia quella dei Cahiers du Cinema… MARIO SESTI: "La penso anch'io nello stesso modo, e ci sono due discorsi diversi nella vostra domanda, ovvero uno è formare uno spettatore o qualcuno in grado di trarre beneficio, informazione o semplicemente divertimento dalla maggiore conoscenza del cinema, mentre l'altra concerne il reclutamento di talenti che, per definizione, è molto affidata a caso. Negli ultimi due anni io ho avuto la possibilità di frequentare in maniera casuale ma abbastanza da vicino la New York Film Universiity, che è un posto da cui sono usciti talenti come Spike Lee o Shyamalan, il regista de IL SESTO SENSO, e la percentuale del talento non è che sia diverso. Per riprendere il parallelo che fai tu, nel cinema grava questa cosa per cui approfondisce chi il cinema deve diventare regista, ma non è detto che chi impara la musica diventi per forza un grande esecutore. Anche per ragioni di natura del mezzo e di tecnologia, uno potrebbe imparare le regole della sintassi e della grammatica cinematografica per fare meglio i filmetti familiari; perché bisogna per forza fare del cinema per mandare la gente al cinema o fare miliardi? Invece novantanove volte su cento chi va alla Scuola Nazionale di Cinema lo fa perché vuole diventare un grande regista, o un grande sceneggiatore o un grande attore. Dunque il discorso sulla formazione è assolutamente legittimo, per cui certo la scuola italiana non mi sembra all'avanguardia, ma più importante per quanto concerne l'idea generale della formazione: è un po' come l'alimentazione, se dai ad un adolescente la possibilità di non assaggiare sempre le stesse cose, perché dovrebbe avere la curiosità di mangiare qualcos'altro. Lo stesso discorso dovrebbe fare la scuola: tutti escono avendo letto il Manzoni ma solo per qualcuno è un'esperienza diciamo decisiva, e va bene lo stesso. E' grave che moltissimi escano senza aver mai visto un film di Rossellini o De Sica, ma questo è un discorso diverso rispetto a quello della formazione professionale". KMX: E' vero, ma molti di questi ragazzi ci hanno fatto capire che se nella loro città o nelle vicinanze avessero trovato una scuola, anche privata, in grado di dar loro la possibilità di intraprendere, esattamente come accade per l'università, una scelta alternativa, anche senza diventare per forza registi, magari l'avrebbero scelta. Il problema è che non c'è proprio questa possibilità… MARIO SESTI: "Sì, su questo sono d'accordo, e ciò d'altra parte nasconde una chance di approccio e di aggiramento al problema del cinema italiano: tutte le persone che magari vi hanno detto che non vanno a vedere film italiani perché magari non ci pensano o non la considerano un'esperienza eccitante, sono tutte persone che, secondo la mia esperienza, se gli venisse data la possibilità di trascorrere alcune ore sul set di un film italiano correrebbero. E' tutta gente interessata al mestiere del cinema in assoluto, vorrebbe parteciparvi, magari facendo il regista ma che tra il più modesto dei film americani e un film italiano di qualità sceglierebbero quasi sempre il primo: questa dunque è un particolare percorso di aggiramento che andrebbe approfondito, e per il quale forse la scuola sarebbe il luogo ideale; naturalmente tutto ciò dovrebbe implicare l'esistenza di una classe politica particolarmente disponibile e intraprendente e molte altre componenti perché, comunque, non si tratta di una cosa organizzabile solo a tavolino. Esiste comunque da diversi anni un movimento, soprattutto all'interno del sindacato dei critici, anche se con delle proposte un po' troppo schematiche e scolastiche legate all'inserimento, ad esempio, dello studio della storia del cinema, che per me sarebbe sbagliato, perché non è questa che serve ma qualcosa che potesse essere definito magari comunicazione per immagini e suoni".
KMX: Allora,
per chiudere, anche alla luce di tutto quanto abbiamo detto finora, vi
chiederemmo un giudizio complessivo sulla selezione italiana a questa mostra
di Venezia. Cosa ne pensate di film come IL PARTIGIANO JOHNNY, I CENTO
PASSI, LA LINGUA DEL SANTO, ESTATE ROMANA, ecc.?
