Durante la conferenza stampa di apertura del MIFF il direttore Andrea
Galante ha esordito dichiarando che sono nove anni che vive a Los Angeles,
poco più avanti l' ha ripetuto, poi è stato evasivo circa i criteri di
scelta dei film in concorso, infine si è scusato per non essere abbastanza
brillante, ma la delusione nel vedere la platea vuota l'aveva reso profondamente
triste. Apparentemente queste informazioni non dicono nulla sul festival,
ma aspettiamo un po' e la situazione ci si chiarirà. Al termine della
conferenza, a dire il vero piuttosto burrascosa, con scivolate e pause
ripetute, il direttore in persona mi rassicura circa il livello dei film
in programma che definisce "bellissimi". Mi rilasso un po' e l'ufficio
stampa, coordinato da Gabriella Aguzzi, efficiente e puntuale, fa il resto.
Il fatto è che, dando un'occhiata al programma e riuscendo a distogliere
lo sguardo dal numero impressionante di espressioni inglesi utilizzate,
da headquarter a gala awards, prima di tutto si nota la mancanza delle
nazionalità dei film e poi si scopre che sono per la stragrande maggioranza
statunitensi e se diffondere il cinema indipendente è una grande intento,
diffondere quello indipendente americano in un Milano Film Festival dà
da pensare. Sinora abbiamo parlato, però, esclusivamente di premonizioni,
diamo uno sguardo alla programmazione. Un film come Showboy di Lindy Heymann
e Christian Taylor, il vincitore (a citarli testualmente il winner) di
questa terza edizione, ha una certa freschezza e riesce a spiazzare per
il candore con cui il protagonista (anche regista), per rimuovere lo sconforto
provocatogli dal fatto di essere stato cacciato durante la scrittura di
una sceneggiatura, si mette in testa di diventare un ballerino e parte
per Las Vegas collezionando umiliazioni e momenti di rara ilarità. L'idea,
originale, è stata messa sullo schermo nella forma di documentario, ma
era chiaro che di documentaristico aveva ben poco e il risultato è sconcertante,
giocoso e coinvolgente nel medesimo tempo, un uomo che si mette in gioco
senza risparmiarsi per seguire un sogno e niente altro poteva diventare
patetico da un momento all'altro, ma in Showboy questo rischio è scongiurato
elegantemente e con ironia. Questa, però, è rimasta una vetta, un punto
che il festival non ha mai più raggiunto, né con G che ha vinto il premio
per la miglior fotografia, una specie di racconto di tradimenti incrociati
con colonna sonora hip hop e ritmo da soap opera, né con Horror Hotline,
miglior montaggio, che parte da un bello spunto e poi si attorciglia su
stesso e si perde infinite volte nel tentativo di terrorizzarci con il
pericolo mai mostrato. Ad affondare in modo definitivo la media della
programmazione, però, ci hanno pensato i cortometraggi, alcuni addirittura
spaventosi, video che nemmeno alle feste tra parenti dovrebbero essere
proiettati come i due italiani Dall'ombra: ragazza cieca che accende una
candela e si mette al pianoforte montata in parallelo con le immagini
di un cane che gioca con la palla; con dedica finale al povero animale.
E il sospetto Il Quadro che vedeva protagonista uno degli artisti che
hanno realizzato i premi del MIFF, talmente pretenzioso e lungo da farsi
notare al di là della coincidenza di cui sopra. Il resto dei corti aveva
in comune la tendenza a dilatare la propria durata ben al di là della
soglia di interesse del pubblico . .
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AS FAR AS MY FEET WILL CARRY ME
Seconda guerra mondiale, Europa centrale.
Rapporti fra tedeschi ed ebrei. Alzi la mano chi, dopo "Schindler's List"
e compagnia cantante, possa ancora trovare l'ispirazione per girare un
grande film basandosi su questi soggetti. In questo momento risponderebbero
"presente" Roman Polanski, il genietto del primo banco, e tale Hardy Martins,
l'ultimo arrivato. Eppure Martins il cinema lo conosce davvero, benché
"As far as my feet will carry me" sia soltanto la sua seconda esperienza
dietro la macchina da presa. Innanzitutto ha trovato la chiave per garantirsi
un budget rispettabile, sventolando sul tavolo dei finanziatori la storia
di Josef Martin Bauer, ausiliare della Wehrmacht fatto prigioniero dai
sovietici e capace di affrontare un viaggio di ottomila (!) miglia in
tre anni per tornare ad abbracciare moglie e figli. In secondo luogo sa
scegliere gli attori: è davvero senza pecca l'interpretazione di Bernhard
Bertelmann, capace di rendere del tutto una vicenda tanto vera da risultare
implausibile. Come se ciò non fosse abbastanza, Martins conosce i tempi
giusti per sequenze e spazi narrativi, riuscendo a non appesantire il
film nonostante che la durata della pellicola sfori le due ore e mezzo.
