
GABRIELE FRANCIONI: Come si sono incastrati i periodi di lavorazione
de LA STANZA DEL FIGLIO e di VAJONT, se si sono incastrati?
LAURA MORANTE: "Si sono incastrati soltanto nella ripresa,
perché abbiamo girato di seguito, anche se con varie interruzioni,
dovute a motivi che ormai tutti sanno, vale a dire: in un primo momento
Nanni ha avuto problemi di insonnia, era molto stanco, per cui abbiamo
interrotto per due o tre settimane, poi ci sono stati gli scioperi, poi
Natale. Insomma, compatibilmente con queste molteplici interruzioni, abbiamo
girato, mi pare, per sei mesi, poi ci siamo separati. Qualche mese più
tardi, non mi ricordo precisamente quanto, io ho cominciato a girare VAJONT,
e mi rimaneva ancora una scena de LA STANZA DEL FIGLIO. Era quella del
mercatino, che non avevamo potuto fare perché c'era un problema
di clima: Nanni voleva una giornata di sole, che però non era arrivata.
Quindi in un primo momento aveva pensato di sopprimere la sequenza; poi
però, dopo aver cominciato il montaggio, credo si fosse reso conto
che gli era necessaria. Quindi, da dove mi trovavo, in Friuli, sono andata
per un giorno ad Ancona, ho girato la notte fino all'una del mattino la
scena del mercatino e poi il giorno dopo sono tornata a girare VAJONT.
Questo è stato l'unico incastro".
GF: Come e quanto varia, dal punto di vista della tecnica di recitazione
l'approccio, a due opere così antitetiche, cioè: grandi
spazi naturali, anche se ricreati in parte al computer nel caso di VAJONT
e tragedia collettiva; spazi compressi e domestici e tragedia privata
nel caso de LA STANZA DEL FIGLIO. Credo che un film come VAJONT rimpicciolisca
l'attore rispetto all'importanza che lo spazio naturale ha avuto ne LA
STANZA DEL FIGLIO…
LM: "E' una domanda interessante ma difficile… non lo so:
non ci ho pensato, non mi sono mai posta il problema. Ogni film è
un'esperienza diversa e tutto concorre a farne un'esperienza diversa:
gli spazi, le persone con cui lavori, la storia, gli attori, il regista,
tutto. Quindi, effettivamente, gli spazi sono uno di questi elementi,
ma non l'ho pensato in questi termini. VAJONT è un film effettivamente
collettivo, con moltissimi personaggi; io sono stata molto più
esterna al film di quanto non lo fossi in quello di Nanni perché,
se vogliamo definire una percentuale, avrò partecipato al VAJONT
per un 25%, mentre nel caso del film di Nanni la partecipazione è
stata al 100%. Quindi sono due esperienze anche da questo punto di vista
molto diverse. Non ho visto nulla di tutta la parte post produttiva del
VAJONT, e non ho nemmeno assistito a questo tipo di lavoro, di cui d'altronde
ero molto curiosa: avevo chiesto di assistervi, ma poi, non ricordo per
quale motivo, non potevo esserci. Essendo un film collettivo, come ho
già detto, ero presente solo in parte. Avevo un ruolo che mi ha
molto appassionata perché non conoscevo nulla di Tina Merlin; però
sapevo qualcosa della tragedia del Vajont, e quando Martinelli mi ha proposto
il film mi sono fatta dare dei libri: quello che Tina Merlin ha scritto
della tragedia, una sua autobiografia, una biografia della madre… E mi
sono un po' innamorata del personaggio, ho provato una grande simpatia
e quindi un desiderio di incarnarla, perché era un personaggio
reale. Mi è capitato raramente in un film di interpretare delle
persone, erano sempre dei personaggi di finzione. Però, ovviamente,
non si possono paragonare le esperienze, perché l'esperienza con
Nanni è stata totale, di immersione, e quindi è radicalmente
diversa per moltissime ragioni. Poi con Nanni io ho un rapporto che è
il tipo di rapporto che Nanni sempre stabilisce con la sua equipe, un
rapporto che non è soltanto professionale, un rapporto che è
anche umano. Con gli altri ho un'esperienza più professionale…
GF: più distaccata…
LM: "Più distaccata non so, perché non faccio
mai il mio lavoro in maniera distaccata, però più professionale.
