A History of Violence
di David Cronenberg
A
History of Violence è un dramma familiare: storia di un uomo
qualunque e del suo rapporto con la moglie e i figli, della tipica crisi di
mezza età, quella di una coppia, che ad un certo punto della propria vita
matrimoniale non si riconosce più.
A History of Violence è un
western, in cui i cattivi arrivano nel saloon a minacciare la tranquilla
vita di un uomo e della sua fattoria: nella mite cittadina c’è uno sceriffo,
ma l’eroe dovrà difendere da solo, col suo fucile, la propria famiglia.
A History of Violence è un
noir, in cui un vecchio gangster orbo riporta a galla l’oscuro passato
del misterioso protagonista, costringendolo a tornare nei bassi fondi della
grande città, per affrontare la vendetta del boss.
A History of Violence è anche
un fumetto: la storia di un ragazzo di nome Joey Muni, che per
vendicare un amico, e per curare la nonna cardiopatica, deruba la mafia di
New York e fugge, costretto a cambiare identità.
Scrivere della pellicola di Cronenberg, e della graphic novel di
Wagner e Locke da cui è tratta, impone una prima scelta di onestà critica. È
infatti opportuno chiarire quanto l’autore non ha perso occasione di
ribadire ad ogni intervista: il rifiuto di qualsiasi legame fra film e
fumetto. Il regista ha più volte affermato di non aver mai letto il testo, e
di aver saputo, solo in una fase avanzata del progetto, quale fosse
l’origine del soggetto di Josh Olson. Ciò non toglie che, evidenziando le
profonde divergenze dei due testi, i differenti linguaggi e generi a cui
fanno riferimento, sia possibile comprendere meglio il film di Cronenberg,
la cui complessità, siamo certi, verrà rielaborata ancora nei prossimi anni.
Il paradosso dal quale partire per capire meglio il film, risiede dunque nel
carattere smaccatamente cinematografico del fumetto di Wagner e Locke.
Il disegno non può non far pensare ad uno storyboard: la
stilizzazione, le linee convulse che creano una texture approssimata e
frenetica, le ombre e i volti squadrati, l’assenza di sfumature, fanno da
contrappunto a rapporti spaziali molto definiti e a vignette come
articolazioni di piani filmici (pensiamo per esempio alle frequenti immagini
dall’alto, e alle vere e proprie panoramiche d’inizio capitolo).
Il linguaggio dei personaggi, i nomi, le ambientazioni, appartengono ad un
immaginario chiaramente cinematografico, quello del gangster-movie,
che in alcuni momenti può far pensare a Scorsese o a Ferrara, ma più in
generale ad un mondo ormai assorbito da quello finzionale.
L’universo della mafia italo-newyorkese, forse troppo rimasticato, o
comunque considerato usurato da Cronenberg, che eliminerà qualsiasi nome
italo-americano, a partire da quello del protagonista, e sposterà l’azione
fra l’Indiana e Philadelphia.
Di cinematografico, però, il fumetto ha soprattutto caratteristiche
strutturali: John Wagner, già autore di "Judge Dredd", è noto per il suo
approccio da sceneggiatore alla narrazione grafica. Tutta la graphic
novel poggia sul flashback centrale, che ci spiega il passato di Tom/Joey,
come e perché inizia la “storia di violenza” del ragazzo: una sorta di
parabola morale sul sacrificio, su errori di gioventù commessi in buona
fede, e su come essi possano continuare a perseguitarci.
Cronenberg rende subito chiaro l’azzeramento dei rapporti fra i due testi,
che si traduce innanzitutto sul piano visivo: nel rifiuto dell’equazione
grafica, tipica del film/fumetto, che semplifica la struttura a vignette
attraverso il montaggio, nella maggior parte dei casi spericolato, o spesso
articolato nella sintassi di campi e controcampi. Il film, inizia al
contrario con un congelato e lentissimo piano-sequenza. Il montaggio,
dunque, non sarà mai elemento centrale in
A History of Violence.