STEFANO DELLA CASA: "Guarda, io penso che, innanzitutto, si debba capire in generale che cosa sono i festival: sono tantissimi e sempre più inutili, essenzialmente per un motivo, e cioè che sono schiavi della mediatizzazione. Mi spiego: la maggior parte dei miei colleghi e delle volte anch'io, per quanto inconsciamente, ci preoccupiamo troppo di far sì che l'evento sia tale e che i giornali si occupino della manifestazione, che non di fare qualcosa che sia veramente utile ai film. Il presupposto, infatti, dovrebbe essere che i festival servano i film e non il contrario. Allora, se tu ti limiti a fare delle anteprime dei film che stanno uscendo e a prendere, di conseguenza, l'attore che è in tournée in Europa per fare il giro di presentazione del film, fai una cosa poco utile, perché io, da buon provinciale, quando sono andato a Roma, sono rimasto colpito soprattutto dal fatto che, questi divi, in realtà li vedi tutti: da John Travolta a Richard Gere a Robert De Niro, io li ho conosciuti tutti. Se i festival devono servire a questo, allora servono veramente a poco. I festival, col fatto che ormai sono così tanti, fungono da distribuzione alternativa dei film che si sa non usciranno poi in sala. Finalizziamoli, allora, a dare visibilità a quelle opere che altrimenti non potrebbero averla: film che non hanno casting, che hanno problemi commerciali, o perché troppo lunghi o troppo corti o perché non sono prodotti di "finzione". E' necessario quindi che i festival agiscano nelle pieghe del mercato, anche perché in queste pieghe ci sono le cose più interessanti del cinema italiano. Un'altra forma scorretta è quella di pensare, tra l'altro, che il cinema si identifichi con il lungometraggio distribuito nelle sale: quello è un formato che è destinato a diventare desueto. Secondo me la percentuale di cinema americano che gira per le sale (adesso siamo al 70%), e che non si combatte col protezionismo, diminuirà progressivamente in futuro. Perché non ci si chiede come mai i documentari girati da registi italiani affermati sono sempre molto interessanti, o perché i cortometraggi presentati nelle varie rassegne specifiche dicono cose che i lungometraggi non dicono o, ancora, perché gli sceneggiati italiani hanno regolarmente un successo maggiore rispetto a quelli americani? Perché "Commesse" o "La piovra" vanno molto meglio, dati alla mano, dei loro corrispondenti americani? Allora, se noi guardiamo al cinema come ad un fenomeno "espanso", che si occupi di varie cose e in mille forme, ecco, quello credo sia il "posto" in cui fare i festival. Inoltre, fare cinema è un mestiere che, alla base, ha le pubbliche relazioni, nel senso che l'uso corretto che un regista, oltre che un critico, deve fare dei festival è, oltre a quello di vedere film e di confrontarsi con altre realtà, quello di conoscere, di entrare in sintonia, di capire che cosa si chiede, che cosa può fare lui per entrare in contatto con quelli che possono farlo lavorare. Tu parlavi di Mimmo Calopresti, che, tra l'altro è un mio amico d'infanzia: lui veniva da una lunghissima esperienza di cortometraggi e documentari, ha conosciuto Nanni Moretti a Torino, quando era in giuria, e da qui è nato il fatto di poterlo avere nel suo primo film come protagonista (LA SECONDA VOLTA, ndr). Giustamente, secondo me, Calopresti adesso dice "faccio quello che voglio io": ha avuto al primo film il regista italiano più famoso all'estero! Quest'anno, a Torino, io vorrei che quelli che seguono per la RAI o MEDIASET le opere prime e seconde, venissero e, invece di usare le piantane o i riflettori, facessero qualcosa di molto semplice: un incontro con questi autori agli esordi per dire loro "io sono quello, ad esempio, che si occupa di opere prime e seconde per RAICINEMA, e voglio questo tipo di prodotto" rivolti, quindi, non alle telecamere, ma a gente che vuole fare realmente i film. Ecco a cosa devono servire i festival: smetterla di essere qualcosa per cui fai di tutto per avere sedici ore la