Nanni è una persona che conosco da quando ero ragazzina e con la
quale avevo già girato due film. E c'era un clima di famiglia sul
set che non esisteva su quello di VAJONT".
SABRINA PISU: Comunque si nota questo clima di famiglia una volta
visto il film, questa partecipazione autentica, che ha un sostrato umano…
LM: "Questo è tipo di il lavoro che fa Nanni, e in
questo un po' ci assomigliamo, perché io ho sempre un po' di difficoltà
ad essere una professionista. Porto sempre qualcos'altro sui set e qualche
volta è qualcosa che nessuno desidera condividere e allora sono
un po' in difficoltà; ma io sono incapace di lasciare me stessa
a casa e di essere una professionista. E Nanni è un po' come me
e quindi uno dei vantaggi di lavorare con lui è che c'è
questo clima affettuoso, che per quanto mi riguarda mi è di grande
aiuto".
SP: Credo sia importante che in fase di lavorazione di un film
si stabilisca tra gli attori un rapporto che vada al di là del
lavoro, che sia un rapporto anche affettivo, di scambio…
LM: "Presumo che alcuni attori non ne sentano il bisogno:
non siamo tutti uguali. Io in questo senso sono forse un po' infantile;
ho bisogno di sentire la famiglia e lavoro con molto più piacere,
con molta più gioia quando c'è questo clima. In questo caso
di gioia non si può proprio parlare, ma io lavoro meglio quando
mi sento ben voluta, mi è più facile".
GF: Da SOGNI D'ORO è passata una ventina d'anni, ed il cinema
di Nanni Moretti è cambiato sostanzialmente. In particolar modo
il salto che è stato fatto con l'ultimo film ha segnato l'abbandono
di alcuni tic recitativi e soprattutto di motivi contenutistici, l'abbandono
dell'aspetto pubblico e la concentrazione su una dimensione decisamente
privata. Come ha sentito questo cambiamento del cinema di Nanni Moretti
da SOGNI D'ORO ad oggi, se lo ha seguito anche se non partecipava ai suoi
film? Vede riflesso in questo cambiamento anche un cambiamento più
generale del cinema italiano negli ultimi vent'anni?
LM: "I film di Nanni li ho visti tutti… Non mi sento assolutamente
in grado di dare un giudizio generale sul cinema italiano degli ultimi
vent'anni, perché per alcuni anni non l'ho seguito per niente:
in Francia usciva poco o niente. Sono tornata due anni fa in Italia e
non so assolutamente che cosa sia successo durante quel periodo. Mi sembra
di poter dire (ma devo ancora vedere alcuni film importanti che sono usciti
in questo periodo) che ci siano parecchi buoni film ultimamente, e registi
interessanti, sia della vecchia che della nuova generazione, che qualche
volta incontrano il favore del pubblico. Sono dati confortanti. Anche
se, non tutti lo sono, in realtà: mi hanno detto che il film della
Archibugi, che non ho ancora visto, è molto bello. E lo credo,
perché Francesca è una regista molto dotata, ma il suo film
non è andato bene. D'altra parte ci sono dei film apparentemente
di valore, che sono andati bene; ci sono invece delle commedie fatte per
piacere che sono andate male. Mi dispiace dirlo, ma in qualche caso questo
è confortante, perché forse così ci metteremo a produrre
film con un po' più di spessore. Io non ho nulla contro la commedia,
ma anche la commedia può avere uno spessore. Ne è la prova
Virzì. Il problema non è soltanto produrre questi film,
ma distribuirli correttamente. Avendo vissuto molto in Francia, per esempio,
ho avuto modo di rendermene conto. Questa è una delle differenze
sostanziali a svantaggio del nostro cinema: in Francia i film di produzione
francese (non quelli stranieri) vengono seguiti anche nella fase distributiva:
vengono distribuiti in funzione del tipo di film che sono e del tipo di
pubblico che possono interessare. Viene data loro non solo una, ma una
seconda ed una terza chance; alcuni film possono funzionare anche dopo
alcune settimane. Questo è successo anche con alcuni miei film.