Per una volta, quindi, non ci troviamo di fronte all'ennesima parabola
sull'onore e sul senso di colpa: per dirla tutta, "As far as my feet will
carry me" non è nemmeno un film di guerra, dacché finisce per ricordare,
durante l'interminabile attraversamento del deserto di ghiaccio siberiano,
un film anomalo come il recente "Cast Away". La capacità di affrontare
con originalità una tematica che, almeno sul grande schermo, sembrava
aver sparato le sue ultime cartucce - oltre che, e questo non va ignorato,
di non aver sperperato il denaro messo a disposizione per le riprese -
fanno scivolare in secondo piano alcuni eccessi di retorica e il malriuscito
personaggio del responsabile del campo di prigionia sovietico: resta il
fatto che, se il film fosse stato girato negli States e non avesse avuto
come protagonista un militare nazista, la Miramax o qualche altra casa
di produzione a stelle e strisce vi avrebbero fatto più di un pensierino...
Voto: 27/30
HORROR HOTLINE
Il filone horror contemporaneo sembra aver scelto senza riserve la
via della leggenda metropolitana, portando sullo schermo storie che sembrano
inventate col preciso scopo di tener svegli i bambini nella notte di Halloween.
Non fa eccezione il trentenne film-maker di Hong Kong Soi Cheang, autore
e regista di "Horror Hotline...Big Head Monster". In questo caso la figura
dello spaventevole babau è affidata a un bimbo dalla testa enorme, Medusa
rediviva capace di gettare nell'oblio della ragione chiunque abbia la
ventura di trovarvisi a contatto. E questo è ancora nulla: il luciferino
frugoletto ha anche una madre senza volto, tanto gelosa della sua creatura
da proteggerne brutalmente la privacy... Bah, a un buon film "de paura"si
perdona volentieri l'inverosimiglianza, ciò che conta è il come più che
il cosa: ebbene, è da questa prospettiva che il film riserva le maggiori
delusioni. Cheang vorrebbe lasciar lievitare la tensione senza fretta,
ma i risultati non corrispondono all'intento: si sbadiglia per un'oretta
abbondante, fino a quando, in buona sostanza, i nodi vengono al pettine
e gli indicibili misteri che ammantano l'epopea del "big head monster"
non vengono svelati. Nel frattempo non rimane che gustarsi il coraggio
di un direttore scolastico iraniano (a Hong Kong!) che, nel fiore dei
suoi anni, ha provato ad esorcizzare la creatura leggendo il Corano: Marco
Giusti e i tutti gli adepti di "Stracult" andrebbero in visibilio. Quanto
al finale, basta spostare la camera a spalla del "Blair Witch Project"
nella boscaglia dell'ex avamposto britannico in Cina e il gioco è fatto.
A tutto ciò fa da contorno una love story che nasce, si consuma e si conclude
su un piano totalmente estraneo alla vicenda, senza approfondimenti psicologici
(che fan perdere tempo?) o almeno una qualche giustificazione di massima.
Restano, e vanno sottolineate, il buon cast e alcune sequenze azzeccate,
su tutte il ritrovamento del cadavere della prima vittima: un po' pochino,
anche e soprattutto considerando l'ottima distribuzione che il film si
appresta ad avere. Il prodotto, quindi, sembra rendere, ma d'altronde
anche "The Blair Witch Project" aveva sbancato i botteghini di mezzo mondo,
e ancora, nelle notti di luna piena, masnade di infelici gridano al cielo
la loro rabbia per aver speso i soldi del biglietto...
