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PAOLO BENVENUTI: "Il giudizio sui lavori visti è un giudizio fortemente negativo. Io sono un pessimo spettatore cinematografico, non vado mai al cinema e quindi vivo nell'illusione che il cinema sia ancora quella cosa splendida che era fino agli anni 50. Mi illudo anche che i giovani continuino a fare un bel cinema, ricco interiormente, pieno di aperture, scoperte, emozioni. In queste occasioni scopro invece che i giovani accumulano un malessere terribile, un senso di aggressività e violenza che la società contemporanea propone e diffonde: i loro filmati sono lo specchio di questo accumularsi. E non parlo dei contenuti ma il problema è che la violenza è espressa dal taglio delle inquadrature, nel montaggio, nel ritmo interno e quindi nell'essenza stessa del linguaggio cinematografico, e questo è terribile. Significa che stiamo respirando un veleno che ci pervade tutti e soprattutto i giovani, che hanno meno difese. Il 99% delle cose che ho visto a Bellaria, e che già erano il frutto di una selezione, rappresentava proprio questa mostruosità: se questo è il mondo del futuro è un brutto mondo, e per questo sono amareggiato". KMX: E lei pensa che sia possibile una qualche forma di "recupero", magari dei più talentuosi? PB: "Ma no. Io credo che la soluzione possa essere trovata in qual poco di buono che abbiamo visto e premiato. Si tratta soprattutto di tre caratteristiche: l'impegno del lavoro, quello di un cinema che si fa con pazienza e un grande coinvolgimento e fatica; una severa attenzione per il mondo che ci circonda, per il bisogno di comprenderlo, e infine l'ironia. Abbiamo premiato questi tre elementi, molto rari nel contesto di proposte che invece trasudavano il vuoto, la mancanza di profondità ed una violenza sostitutiva di un generale vuoto di emozioni. Abbiamo cercato così di dare un'indicazione". KMX: Direbbe lo stesso parlando non di una imitata selezione di giovani ma del panorama del cinema italiano attuale? PB: "Sì, senza dubbio. Io ho un'opinione molto dura nei confronti del cinema italiano di oggi, che credo sia un cinema di grande superficialità, che rappresenta una superficialità culturale, estetica, contenutistica ma soprattutto emozionale. Si ha paura dell'emozione, mentre il cinema era emozione! I fratelli Lumiere ogni volta che accendevano la loro macchina da presa si emozionavano, avevano uno sguardo di meravigla. Uno sguardo che è quello del bambino, del bambino che è in noi: uno sguardo che il cinema italiano ha perduto, e questa è una cosa terribile. Ci sono alcuni che difendono con le unghie e con i denti questo diritto di avere ancora uno sguardo di bambino - un bambino malato, perché viviamo in un mondo malato - ma pur sempre un bambino. E io stimo e apprezzo questi autori, che sono pochissimi in Italia. E sono Straub e Huillet - che non sono neppure italiani - che da trentacinque lavorano in Italia, fanno film italiani ma vengono considerati ancora come non italiani, come se ci si vergognasse di loro, e questo la dice lunga sul nostro cinema. E poi stimo molto il lavoro che fanno Ciprì e Maresco in Sicilia: per il resto vedo una grande nebbia". KMX: E Marco Bechis? PB: "Ecco: Marco Bechis è una persona che stimo. Non ho visto GARAGE OLIMPO, però conosco ALAMBRADO che ho amato moltissimo. Non ci conosciamo ma ho letto una sua dichiarazione in cui sosteneva e insisteva sul concetto di stile e linguaggio, sul rigore dello stile. Sentirlo dire da uno come Bechis che fa un cinema di forte impegni civile è di un'importanza enorme, perché etica ed estetica sono la stessa cosa". KMX: "A questo proposito, una cosa che abbiamo notato nel panorama del cinema italiano di oggi è la facilità con cui la critica e gli autori stessi confondano il cosa con il come. Il contenuto è ritenuto sufficiente a "fare il bel film", il film emozionante. Il riferimento è abbastanza chiaro, uno su tutti: LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti, per non parlare di Benigni e LA VITA E' BELLA. Il semplice fatto di aver parlato di temi così universali e "forti" sulla carta ha fatto dimenticare ciò che veramente ci sembra centrale: l'emozione, appunto. PB: "Certo! Perché il come e il cosa sono la stessa cosa! E la separatezza tra questi due elementi è un'eredità terribile che noi italiani ci portiamo dietro da cinquant'anni, da quella critica "contenutistica" che si è sviluppata nel dopoguerra con La rivista del Cinema Nuovo, con Aristarco, ecc. Adesso assistiamo ad una presa di posizione culturale che è un'eredità di questa posizione critica, per cui i cosiddetti critici dei quotidiani, che si sono formati a quella scuola e che sono legati alla sinistra politica, danno per scontato che quello che conta di più è il contenuto e non la forma. Anzi: se qualcuno si interessa troppo della forma è un "formalista". E' questo il grosso equivoco… e poi - magari - non fanno nulla per denunciare quello che è l'imbroglio stesso insito nel linguaggio cinematografico: il cinema è strutturalmente un trucco. Quindi, se questo trucco è dichiarato, fa parte