La distribuzione in Francia è infinitamente più attenta,
più "affettuosa"; è un atteggiamento anche più
astuto. Il nostro invece è un atteggiamento autodistruttivo, i
film vengono abbandonati a se stessi: se funzionano, bene, altrimenti,
in due settimane, scompaiono. Questa è una cosa terribile, spero
che qualcuno si deciderà ad operare una modifica sostanziale a
questo comportamento: il film va seguito in tutte le sue fasi, dall'inizio
fino alla sua distribuzione".
GF: E dal punto di vista delle scelte dei registri a monte: per
esempio vedere il cambiamento di registro di Piccioni, e anche di Soldini.
Perché non possiamo negare che Piccioni con FUORI DAL MONDO abbia
fatto veramente una scelta di campo molto coraggiosa che, non dico rinnega,
ma quantomeno cambia moltissimo rispetto ai film precedenti. E alla stessa
maniera Soldini utilizza un registro più vicino alla commedia…
LM: "…un altro film che ha funzionato molto bene pur non essendo
una commedia classica…"
GF: … infatti, oltre all'affetto nei confronti dei film, come diceva
lei prima, c'è anche la necessità che i registi italiani
si confrontino con tematiche decisamente diverse…
LM: "Una frase mi è rimasta impressa, credo che sia
di Šklovskij: "Il talento è la forza di resistenza che l'artista
è in grado di opporre alla domanda del committente". Ora,
io credo che questo sia ancora vero: un artista non è soltanto
una persona creativa, ma è una persona in qualche modo anche ostinata,
senza essere però ottusa. Una delle doti di Nanni, che è
quello che io conosco più da vicino tra i registi di talento, è
che lui è sempre stato estremamente ostinato. Quando ad esempio
fece BIANCA, girò tutta l'Italia per trovare un produttore, e alla
fine ne trovò uno. Cercarono di imporgli un cast, e lui non se
lo lasciò imporre, cercarono di imporre un altro finale e lui non
se lo fece imporre, cercarono di dirgli di andare verso la commedia e
lui rifiutò la commedia. E io, che in quel periodo lo frequentavo,
e non sapevo ancora che avrei fatto parte del cast del film, sentivo tanta
gente che diceva "questo film è un suicidio per Nanni Moretti";
"come gli è venuto in mente di fare una storia così
tetra, così cupa; non funzionerà mai". E il film funzionò
benissimo. Io, se dovessi dare un consiglio ai registi di talento - perché
gli altri, poi, faranno a modo loro - direi: siate ostinati, in tutto,
anche nel cast. È importante: se uno ha qualcosa da dire deve dirla.
Con ostinazione, che non vuol dire con ottusità: si possono seguire
delle indicazioni, dei consigli utili".
GF: Per quanto riguarda il film di Moretti, pensa che sia un film
che ha effettivamente la capacità di scavare, di indagare il dolore,
oppure è più che altro - come ha detto qualcuno - un'esposizione
degli effetti immediati del dolore e, al limite, con un intento ricattatorio
nei confronti del pubblico dal punto di vista emotivo? Cioè, intende
portare chiunque, non nella meditazione post film, ma addirittura durante
la visione stessa, ad una condizione di totale simpatia?
LM: "Non perché Nanni è il mio regista e mio
amico… ma nel film non vedo alcun atteggiamento ricattatorio. Non c'è
nemmeno contraddizione tra l'esposizione e la profondità: è
entrambe le cose: il film è profondo ed è anche un'esposizione
estremamente semplice dei fatti, senza messaggi e giudizi. E proprio per
questo è un film onesto. Non credo che ci sia niente di ricattatorio,
perché non ci sono forzature: i personaggi sono credibili, le loro
reazioni sono credibili, e dove non c'è forzatura non c'è
ricatto. Certo, è un film sul dolore e, come ha detto lui stesso
in conferenza stampa, sul dolore che non sempre, come si ritiene, unisce,
ma spesso divide".
