KINEMATRIX:
A nostro avviso, nel contesto del cinema italiano inteso come settore, sembrano
mancare alcune fondamentali sinergie. A partire da quelle che sono le scuole
di cinema, passando per la fase produttiva, realizzativa, distributiva e
critica per giungere all'effettivo contatto con il pubblico sembrano emergere
degli scollamenti. Un evento come quello del Festival di Venezia rappresenta
una delle rare occasioni in cui i rappresentanti di ognuno dei settori citati
possono venire a contatto fra loro. Cosa potrebbe o dovrebbe fare il Festival
di Venezia per creare queste occasioni di incontro e cosa, quindi, non è
stato fatto nelle ultime edizioni?

MARCO MULLER: "Occorre innanzitutto fare una premessa. Mai come in
questo momento c'è stato bisogno di un ragionamento sui nuovi modi di
produzione leggeri, sulla possibilità di affermare la cifra di un cinema
che recupera autonomia, proprio perché fa coincidere l'autonomia estetica
con quella finanziaria. A questo punto ciò significa cominciare a ragionare
sulla circolazione dei film anche attraverso i festival ma anche dopo
il primo lancio festivaliero pensando agli spazi autonomie alle sacche
di resistenza che ancora possono crearsi. Credo che molte delle recenti
polemiche su questa edizione della Mostra di Venezia siano fatte ad arte
perché, in fondo, ciò che manca a Venezia sono quei prodotti molto medi
che poi, in realtà, finiscono nelle sale e tutti vedranno nei cinema sotto
casa. Il problema è quello di capire, e qui generalizzo molto, che da
cinque anni a questa parte esiste una divaricazione tra il cinema che
si fa a partire da cinque miliardi e il cinema che si fa sotto il miliardo
e mezzo; a metà c'è una specie di strana zona grigia dove sono pochi quelli
che hanno il coraggio di addentrasi, perché, naturalmente, a fare un film
sotto il miliardo e mezzo tra l'articolo 8, un po' di soldi dal fondo
di garanzia, la prevendita televisiva ci si può anche pensare; a fare
un film sopra i cinque miliardi ci si può ovviamente pensare ma a questo
punto assieme ai finanziamenti intervengono anche i condizionamenti, una
serie di alleanze, dove giustamente chi investe poi vuole dire la sua,
non tanto sul prodotto finito quanto su un certo taglio, sui modi di circolazione
e sul "posizionamento" che il film deve avere nell'attuale circolazione
commerciale. Ora, i festival sono sempre stati in qualche modo non tanto
un surrogato, perché sarebbe veramente infame pensare che i film possano
circolare soltanto attraverso i festival, ma sono stati sempre una risposta
a quello che non funzionava nel circuito di formazione e circolazione;
però sono stati una risposta perché dovevano recuperare centralità, cerare
visibilità per ciò che altrimenti sarebbe stato spinto verso la marginalità.
Ma questo non è un discorso di oggi: sono vent'anni che
discutiamo delle vistosissima censura del mercato, per cui alcuni film
non hanno cittadinanza nelle sale; e proprio a questo forse i festival
dovrebbero servire, a dimostrare che la raccolta di migliaia di individualità…
parlo di migliaia perché io vengo da un festival, Locarno, dove mi sarei
sentito male a non ragionare per migliaia di spettatori alle proiezioni
per ogni film; quindi, in qualche modo, con questo riaffermavamo la possibilità
di trovare… io non credo nel pubblico come cosa astratta… gli strati di
spettatori sensibili, giusti per un certo tipo di film, e quindi di sollecitare
alcune ipotesi distributive piccole, ragionate, calibrate, messe assieme
con grande sforzo e sussidi culturali istituzionali, poi il ventaglio
dei possibili è enorme. Però, in questo senso, i festival dovevano proprio
avere un'incidenza su quello che succede dopo, perché senza dubbio i
festival funzionano soltanto quando sono il punto di partenza di discorsi,
fruizioni e visioni che accadranno altrove, in altri tempi e con altri
ritmi.