Nessuna prevedibile esplosione di montaggio convulso, nei momenti di
violenza: in essi, come in tutto il film, vi è invece un’implosione, o
piuttosto un montaggio interno all’inquadratura (fin dall’inizio le
situazioni si evolvono allo svelarsi, spesso con un carrello, di un
particolare fuori campo o nascosto da un ostacolo). La partita si gioca
nelle angolazioni e nei rapporti spaziali, in questo sì, esattamente come
nel western (riferimento evidenziato anche dalla continua presenza di
cavalli: nello steccato degli Stall – nome che può anche essere tradotto
come stalla – nel bar di Philadelphia, nei quadri del fratello Richie).
Basti pensare alla sequenza del duello con Fogarty nel cortile, girato dal
punto di vista della moglie che osserva dalla finestra come in un western di
Fuller, alla posizione dei cinque personaggi e a come la figura del figlio
sia rivelata dal corpo stramazzante del killer. La stessa immagine della
locandina, è un gioco focale e d’inclinazione della macchina da presa.
A livello iconografico è però molto più significativo il rapporto con il
noir: i due killer nel bar, il gangster con un occhio solo, il passato che
bussa alla porta, tutti elementi riconducibili a questo immaginario.
Soprattutto la figura di Viggo Mortensen non può che far pensare allo
“svedese” di The Killers di
Hemingway-Siodmak-Tarkovskij (più di tutti all’imponente Ole 'Swede'
Andersen/Burt Lancaster della versione di Siodmak).
La differenza con The
Killers sta nell’assenza di
un flashback esplicativo (presente invece in
Spider, film parallelo a
History of Violence, fondamentale del Cronenberg post-Crash).
Si tratta della prima delle aspettative deluse: mentre nel fumetto il
flashback è l’occasione per arricchire di spessore tragico la figura del
protagonista, qui l’autore si libera di qualsiasi zavorra moralista, e gli
unici accenni al passato di Joey vengono da Fogarty o dal fratello Richie, i
quali ne parlano solo en passant, come di un pervertito, uno
psicopatico, un sadico violento.
Elencare ognuna delle differenze strutturali richiederebbe fin troppo
spazio, sono infatti molteplici le cesure e le omissioni operate dallo
sceneggiatore Josh Olson in fase di adattamento: più interessante ci sembra
evidenziare i perché di tali scelte.
Innanzitutto ci si deve chiedere perché il protagonista, che nel film si
materializza nel corpo sofferente, mutilato, brutalmente mascolino di Viggo
Mortensen, nel fumetto ci appaia come un uomo medio, occhialuto, un perfetto
Clark Kent dall’eroismo latente. A questo rispondiamo subito: nel fumetto
non sussiste un vero dualismo, c’è soltanto un errore di gioventù, nascosto,
rimosso, e alla fine tornato a galla: tutto viene svelato dal flashback
centrale, metabolizzato, accettato subito, da personaggi e lettori.
Nel film, vi sono invece due identità distinte, in conflitto, ma
Inseparabili, che si riveleranno solo parzialmente, emergendo nei momenti
carnali: di violenza, ma come vedremo, soprattutto in quelli di sesso.
A History of Violence è un
viaggio, quasi psicanalitico, nella sfera intima, e soprattutto nei rapporti
familiari. Nel fumetto, il figlio di Tom è un personaggio insignificante, un
teen-ager ben integrato, che parla slang e porta il berretto da baseball al
contrario. Perché per Cronenberg è invece un groviglio di complessi,
pulsioni represse, un effeminato picchiato e umiliato dai bulli della
scuola? Perché sarà proprio il figlio, e non la moglie, come nel fumetto, a
salvare il protagonista, uccidendo Fogarty? Nel fumetto, Edie è la brava
mogliettina che aiuta Tom a gestire il suo diner. Perché nel film sarà un
intraprendente avvocato, una donna dal volto ossuto e dal corpo
cronenberghianamente scarnificato? Perché Richie, sullo schermo sarà il
fratello di Joey, e non un semplice amico d’infanzia?