SP: A proposito di questo, si vede emergere dal film il modo diverso
di affrontare la perdita del figlio da parte sua, di Giovanni e della
ragazza. Giovanni trasforma il dolore in rabbia e non riesce a farsene
una ragione vera, mentre lei ha un atteggiamento più irrazionale,
si abbandona quasi al dolore e lascia che questo prenda una sua propria
forma…
LM: "Sì, prende una sua forma, e dal dolore emerge
la prima scintilla vitale, - con Arianna - e lei la accoglie. I personaggi
reagiscono in maniera diversa, e quello che secondo me è bello,
è che le loro reazioni sono coerenti rispetto a quello che i personaggi
sono fin dall'inizio. Si sente che sono diversi: nel breve tempo senza
dolore si impara a conoscerli e quando loro reagiscono in quel modo risultano
veri, senza forzature".
SP: Ma è stato difficile per lei, come madre, nella vita,
non lasciarsi coinvolgere troppo da questa storia?
LM: "Non è una storia che si può interpretare
con indifferenza, ovviamente è una storia che ti tocca. Ognuno
scaricava la tensione a modo suo: Nanni ha organizzato un torneo di ping-pong,
io andavo in palestra… c'era certamente una grande tensione, ci sono state
delle giornate veramente difficili".
GF: Mi pare di aver letto in un'intervista sua che lei ha iscritto
sua figlia ad una scuola di Ancona. In quel periodo lei vedeva un cambiamento
del suo atteggiamento in termini di protezione di sua figlia che procedeva
di pari passo con la tematica del film? Il film influenzava il suo rapporto
con sua figlia, diventava più protettiva?
LM: "No, per fortuna no. È difficile spiegare che cos'è
il mestiere di un attore: è fatto di passione ma anche di controllo,
perché altrimenti non ti potresti fermare nel punto che ha stabilito
il regista ed il direttore della macchina, non potresti ricordarti le
battute. Evidentemente esiste sempre anche nell'emozione e nella passione
una forma di controllo. Il che non vuol dire che un attore debba avere
controllo su tutto: deve avere per forza controllo sulla parte tecnica
(deve ricordarsi le battute, deve fermarsi dove gli hanno detto di fermarsi)
però io non ho mai personalmente preparato un ruolo a tavolino.
Ho sempre letto il copione, cercato di capire razionalmente non soltanto
il mio ruolo ma il progetto nel suo insieme, il tipo di film che avevo
di fronte. Una madre che perde il figlio in dieci film differenti porterà
a dieci ruoli differenti: è come una partitura musicale, si deve
capire di che partitura si tratta. Però non mi è mai piaciuto
preparare i ruoli al millimetro, mi piace non sapere esattamente che cosa
farò. Qualche volta ci riesco, qualche volta meno, però
mi piace che sia una sorpresa anche per me, devo crederci anch'io. Perché
altrimenti non mi piacerebbe fare il mio mestiere. Non sono mai riuscita
ad essere fredda rispetto alla recitazione. Per me in qualunque lavoro
di tipo artistico, ma anche in qualunque cosa che ti metta a confronto
con gli altri, esiste un'etica che va rispettata. Quindi per me è
importante quest'onestà nel recitare".
SP: Quando lei ha deciso di fare l'attrice, o ha avuto il primo
incontro con il mondo del teatro e del cinema, che cosa la affascinava
di questo lavoro?
LM: "Una cosa probabilmente mi affascinava - ma questo non
era un pensiero, ma una necessità -: ero terribilmente timida,
e per me è stata una sfida alla mia timidezza. Ero talmente timida
che questo sarebbe potuto essere un handicap non soltanto per recitare,
ma anche solo per andare al supermercato! Quindi per me è stata
una sfida alla timidezza. Così come per tutti: ci sono temperamenti
per cui la paura è un fatto paralizzante, ci sono altri per cui
è uno stimolo. Per me quasi sempre è stata uno stimolo,
con un'eccezione: la paura dell'acqua che non ho mai superato…"
SP: Io penso che il lavoro dell'attore sia un lavoro molto difficile.