presenza di Val Kilmer!!! Ma qualcosa che serva in tutti i modi a difendere i film che proponi: una struttura di servizio. Infatti il festival migliore è quello che non si propone come tale, al limite senza una forte identità come tale, ma nel quale anche un prodotto che duri dieci secondi o sei ore è difeso, viene portato avanti, se ne parla. Anche questa figura del caporedattore che censura se le cose di cui si parla non sono glamour, sono balle! Se uno punta i piedi, alla fine la cosa la fa uscire e ci sono mille modi per farlo. Anche perché è molto più facile intervistare Brad Pitt, che parlare di un documentario di cui non si sa niente. E poi la curiosità intellettuale della critica è ridotta quasi a zero e questo fa sì che la critica scomparirà senza lasciare traccia. Quando si ritireranno gli ultimi tre o quattro grandi quotidianisti, che comunque sono avanti negli anni, scomparirà la critica, così come è scomparsa già quella teatrale. Ormai sono solo interviste ed anticipazioni. Quando accadrà, nessuno piangerà. Voglio dire, non vedo mobilitazioni…"
KMX: Secondo
te è possibile che i festival, rimanendo per adesso al caso italiano,
possano fare anche di più, tentando di proteggere i film presentati oltre la
scadenza della manifestazione, seguendoli anche dopo, aiutando la
promozione, se non altro, delle opere prive di quel glamour di cui dicevamo… |
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KINEMATRIX:
Continuiamo il FORUM incontrando Gabriele Salvatores, che non aveva potuto
essere con noi in precedenza. Torniamo sulla questione delle sinergie, delle
collaborazioni "costruttive" tra operatori del settore. Credi che
l'"autonomia" o, meglio, solitudine dei vari autori dipenda da cause esterne
o da una volontà dei singoli di opporsi alla ricerca di una "lingua" comune,
che ritroviamo in cinematografie come quelle spagnola, danese o del lontano
oriente?
GS: "Vedi, come dici anche tu è
solo l'individuazione di un nemico che li ha messi insieme e, in questo
senso, paga lo scotto anche di non essere un atteggiamento completamente
sincero, anche se Lars Von Trier è uno dei registi che mi piacciono di più,
ma di lì sono nate anche cose che sono molto discutibili...fintanto che ti
difendi non sei mai propositivo. Bisognerebbe, invece, avere la forza di
avere un'idea e di dire "ok, questo è il cinema come deve essere oggi",
un'idea, voglio dire, d'attacco piuttosto che di difesa. Ripeto: io sarei
favorevolissimo, tanto è vero che sono partito addirittura con una
"cooperativa teatrale" e credo che il termine dica tutto, visto che non
firmavamo neanche i testi e le regie. Dobbiamo tornare alla bottega
rinascimentale, a Michelangelo e all'importanza che avevano tanto chi gli
preparava i verdi e i rossi, quanto il fumista o quello che era
specializzato nel disegno delle mani. Il concetto di Autore è superato,
anche perché siamo in un'epoca in cui le nuove tecnologie portano con sé
ruoli e competenze diverse e il lavoro d'équipe è assolutamente
fondamentale. In definitiva, io sono disponibile... basta solo aspettare il
momento opportuno". GS: "...non sono d'accordo, perché avevo comunque il gruppo che mi proteggeva: avevo il Teatro dell'Elfo, avevo un gruppo di attori che sono cresciuti insieme a me, che si chiamano Paolo Rossi, Silvio Orlando, Antonio Catania, Gigio Alberti, Bebo Storti, che, non a caso, in seguito sono tutti diventati famosi... avevo questa tribù, mentre oggi, come si diceva prima, molti sono soli e, attenzione, la solitudine nostra è esattamente quello che vogliono quelli che comandano all'interno del cinema, che certo non vogliono cambiare il "sistema". Ci vogliono separati, assolutamente, e questo va dalla guerra, alla politica, all'arte e quindi al cinema".
KMX:
...e quindi secondo te c'è anche una prevenzione nei confronti di chi cerca
di fare dei cambiamenti, come hai fatto tu con NIRVANA, che è pur sempre un
film italiano di fantascienza? |
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