Voto: 14/30
LOOKING FOR LEONARD
Fra i tanti "sguardi da un altro mondo"
presenti in concorso al MIFF 2002 sorprende questo "Looking for Leonard",
opera prima del duo Matt Bissonnette-Steven Clark. Accomunati dalle origini
(Montreal, Canada) e da un percorso di vita inquieto e zigzagante, i due
registi hanno plasmato una storia semplice, ben costruita e per certi
versi accattivante, costruendo un inatteso gioiellino. Si racconta la
storia di Jo, ladruncola dal cuore tenero e - soprattutto - dalla testa
pensante, di un omicidio involontario e delle conseguenze che un avvenimento
di tal genere può comportare. A complicare il tutto, poi, spunta come
dal nulla il timido Luka, programmatore informatico costretto da una serie
di disavventure a diventare uno pseudo-junkie senza alcun punto di riferimento.
Come le più note leggi della commedia comandano, Jo e Luka si incontreranno
per caso e gradualmente scopriranno, persone sole in una città ormai per
entrambi estranea, di amarsi. Come si può facilmente intuire la scenggiatura
trae ispirazione dal modello classico di love-story della commedia romantica,
eppure, in "Looking for Leonard", di scontato non c'è quasi nulla. Per
rendere l'idea basti considerare il titolo, omaggio al cantastorie Cohen
che appare a mo' di nume tutelare durante i titoli di testa, o i personaggi
di contorno, tutti descritti con inconsueta sensibilità, o ancora le soluzioni
registiche, senza dubbio punto forte del progetto: ogni inquadradatura
sembra concepita da un designer di interni, tanta è la pulizia stilistica
e l'efficacia dell'illuminazione. Un'autentica rivelazione, quindi, per
la coppia Bissonnette-Clark, ma anche per la semi-sconosciuta Kim Huffman,
capace di cavarsela con un personaggio, quello di Jo, a ben vedere non
facile, nonché dotata di una "non conventional beauty" che la avvicina
alla ben più affermata Rachel Weisz.
Voto: 27/30
THIS IS A NOT LOVE STORY
This is not a love story. Infatti sono due, o forse neanche una, o magari
è soltanto un incrocio di innamoramenti non corrisposti... Meglio andare
con ordine: "This is not a love story", pellicola firmata dal romanziere
e film-maker neozelandese Keith Hill, sviluppa i ghirigori sentimentali
dell'aspirante scrittrice Belinda,anima candida e sensibile almeno quanto
la sua affermatissima alter ego parigina Amelie. Spinta dall'incedere
degli anni a lasciare il nido familiare, Belinda avvia, prima con ritrosia,
poi con sempre maggior fervore, una relazione con Tony, attore televisivo
in bilico tra fama ed oblio, il quale a sua volta non riesce a concludere
una lunga relazione con Susann, che di mestiere fa la pittrice e, del
trio dei protagonisti, pare essere la più fredda e determinata. Eppure,
quando ci si mette di mezzo il cuore, freddezza e determinazione passano
in secondo piano, sicché il sempre più frustrato Tony accetterà senza
proteste gli slanci appassionati di Belinda, implorando qualche istante
dopo Susann di ritornare fra le sue braccia. Storie di tutti i giorni,
a guardar bene, raccontate con garbo senza cadute di stile, una sorta
di documentario sugli insondabili misteri dell'amore. Keith Hill e i suoi
collaboratori, dal canto loro, non fanno molto per rendere un po' meno
insipida la minestra: i movimenti di macchina non escono neanche per sbaglio
dall'ordinaria amministrazione, lo spunto di base (un triangolo impossibile
foriero di inquietudini e interrogativi esistenziali) si trascina avanti
per un'ora e mezza, la colonna sonora è il solito mix di canzonette orecchiabili.
Nonostante tutto resta - e va rimarcata - l'ottima prova di Sarah Smuts-Kennedy
nel ruolo di Belinda, mattatrice silenziosa del film, incapace di scegliere
fra due modelli di vita antitetici quali Emily Dickinson e Anais Nin,
pronta infine a spezzare il menage a trois per ricominciare a ballare
da sola.