Non ci sono mai stati dei momenti di crisi in cui ha pensato di abbandonare
o di prendere una pausa, magari dovuti ad un'interpretazione o ad un'emozione
troppo forte, o ad una situazione privata?

LM: "E' accaduto, ovviamente, in vent'anni… I momenti in cui
ho desiderato prendere una pausa o addirittura smettere, non sono però
legati a ruoli troppo emozionanti, al contrario. Sono legati a momenti
in cui non mi piaceva niente di quello che mi proponevano, oppure sono
legati alle difficoltà che io ho avuto per anni a fare la professione
dell'attrice. Io faccio questa distinzione: mi piaceva il "mestiere"
dell'attore: mi piaceva lavorare sulla materia, sui testi, sui personaggi,
ma non mi piaceva fare la "professione" dell'attrice, vale a
dire dover essere un personaggio pubblico, dover rispondere alle domande…
Questo non mi piaceva, ci sono voluti molti anni per abituarmici. Forse
era un retaggio di quella timidezza: avevo una specie di difficoltà
a diventare personaggio pubblico, volevo fare il mio mestiere in segreto,
e non era possibile, ovviamente… e quella è stata la parte più
difficile per me".
GF: Su un temperamento e una sensibilità notevole come la
sua, come lavorano certi personaggi, o, in generale, i personaggi interpretati?
C'è una convivenza con la sua personalità reale? Che tempi
hanno invece di smaltimento, cioè quanto tempo dopo scompaiono?
O pensa che adesso, dopo vent'anni, abbiano talmente sedimentato da essere
diventati parte di lei?
LM: "Un'interpretazione non è mai un fatto esterno
a se stessi, è comunque un punto d'incontro tra l'interprete ed
il personaggio. Quello che tu fai è in parte quello che tu sei,
quindi ovviamente rimane. Più un personaggio è profondo
e più rimane, perché c'era già; non è mai
una cosa esterna, ma va a toccare una parte di te. Sempre. In tutta la
mia filmografia ogni volta che io ho aderito a un personaggio, a un film,
a un'esperienza, c'era qualcosa di me. Il che non vuol dire che un personaggio
mi assomigliasse, ma ero sempre io, c'era sempre qualche parte di me,
anche se diversa da ruolo a ruolo. Quindi non poteva essere cancellata,
perché era come mettere l'accento, dare del colore ad una parte
che magari in quel momento, senza quel ruolo, sarebbe rimasta nell'ombra,
però era qualcosa che preesisteva all'interpretazione del ruolo".
SP: Credo che ci sia sempre uno scambio tra il personaggio che
un attore interpreta e l'attore stesso…
LM: "Sempre… ma io parlo per me, può darsi che per
gli altri attori sia totalmente diverso. Per me i personaggi interpretati
(dove l'interpretazione è profonda, anch'io ho fatto dei ruoli
di cui non m'importava nulla, l'ho fatto per pagare l'affitto…) …. Io
come interprete porto sempre qualcosa di me, non esiste eccezione a questa
regola".
GF: Anzi, accentuando questo atteggiamento, lei ha mai cercato,
magari in base a un momento particolare della sua vita, un lavoro o un
personaggio che riflettesse quel suo vissuto?.
LM: "L'ho cercato, ma non sono mai riuscita a promuovere io
un film. Sono anni che vado dicendo che mi piacerebbe fare Pentesilea
al teatro, ma non mi segue nessuno…"
GF: Ah, pensavo al cinema…
LM: "Anche al cinema! Mi piacerebbe fare una versione moderna,
contemporanea, di Pentesilea; secondo me è una cosa fattibilissima.