Quesiti che ci portano al nodo centrale di
A History of Violence.
Proviamo ad eliminare la storia di gangsters, di cui in nessun momento viene
specificata l’entità, e cerchiamo di capire quello che Cronenberg vuole
davvero mostrare: un uomo e la sua crisi familiare. All’improvviso la moglie
non lo riconosce più, lui la prende a schiaffi, è costretto a dormire sul
divano. Picchia anche il figlio, e ne perde stima e fiducia.
Va a trovare il fratello, il quale gli chiede se è davvero felice con la
vita matrimoniale, e gli consiglia quella da scapolo. Dopo questa fuga nel
passato, come accadrebbe probabilmente nella realtà, Tom torna a casa e
viene riammesso al desco familiare, la lite è finita, la famiglia
ricomposta. History of Violence
è evidentemente un film di personaggi, la cui polarità impazzirà nel
momento di metamorfosi di Tom/Joey. Il fulcro del film è proprio la casa, la
famiglia. Cronenberg ci porta astutamente fra scatole di cereali, centri
commerciali, in un repertorio (tele)visivo rassicurante, proprio di
un’America provinciale e lavoratrice. La violenza che tutti aspettano non
viene però fuori nelle sparatorie, che si risolveranno piuttosto
sbrigativamente, bensì nel rapporto fra Tom e Edie Stall: è una violenza
intima, profondamente fisica. È il sesso a muovere le leve del film, e il
personaggio del figlio, frustrato dalla propria inadeguatezza, caricatura di
“anti-maschio dominante”, ne è la più chiara rappresentazione figurativa.
I fan di Cronenberg delusi dall’assenza delle manipolazioni carnali tipiche
del regista, non si saranno forse soffermati sulle scene erotiche del film:
la figura composta dai due amanti nella prima di queste, comunemente detta
69, ricorda le forme insettoidi degli strumenti de
Gli Inseparabili (facile
relazionare questi due film, anche se l’opera a nostro parere più vicina a
A History of Violence è
l’ultima di chiara ambientazione americana:
The Dead Zone). Sarà solo
dopo la riscoperta delle proprie tendenze omicide che Tom completerà l’atto
sessuale con la moglie, nella violentissima sequenza sulle scale (pare che
la successiva inquadratura, quella del livido sulla schiena della donna, sia
il risultato di un trucco: l’attrice aveva infatti riportato molti più
ematomi durante le riprese della scena). La coscienza del corpo
cronenberghiana è vivissima anche nel modo in cui sono filmate le
sparatorie: molto ravvicinate, quasi pornografiche. A dispetto di quanti
accusano l’autore di essersi perso, a partire da Spider, o addirittura da
Crash, si può dire che il canadese abbia ancora le idee chiarissime su che
cosa è cinema. In A History of
Violence, l’idea monomaniacale del regista, ancora oggi ripetuta in
ogni intervista, per cui attraverso la riflessione sulla tecnologia sia
possibile capire meglio l’uomo, il funzionamento della sua mente e la sua
creatività, è solo latente. Il momento di svolta del film corrisponde però
con la riparazione del pick-up di Tom, fino ad allora dipendente dalla poco
virile station wagon della moglie, se non costretto a zoppicare
dolorosamente. Allo stesso modo, l’antagonista, che nel fumetto ha un tipico
nome da mafioso (John Torrino), nel film omaggia la leggenda delle corse
motociclistiche: Carl “the king” Fogarty. Quest’estate, a Venezia, (alla
62.ma Mostra, N.d.R.) il regista ha presentato "Red Cars": libro
grafico sulla Ferrari del 1961, nato da un progetto mancato sul fascino
erotico delle macchine da corsa. Non ci sembra azzardato parlare dell’opera
di Cronenberg come di una rarissima espressione, nel cinema contemporaneo,
di una precisa idea di fotogenia, legata, ancora una volta, all’Intelligenza
della Macchina.
|