Voto: 21/30
PARADOXE LAKE
Come ogni rassegna cinematografica che si rispetti anche il MIFF 2002
presenta il suo momento di riflessione, una pellicola dedicata a temi
scarsamente frequentati e poco inclini a godere dei favori del grande
pubblico. E' il caso di "Paradox Lake" del polacco - ma americano d'adozione
- Przemyslaw Reut, un viaggio appassionato e al contempo "disturbante"
nel mondo delle comunità di sostegno per bambini autistici. Protagonista
è il giovane newyorkese Matt Wolf, il quale, per una pura casualità, sceglie
di trascorrere tre settimane a contatto con ragazzini colpiti da autismo
in un eremo montano. L'esperienza lo cambierà profondamente, portandolo
a contatto con una realtà di fatica, frustrazione, piccole gioie e grandi
drammi totalmente estranea alla sua maniera di concepire la vita. Anche
Jessica, dodicenne con enormi difficoltà di comunicazione, troverà un
modo per uscire dalla sua quotidianità di anacoreta, instaurando con lo
stesso Matt una relazione di amicizia fatta di codici cifrati e importanti
segreti. "All'inizio delle riprese - confessa Reut - avevo in mente soltanto
alcuni spunti narrativi. La sceneggiatura, in sostanza, si è scritta da
sé, grazie alle scoperte che, giorno dopo giorno, mi hanno aiutato a comprendere
meglio il fenomeno dell'autismo". Bisogna rimarcare, infatti, che il regista
ha voluto affidarsi a bambini realmente afflitti da handicap, rifiutando
a priori l'idea di scritturare emuli di Dustin Hoffman per replicare il
suo lacrimoso "Uomo della pioggia". More real than real, quindi, con tutti
i preventivabili inconvenienti del caso, ma anche con un piglio documentaristico
che conferisce al film una dignità ed un valore umano estremamente elevati.
Girato con ogni tipo di supporto tecnico a disposizione (35mm, 8mm, super8,
digitale, computer-graphic e chi più ne ha più ne metta), "Paradox Lake"
rivela il suo tallone d'achille proprio in corrispondenza del suo maggior
pregio: l'assenza di uno script concepito a tavolino va a discapito dell'organizzazione
temporale della narrazione, mai come in questo caso, comunque, secondaria.
Meno secondario è il finale, quasi del tutto slegato dagli 85 minuti precedenti,
ma d'altronde anche in questo caso il bravo Reut ha un'attenuante: fosse
dipeso dai bambini della comunità di sostegno di NY, dai loro sorrisi
in camera, dalle loro smorfie scherzose, le riprese non avrebbero dovuto
finire mai...
Voto: 24/30
WASHINGTON HEIGHTS
Uno dei pregi meno conosciuti dei festival del cinema è quello di selezionare
film un po' da tutto il mondo, presentarli come incursioni in realtà culturali
e sociali agli antipodi dalla nostra e, una volta in sala, offrire allo
spettatore storie che sembrano prese in prestito dalla vita di tutti i
giorni. Davanti al gioco delle passioni non esiste latitudine, sembra
voler sottolineare Alfredo De Villa col suo ottimo "Washington Heights".
Una bella sorpresa, quindi, ritrovare in Carlos Ramirez, disegnatore incompreso
costretto a badare al negozietto del padre ferito in una rapina, le ansie
e l'impazienza tipiche di chi, ancora giovane, sente il proprio destino
sfuggirgli di mano, il senso della famiglia che gli impedisce di voltare
le spalle alla sua gente anche quando parrebbe non esistere altra alternativa,
le incertezze e le contraddizioni che costellano la sua relazione sentimentale.
E che dire, allora, del padre, un Tomas Millian appropriatamente sotto
le righe, capace di condividere gli ideali di due culture, quella cubana
e quella americana, virtualmente inconciliabili? Eppure "Washington Heights"
non è soltanto questo: spesso e volentieri De Villa si diverte a recitare
la parte dell'allievo di Spike Lee, presentando la vivace comunità dell'isola
di Castro a New York senza indulgenze e inutili carinerie. Un film di
valori, quindi, prima ancora che di personaggi, ma anche una sorta di
romanzo di formazione, in cui l'approfondirsi del rapporto padre-figlio
porta entrambi alla maturità. Premio del pubblico al Film Festival di
Los Angeles, "Washingon Heights" è presentato a Milano in anteprima europea.
Un'occasione da cogliere, ottanta minuti per specchiarsi in un mondo così
lontano e così vicino, per scoprire che le passioni e i dolori di ciascuno
di noi si aggirano senza posa anche nel quartiere cubano di NY...