Questo perché io ho sempre avuto una grande passione per Kleist
ed ho sempre saputo che c'è una segreta attinenza, una parentela,
fra me e i personaggi kleistiani. Pentesilea in particolare, anche se
apparentemente è il contrario di me. Ma è una cosa che mi
interessa moltissimo, tanto più che contiene aspetti a cui nella
vita non darò mai voce, perché c'è la violenza, è
un testo estremamente violento e sanguinario. Sono tutte cose distanti
dalla mia vita reale. Si può leggere in vari modi, ovviamente,
come tutti i testi importanti. Però alla base c'è l'incapacità
di avere fiducia nell'altro: la tragedia si compie perché Pentesilea
non capisce, si sente tradita. E c'è in questo personaggio contemporaneamente
innocenza e violenza, desiderio di assoluto ed ostinazione, bisogno smisurato
di amare ed incapacità di avere il buon senso che dà forma
alle cose. È un personaggio selvaggio, Pentesilea. Ecco, io nella
vita reale non do spazio, non do voce a questo, però proprio per
questo mi interesserebbe farlo nella finzione. Anche se Nanni dichiarava
l'altro giorno di non credere alla funzione terapeutica, io invece ci
credo, soprattutto nel teatro. Io credo che il teatro abbia davvero una
funzione terapeutica. E quindi per me il bisogno di recitare un ruolo
come quello è anche quasi un desiderio terapeutico, oltre che una
grande passione artistica".
GF: In questo senso, partendo dallo spunto di Pentesilea: se lei
fosse regista avrebbe già messo in scena questo lavoro. C'è
una differenza fra l'attore e il regista: questo ha la possibilità
di orientare la propria carriera in senso progettuale, cioè vuole
partire da un determinato discorso ed arrivare ad un certo punto della
propria carriera dopo aver sviluppato certi temi, e sicuramente, se non
ha problemi produttivi o di altro tipo, mette in atto questa sua progettualità.
L'attore è ovviamente in una posizione un po' più debole,
nel senso che deve vagliare le offerte e cercare di costruirsi una linea
il più possibile coerente, se poi la coerenza è un qualcosa
che si deve considerare desiderabile. In questo senso: ci sono delle possibili
frustrazioni che derivano all'attore dal non poter orientare la propria
carriera? Nasce mai, a lei è mai nato, o sta per nascere il desiderio
di passare alla sceneggiatura o alla regia?
LM: "Per quanto riguarda la sceneggiatura ho fatto qualche
tentativo, invece alla regia non ho mai pensato, salvo che per il teatro.
Conservo un po' il sogno, molto remoto, di fare una regia in teatro. Nel
cinema non me la sentirei, forse perché l'aspetto economico è
troppo importante… Devo dire che esiste, questa frustrazione, ovviamente…
però ci sono due elementi: prima di tutto non mi sento in diritto
di sentirmi frustrata perché non ho il coraggio - perché
qui di coraggio si tratta - di intraprendere questa strada e lottare.
A quel punto è una frustrazione che deriva più dal mio carattere
che da circostanze esteriori… Poi c'è anche il piacere, forse femmineo,
di essere scelti, di essere diretti, di essere eletti… chiamati se non
eletti! Gli attori hanno spesso quel miscuglio di vanità e di insicurezza
che poi si esprime nel bisogno di essere scelti da un altro, di essere
chiamati a fare qualcosa, che venga loro data fiducia… Forse adesso ci
sono anche attori d'altro tipo, io li ammiro. Ma io appartengo di più
a quella categoria".
GF: Parlando dei format all'interno dei quali ha lavorato: adesso
si parla molto in Italia della fiction televisiva, del grande successo
che diverse serie hanno. Siccome lei ha lavorato molto anche all'estero
in serie televisive, spezzando una lancia a loro favore e lasciando da
parte i limiti di quel format anche dal punto di vista tecnico, c'è
qualcosa di veramente positivo che l'esperienza della fiction televisiva
le ha portato, qualcosa che lei pensa che abbia di più la fiction
rispetto al cinema?
LM: "Di più non lo so… io per esempio ho fatto una
lunga fiction in Francia con Paul Vecchiali che dal punto di vista artistico
espressivo superiore a tante cose che ho fatto al cinema. Si chiamava
LES JURES DE L 'OMBRE. Il problema della televisione secondo me non è
tanto un problema di qualità del prodotto, il problema è
di fruizione, di rapporto con lo spettatore. Per me quello che manca alla
televisione è la qualità del rapporto fra il pubblico ed
il prodotto".
