STORIA SEGRETA DEL CINEMA ASIATICO

 

di Maurizio Buquicchio

Storia segreta del cinema asiatico

Il nuovo corso della Mostra del Cinema di Venezia, avviato da Müller, ha fatto dell’attenzione all’attualità critica uno dei propri punti fermi. Pensiamo al dibattito sul cinema di genere, suscitato, o reso visibile, in buona parte dall’opera di Quentin Tarantino. L’anno scorso, proprio sotto la sua egida, è stato omaggiato il b-movie italiano, per anni esiliato dai festival ufficiali, oggi linfa vitale per il cosiddetto cinema d’autore. È proprio in coincidenza con l’invasione degli ultimi anni, da parte del cinema e della cultura orientale, che in quest’edizione viene presentata una "Storia Segreta del Cinema Asiatico".
Scriviamo “una” storia, proprio perché la rassegna, riedizione della retrospettiva del 1978 a Pesaro (ad opera dello stesso Müller), non ha pretese di esaustività. Consiste piuttosto in uno sguardo verso le rarità e soprattutto verso lo sterminato e semisconosciuto cinema cinese.
Hong Kong e Corea del Sud, le produzioni più visibili negli ultimi anni, sono in questo caso sostituite da Cina e Giappone.
Padrini della manifestazione, i grandi autori asiatici delle nuove generazioni, presenti al Lido a vario titolo: John Woo, Ang Lee e i giapponesi Takashi Miike e Shinya Tsukamoto.
Grande spazio al cinema cinese, spesso di regime, fatto di opere profondamente legate alla vita sociale di questo paese negli ultimi cinquant’anni.
Chi conosce il cinema in lingua cinese tende ad identificarlo con il magnificente Wuxiapian hongkonghese, con le peripezie di spadaccini volanti e principesse. Si tratta invece di una produzione molto realista, sebbene ancorata alle forme narrative della tradizionale opera in costume e del melodramma.


Storie della strada, che si sviluppano secondo dinamiche libere dalle strette convenzioni strutturali del nostro cinema: pensiamo a film come Dalu (La strada, 1934) di Sun Yu o al musical Malu tianshi (Angeli della strada, 1937) di Yuan Muzh. Yeban gesheng (Canto a mezzanotte,1937) di Maxu Weibang è invece l’insolita ripresa de Il fantasma del palcoscenico, sovraccarico nella messa in scena e ricco di scelte visive estreme. Altrettanto peculiare è San Mao liulang ji (I vagabondaggi di Tre Capelli, 1949/50) di Zhao Ming e Yan Gong, che parte da un fumetto per raccontare, in piccoli episodi, le storie di uno strambo bambino senzatetto, fra poesia chapliniana e brutale realismo.
Ma più di tutti è Wutai jiemei (Sorelle del palcoscenico, 1965) di Xie Jin ad impressionare ed incuriosire: il dramma di due sorelle dalla campagna remota alla scintillante Shanghai dei teatri. Cantando l’opera tradizionale, attraverseranno la storia della Cina fino alla Rivoluzione. In questo film, evidentemente di regime, gli ideali di lotta di classe e femministi costituiscono il fulcro del dramma, senza oscurare però la componente melodrammatica. Un’opera senza la pomposità celebrativa della propaganda, che è, al contrario, la minimale e raffinata storia di due sorelle al confronto con l’età adulta e con le proprie origini contadine.


Di tutt’altra spettacolarità le pellicole giapponesi: ad essere privilegiato è senza dubbio lo yakuza-film, come sempre incentrato sul tema dell’onore. Lo stesso fulcro tematico, visto in maniere diametralmente opposte da due fra gli autori presenti nella rassegna: Kato Tai e Kinji Fukasaku.
Il primo, sicuramente di una generazione precedente a Fukasaku, rappresenta gli yakuza come veri e propri eroi tragici, laddove la messa in scena, a partire dalle stupende sequenze introduttive (pensiamo soprattutto a Meiji kyokaku denSandaime shumei - La leggenda dei cavalieri dell’era MeijiLa successione di un capo della terza generazione, 1965) è solenne quasi alla maniera di Ozu, con macchina fissa e minuziose architetture di montaggio.
Kinji Fukasaku è invece il regista culto (di Tarantino, si sa, ma è possibile notare un’influenza, soprattutto nel montaggio e nell’uso dei freeze frame, persino su Scorsese) già omaggiato a Torino due anni fa: grandguignolesco, brutale, esplosivo. I suoi yakuza sono cinici e disperati, e il posto dell’onore è la tomba, come dicono i titoli stessi (Lotta senza codice d’onore, 1973, La tomba dell’onore, 1975). La regia anarchica e frammentaria di Okami to buta to ningen (Lupi, maiali e uomini, 1964) trova la sua massima espressione nella folle sequenza della caccia ai cani in un quartiere disastrato di Tokyo.


Omaggiati anche altri due classici: il pirotecnico Suzuki Seijun ed il maestro Mizoguchi Kenji. Di quest’ultimo, una vera rarità: Yokihi (L’imperatrice Yang Kwei-fei, 1955) film prodotto a Hong Kong dai mitici fratelli Shaw, fedele alle regole del dramma storico in mandarino, inconfondibile nell’uso della profondità e della struttura a flashback.
Ma fra tutti, il vero evento della rassegna, è stato quello a sorpresa. Tsukamoto, regista capostipite del cyberpunk giapponese ha presentato, per commemorarne la morte, il capolavoro di Teruo Ishii: Horror of a Malformed Man (1969). Un viaggio delirante e psichedelico fra la follia e la deformità, un immaginario con il quale, la nuova generazione a noi più nota (lo stesso Tsukamoto e soprattutto Takashi Miike), è profondamente in debito.