Voto: 26/30
Quattordici giorni di proiezioni,
diciassette lungometraggi (dieci dei quali in concorso), ventuno corti
e centinaia di spettatori dopo la premiere del Teatro delle Erbe si chiude,
presso gli eleganti saloni del Dal Verme, la terza edizione del MIFF -
Film Festival Internazionale di Milano. La canonica serata di premiazione
ha in un certo senso confermato le impressioni che già dai primi giorni
della rassegna è stato possibile trarre: il valore artistico della manifestazione
è stato innegabilmente alto, ma il tutto non è stato adeguatamente sostenuto
sotto il profilo organizzativo. Ad ogni modo resta e va rimarcata la qualità
del prodotto offerto, dalla quale sarà facile ripartire il prossimo anno
per tappare quelle falle che non hanno permesso al MIFF stagione 2002
di coinvolgere, in questi giorni, Milano e i milanesi. I premi, si diceva.
Dopo quasi tre ore spese ad attendere fantomatiche guest stars un po'
troppo snob, infiniti ringraziamenti e sfilate di moda (Andrea Galante,
direttore e factotum del festival, vede nel link cinema-fashion la chiave
per avvicinare la città al festival: contento lui...), le giurie hanno
avuto modo di esprimere i loro verdetti. Se i riconoscimenti minori sono
stati salomonicamente divisi fra quasi tutte le pellicole in concorso,
per le categorie "di peso" (sceneggiatura, regia, film) sono stati scelti
i progetti più impegnativi e meno convenzionalmente cinematografici: "Paradox
Lake" (script e regia) e "Showboy" (film) si sono spartiti il bottino
in virtù della loro capacità di guardare al diverso (psicologico nel primo
caso, artistico nel secondo) con sguardo anticonvenzionale, ricorrendo
senza pudore a strumenti tecnici (uno per tutti, la 8 mm di Przemyslaw
Reut) visti con sospetto sul set. Nessuna interpretazione, invece, sui
premi ai migliori attori: Manny Perez ("Washington Heights"), Bernhard
Bettermann ("As far as my feet will carry me") e Susan May Pratt ("Searching
for Paradise") hanno offerto interpretazioni estremamente convincenti,
dimostrando di esser pronti per pellicole di maggior impatto sul pubblico.
Già, il pubblico: è stata probabilmente questa la nota dolente del MIFF
2002, forse a causa di una pubblicizzazione non capillare della manifestazione,
forse perché Milano non è effettivamente abituata all'idea di avere un
"suo" festival. Eppure i festival (e i film) vivono dell'entusiasmo del
pubblico, entusiasmo che spesso risulta un fattore fondamentale per convincere
i produttori a coprire le spese di distribuizione. Le grandi case vogliono
individuare un audience, anche di nicchia, per il frutto dei loro investimenti,
ma se le proiezioni non riscuotono successo quale nicchia può emergere?
Galante e soci non possono fare molto a riguardo, eppure una strategia
pubblicitaria più ampia e meno affidata al passaparola fra appassionati
potrebbe rivelarsi una carta preziosa da giocare per l'edizione 2003.
I PREMI
MIGLIOR CORTO: Mark
Partridge, "Odour of Chrysantemums"
MENZIONE SPECIALE CORTI: Judy Minor, "Anathomy of a Breakup"
LOCANDINA:Rudy Amisano, "Amore e rabbia"
MONTAGGIO:Angie Lam, "Horror Hotline...".
PREMIO DEL PUBBLICO:Edwin Avaness-Emy Hovanesyan, "The Journey"
FOTOGRAFIA: Horacio Marquinez, "G"
SCENOGRAFIA: Valentin Gidulanov, "As far as my feet will carry
me"
COLONNA SONORA: Leigh Roberts, "Washington Heights"
ATTORI: M. Perez ("Washington Heights")-B. Bettermann ("As far
as...")
ATTRICE: Susan May Pratt ("Searching for Paradise")
SCENEGGIATURA: Przemyslaw Reut, "Paradox Lake"
REGIA: Przemyslaw Reut, "Paradox Lake"
FILM: Christian Taylor, Lindy Heymann, "Showboy"
Luca CALDARELLI
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