SP: Anche la mancanza di profondità di contenuti, poi…
LM: "Ma quello non è detto, perché nel caso
di alcune cose che ho fatto in televisione la profondità di contenuti
c'era tutta, e c'era anche forse più che in alcune cose che ho
fatto al cinema. È soprattutto un problema di rapporto: la televisione
è qualcosa che si deve imporre. Quando si fa un film, la gente
può scegliere di andare o non andare a vederlo, ma quando va, paga
il biglietto e si siede nella sala, c'è una qualità diversa
di visione e di ascolto, per cui lo spettatore può meglio cogliere
le sfumature, ascoltare con più attenzione, vedere con più
affetto… è diverso. La televisione è un elettrodomestico,
con il quale si convive, che non ci impegna, si può decidere di
interrompere la visione in qualunque momento. Ricordo un episodio che
mi è accaduto quando lavoravo in televisione. C'era una mia conversazione
con il personaggio di mia madre e c'era il piano di ascolto su di me;
io non dovevo dire nulla, dovevo solo ascoltare. Facciamo una prova ed
il regista - non dirò chi, non era una gran cosa, comunque - mi
chiede: "cosa farai mentre parla?" "Non lo so… cosa farò…
ascolto…" "Ma se non fai nulla la gente cambia canale!"
e io ho detto: "cambieranno programma! Io non faccio niente: ascolto!".
Non aveva torto, aveva perfettamente il senso di che cosa sia la televisione.
Io mi rifiutavo, ovviamente! Per me era una cosa inaccettabile. Il problema
della televisione è quindi un problema di rapporto tra lo spettatore
ed il prodotto. È come vedere una mostra, come ormai se ne vedono
tante, in mezzo alla confusione, con la gente che urla. Mi ricordo l'amarezza
la prima volta che hanno trasferito gli impressionisti a Parigi al Musée
d'Orsay. Per me è stata una cosa traumatica: i quadri erano sempre
gli stessi, bellissimi, poi ci avevano infilato tutti i pompier, dedicando
sale enormi a questa orrenda pittura; c'erano però lo stesso dei
meravigliosi Degas, Monet, ma la fruizione era tutta diversa, il rapporto
dello spettatore con il quadro era totalmente mutato. Ora, qualunque opera
d'are non è un monologo, è un dialogo. Se tu impedisci il
dialogo, qualche cosa non funziona più, qualunque sia la qualità
dell'opera. In questo senso ha ragione Duchamp: meglio vedere un cucchiaino
sospeso nel vuoto in una stanza vuota che vedere Monet in questo modo,
perché non funziona più quel rapporto. Il pittore, quando
dipinge, a sua volta trasferisce ed elabora le impressioni e le emozioni
che ha lui stesso percepito, e le comunica; quella comunicazione deve
arrivare, e deve essere messa nelle condizioni di arrivare. Ricordo un
articolo uscito qualche anno fa su uno dei quadri di Piero della Francesca
- non ricordo ora quale - che era stato portato, dalla cappella del cimitero
dov'era in origine, in un piccolo museo. Questo scrittore italiano - non
ricordo ora chi fosse - diceva: "E' lo stesso quadro, ma non è
la stessa cosa. Quando uno andava al cimitero, veniva accompagnato dal
custode, e si entrava, due alla volta, in questa cappella dove si poteva
osservare il quadro avvolto in quell'atmosfera, con quel silenzio… quello
era il quadro. Dopo non era più quello." Questa è la
televisione, e il suo problema non è un problema di qualità
del prodotto ma un problema di rapporto con lo spettatore che è
alterato, deformato, volgarizzato, banalizzato".
SP: Dei progetti futuri, qualcosa che vorrebbe realizzare?
LM: "Per ora non lo so, non so ancora che cosa farò
nei prossimi mesi. Forse questo anno così fortunato mi ha un po'
viziata, e vorrei fare qualcosa di bello, che mi piaccia davvero, ma finora
non ho trovato niente che mi appassioni".
GF: Tornando al film di Moretti. Ci sono stati ultimamente dei
film che hanno affrontato i temi del dolore, della sofferenza, della malattia
e della morte, ed alcuni hanno avuto una risonanza incredibile - secondo
me più o meno meritata - e tra questi, secondo me in maniera sicuramente
meritata, è stato DANCER IN THE DARK di Lars von Trier.