Il problema qual è? E' che noi abbiamo un festival solo che in qualche
modo è il festival che automaticamente regala importanza e visibilità,
ed è Cannes. E questo semplicemente perché Cannes è la fiera mercato dell'esistente
cinematografico, e quindi Cannes in qualche modo ha qualche cosa a che
vedere sul come si imbastiscono le regole delle stagioni distributive
a ridosso. Uno dei più grossi risultati di Cannes negli ultimi anni… è
inutile che ci raccontiamo balle sul fatto che poi Cannes possa davvero
guidare le tendenze del mercato, dettare legge a chi, seduto di fronte
a qualche schermo di computer, inventa delle strategie di marketing basate
soprattutto sulle cifre e sui ricavi, sono quelli che decidono non soltanto
delle campagne di informazione di quei film che spesso di colossale hanno
solo il budget promozionale a disposizione; sono anche quelli che decisono
delle nostre visioni perché occupando militarmente tutti gli schemi poi
rendono impossibile l'avere accesso a più cose. Cannes, dicevo, ha avuto
un risultato per me notevolissimo negli ultimi cinque anni, ovvero di
prolungare la stagione primaverile e di regalare altre due settimane per
l'uscita di film grossi dal punto di vista della campagna promozionale
e di regalare ancora una settimana alla stagione estiva perlomeno per
i film, non dico difficili, ma d'autore che normalmente nessun'altro si
sarebbe azzardato a fare uscire d'estate. In queste situazione noi abbiamo
molti altri festival che cercano di inserirsi, ma Cannes c'è riuscito
perché Cannes fa moda, perché non c'è nessuno che si permette… io lo so
perché ho avuto come produttore due film in concorso per due anni di seguito,
cioè MOLOCH (di Sukurov, ndr) che avevamo coprodotto e il film di Samirah
Machmalbaf (LAVAGNE, ndr) che abbiamo interamente prodotto noi di FABRICA
e per il quale abbiamo preparato per due mesi la presenza a Cannes! Tutti
gli eventi che lì avrebbero dovuto aver luogo, perché poi ci fosse il
meccanismo di continuo rilancio del film e del personaggio. In realtà,
per gli altri festival, è difficilissimo: per questo parlavo prima di
autonomia e di capacità di calibrare bene quello che è il modo di produzione
e quindi anche la diffusione e il lancio da pensare in anticipo, perché
è difficile che per un piccolo film si riesca a pensare intanto di andare
a Venezia e trovare i contatti giusti per approfittare al massimo di questa
situazione, perché i risultati li abbiamo sotto gli occhi. Io ho lasciato
Locarno perché mi vergogno di non potermi occupare come vorrei di tanti
film, e io non ho mai fatto vedere a Locarno un
numero enorme di film, ho sempre cercato di ridurne il numero fino
ad arrivare, quest'anno, ad un totale di cinquanta lungometraggi, intendo
quelli in prima mondiale o nazionale, in undici giorni di festival. Qui
c'è un qualche cosa di importante da capire: addirittura con quattro o
cinque film al giorno, spingendo molti quotidiani a mandare due inviati,
non si riesci più a forzare quel blocco per cui uno dei due inviati sia
un colorista, che per definizione farà le interviste ai registi che fanno
notizia e alle star quando ci sono, mentre l'altro per forza si occuperà
in primo luogo dei film che usciranno nel suo paese di provenienza, e
solo a lato ricorderà l'eccezionalità, l'unicità o magari la natura di
capolavoro di altri film. Io mi sono trovato a Locarno di fronte ad una
situazione, per cui, anche triplicando gli sforzi, riuscivano ad avere
per alcuni film non più di cinque righe, e oltre non si andava, perché
ormai è consegnato alle abitudini dell'esercizio della critica cinematografica
e del giornalismo cinematografico che di alcuni film non si debba scrivere,
perché tanto quei film non saranno visti da nessuno una volta concluso
il festival. A maggior ragione dunque anche durante i festival questi
film saranno visti male: e allora come fare perché questi film siano visti?
E come fare affinché un festival serva a recuperare questa centralità?
Io su questo non ho dubbi: bisogna ragionare ormai in maniera chiara su
una tipologia diversa di manifestazione, per cui da una parte ci sono
ancora i festival che possono reggersi su una composizione ibrida, vedi
Cannes, ma il modello Cannes è in qualche modo inimitabile. Quello che
a me è successo a Locarno è stato di capire che con un po' di sforzo potevo
dire ad alcuni grossi produttori americani di darci i film più insoliti
del loro listino mentre quelli per i quali erano previste date di uscita
che in qualche modo potevano usare la nostra presentazione festivaliera
avrebbero avuta garantita un'ottima presentazione, sulla Piazza Grande,
ecc. Questo è il primo elemento che crea una divaricazione, perché automaticamente,
non c'è dubbio che tutti quelli che lavorano attorno alla programmazione
del programma del festival si trovino coinvolti in un vortice di questo
tipo, perché la carta da spendere è la presenza magari di una prima internazionale
del filmone hollywoodiano. Per questo non c'è più nessuno che per due
mesi segnali la presenza magari del nuovo film di Fruit Chan: interessa
sempre meno a questo punto sottolineare un diverso orizzonte di esperienza.
E' chiaro ormai che la storia dei festival ne fa delle manifestazioni
con un contorno che non è modificabile. La mostra di Venezia dovrà sempre
continuare ad essere in accordo con quello che è sempre stata; la mostra
di Locarno dovrà sempre proseguire su quella sorta di ricerca del giovane,
non in senso anagrafico, ma dell'inesplorato, della creatività sommersa
dei cineasti alla loro prima o seconda prova. Bisogna probabilmente dirsi
che servirebbe di più lavorare ad un ipotesi di festival che non sia più
il panorama di tutto quanto viene prodotto, per cui si è costretti a mostrate
tutto e il contrario di tutto, ma bisogna pensare ad una serie di festival
permanenti, ad una serie di eventi dove il lavoro viene fatto prima, dopo
e durante la presentazione. Ma allora questo implica senz'altro un'intelligenza
da parte dei parternariati possibili: per anni i festival hanno demonizzato
le televisioni, fino al punto in cui il rapporto è diventato incestuoso,
per cui non è più chiaro a che cosa di particolarissimo l'aiuto di una
televisione può servire; si sa confusamente che adesso non si può fare
un festival senza l'appoggio mediatico che una televisione può dare. Ma
a questo punto pensiamo che i palinsesti televisivi sono ancora comunque
abbastanza ricchi da permettere di isolare delle linee che mettano in
evidenza delle singolarità, e allora i festival hanno una loro...

....mi rendo conto che continuare a parlare di "festival", che è una parola
ormai talmente abusata che non c'è dubbio che festival vuol dire senz'altro
una vetrina di grosse anteprime che tutti vogliono vedere, e poi l'osservatorio
su una creatività in qualche modo dissidente rispetto a quella. E' chiaro
che c'è una contraddizione: io vengo da una stagione di manifestazioni
che avevano un po' vergogna di essere "festival", quando ho cominciato
a lavorare nei festival ho lavorato ad una manifestazione che si chiamata
la "Mostra" del Nuovo Cinema di Pesaro, nel 1978; poi sono andato ad inventare
una cosa che non voleva chiamarsi festival, a Torino, per cui dal 79 all'81
lo abbiamo chiamato Ombre Elettriche, perché non c'era altro modo; poi
sono tornato alla "mostra" dei Pesaro e, in qualche modo, allora lo spazio
dei festival era uno spazio continentale dove non c'erano frontiere, dove
la circolazione delle idee, delle opere e delle persone avveniva senza
bisogno di passaporto e dove eravamo uniti dalla necessità di una difesa
di opzioni e di idee di cinema che avevano bisogno di quel tipo di sostegno.
Sto parlando di una situazione che è durata ancora forse fino alla fine
degli anni Ottanta, ma che poi è definitivamente defunta, anche perché,
bisogna dirlo, chi ha fatto i festival in quel modo lì, chi ha cercato
di cambiare la macchina-festival, chi ha cercato di mettersi al servizio…
anche per questo io ho lasciato Locarno… rischia la salute e la vita:
i miei più cari amici e complici che hanno fatto questo mestiere sono
morti, sono morti d'infarto! Huub Bals, il fondatore di Rotterdam, dal
quale ho ereditato il festival, è morto d'infarto; Enzo Ungari si è consumato
nel fare questo lavoro in prima linea; Giovanni Buttafava è morto d'infarto
pure lui buttandosi dentro dei progetti ambiziosissimi di cinema sovietico
che poi magari io, nel mio piccolo, ho potuto realizzare soltanto a dieci
anni di distanza, perché dieci anni ci sono voluti per riprendere il coraggio
di sfidare così tante cattive abitudini. In qualche modo questa è stata
una stagione che si è chiusa, e allora non si può dire che la soluzione
si trova nel ridare vita a qualcosa che è morto: bisogna ripensare il
nuovo, bisogna cercare l'altro ma non l'altro per l'altro e per la spettacolarizzazione
dell'alterità, ma l'altro una volta per tutte, perché si definiscano delle
coordinate che sono diverse rispetto a quello che si è fatto finora".
|