LM: "Non l'ho visto…"
GF: e LE ONDE DEL DESTINO?
LM: "Sì, LE ONDE DEL DESTINO l'ho visto…"
GF: Anche se non è girato precisamente secondo i canoni
della regola dogma, io penso che sia un film tipico di Lars von Trier.
Secondo lei, le tematiche del dolore, della malattia e della morte, che
inevitabilmente comportano una condivisione emotiva della materia trattata,
è più giusto trattarle in maniera controllata, come nel
caso di Moretti, oppure con le scelte del DOGMA 95 che lasciano spazio
ad una tecnica che di per sé è una tecnica emotiva, che
mette in campo la libertà visiva. La stessa persona piange in DANCER
IN THE DARK e piange anche ne LA STANZA DEL FIGLIO: secondo lei si può
dire se i temi della morte, della malattia e del dolore hanno un modo
registico di essere trattati?
LM: "No. Io credo che ci sia, come dicevo prima, un'etica
dell'espressione. Ma le vie attraverso le quali venga rispettata sono,
non dico infinite, ma quantomeno molteplici. Non credo assolutamente che
ci sia un solo modo, così come non c'è nella scrittura.
Io amo, ad esempio, degli scrittori diversissimi tra di loro: mi piace
Conrad e mi piace Kafka, mi piace Kleist e mi piace James. Dove sento
l'onestà e la verità, qualunque cosa va bene. Non mi piacciono
la menzogna e la manipolazione, la superficialità. Al di là
di questo non c'è regola".
GF: Possiamo definire onesto - dal punto di vista della manipolazione
- il rapporto che un regista come Lars von Trier instaura con gli attori?
Pare che Bjork ne sia uscita distrutta… Non esiste una sorta di contraffazione
nello spingere a tanto un attore?
LM: "Gli attori sono esseri adulti, magari infantili… Beh,
se io fossi regista, probabilmente non farei mai così! Dato il
mio carattere, io farei resistenza a questa volontà di possessione:
sono docile ma indipendente: ho cara la mia libertà. Io credo che
avrei delle difficoltà, anche se poi tutto potrebbe funzionare
benissimo. Mi fa paura l'adesione incondizionata a qualunque cosa, ma
questo perché sono io e non è detto che non sia giusto.
Ho appena lavorato due settimane con Mike Figgis, HOTEL, ed ho avuto qualche
difficoltà perché non riuscivo a conservare quella capacità
critica che ritengo fondamentale. E questo non vuol dire che non mi conceda:
credo di fare il mio lavoro con generosità, ma questa generosità
deve comunque essere filtrata dalla ragione, da un esercizio critico:
è parte di me. Alcuni registi con cui ho lavorato soffrono di quella
che chiamo "sindrome di Re Lear": un'avidità di consensi
da parte di chi lavora con loro che, a volte, mi spaventa. Con personaggi
come questi io mi scontro; invece con persone come Nanni, che hanno bisogno
d'affetto, ma non di consenso, mi trovo benissimo".
GF: Può dirci qualcosa in più su HOTEL? Non sapevo
che ci avesse lavorato: proprio oggi, su "Repubblica", ho letto
di questo strano metodo di lavoro…
LM: "Forse non lo saprà
nemmeno dopo aver visto il film… Eravamo moltissimi attori, era molto
affidato all'improvvisazione, cosa non facile, specie per gli attori non
di lingua inglese: io non ho quasi battute. C'erano quattro macchine da
presa in quattro luoghi diversi, e Mike - regista che stimo - non poteva
ovviamene essere in tutti i posti contemporaneamente: per cui spesso si
era affidati all'operatore. Ma io ho bisogno del rapporto col regista
e per me era frustrante: io lavoro per il regista, mi muovo per lui, non
per il pubblico o la critica, in quel momento solo per lui! Una delle
prime cose che ci ha detto è "dovete rubare la macchina da
presa!" E' un metodo che non mi piace".
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