del gioco, del rapporto tra cineasta e spettatore il problema non esiste. Il problema è quando si nasconde questo trucco, quando si vuole vendere lo smog per aria puro: sto pensando ad esempio all'uso nefasto che si fa in Italia del doppiaggio, per cui lo spettatore pensa di avere un rapporto di grande intensità con un attore, mentre in realtà si relazione ad una faccia che appartiene ad uno, mentre la voce appartiene ad un altro. E questo, secondo me, appartiene ad una più generale logica di imbroglio, dietro la quale si nasconde la gran parte degli autori del cinema italiano. Io, infatti, mi sto battendo da anni per riportare l'attore - con il suo lavoro, con la sua intensità e la sua carica emozionale - al centro dell'inquadratura. Ma questa cosa, in qualche modo, dà fastidio: io sono un elemento di disturbo e faccio un cinema che disturba: disturba perché, nel momento in cui si dovesse riconoscere che il discorso che faccio io - e che fa anche Straub - ovvero di riportare la realtà autentica dentro l'inquadratura, ciò significherebbe negare, annullare tutto il resto e rimettere in discussione tutto, compreso il linguaggio cinematografico che si è sviluppato negli ultimi cinquant'anni. E questo metterebbe in crisi l'industria stessa del cinema italiano: un'industria che è basata proprio sulla falsità, per cui un lavoro di riflessione seria sull'autenticità ne metterebbe immediatamente in crisi la struttura". KMX: Ha parlato di riportare l'attore al centro dell'inquadratura: una volontà evidentissima nel lavoro che ha fatto per GOSTANZA DA LIBBIANO con Lucia Poli… PB: "Innanzitutto bisogna dire questo: il film nasca da una
scommessa. Questo film poteva esistere solo nel caso in cui fosse scattata
una sorta di scintilla tra il testo ed una grande attrice: il problema
era proprio trovare una grande attrice che sposasse il testo e lo facesse
suo. Non è stato un percorso semplice: a ricerca era molto limitata,
perché ci serviva una donna di sessant'anni e toscana; doveva essere
toscana perché, lavorando io solo in presa diretta, non potevo
poi doppiare. Il secondo problema è che a me non interessano gli
attori, interessando le persone: devo avere in primo luogo con la persona.
Se stabilisco questo rapporto qualcosa scatta. Quando con Paola - la mia
compagna e collaboratrice - abbiamo incontrato Lucia, prima di tutto siamo
stati a casa sua: l'abbiamo vista nella sua quotidianità, abbiamo
bevuto un caffè insieme, abbiamo parlato con sua figlia, l'abbiamo
vista nel suo ruolo di madre e persona normale; con lei abbiamo stabilito
subito un rapporto di grande familiarità. Dopo l'abbiamo vista
lavorare in teatro, e lì abbiamo avuto dei problemi, perché
quello che vedevamo era l'esatto contrario di quanto ci sarebbe servito
per il film: e io era veramente disperato. Ma Paola mi ha detto: "stai
attento, perché Lucia è vera, non è un'attrice fasulla;
il suo problema è che ha bisogno di un regista. Se tu riesci a
trovare il giusto rapporto con lei qualcosa scatterà". Devo
dire che Paola ha avuto molta più fiducia di me nei risultati di
questo percorso, e poi in effetti la cosa ha funzionato. KMX: Era proprio su questo che noi ci interrogavamo, e ci piacerebbe che lei scendesse oltre nei particolari a proposito della posizione della m.d.p.. Ci sembra infatti che si tratti di un uso assolutamente particolare, lontano ad esempio dal ricorso ad una prospettiva esclusivamente centrale… PB: "Sì. Questo è un discorso molto lungo ed
è un po' il risultato di tutta la mia esperienza cinematografica:
trentadue anni di lavoro sul cinema. Premetto poi che io sono passato
al cinema dalla pittura: io sono un ex-pittore che un giorno ha scelto
la cinepresa per dipingere i propri quadri. In questo percorso io mi sono
interrogato continuamente sul senso dell'inquadratura: per me l'inquadratura
è la chiave di volta del linguaggio cinematografico, perché
non c'è cinema se non c'è la consapevolezza dell'inquadratura.
Il cinema è inquadratura! Poi è anche sequenza, tempo, è
anche ritmo, musicalità dell'immagine, ecc. Ma l'elemento chiave
del linguaggio cinematografico è l'inquadratura, e questo non lo
dico io ma l'hanno detto i fratelli Lumiere, lo dicono coloro che hanno
inventato il cinema. Se vuoi prendete le migliaia di film dei Lumiere
scoprirete che ognuno di questi altro non è se non una grande ricerca
sull'inquadratura, dove il rapporto tra base e altezza del rettangolo
dell'inquadratura, diagonali e mediane, è un rapporto di controllo
costante e tutta la composizione interna delle figure che, nella realtà,
si muovevano liberamente, rispondevano perfettamente a delle linee interne
compositive perfettamente rigorose, geometriche. Pensate a L'ARRIVO DEL
TRENO: l'arrivo del treno si muove sulle diagonali, è una struttura
compositiva la cui architettura è all'interno della diagonali del
rettangolo. Questo rapporto tra sguardo, architettura interna del rettangolo
e realtà è il cinema: il cinema è questo. Se un autore
cinematografico non passa attraverso questo percorso non fa cinema ma
semplicemente impressiona della pellicola. KMX: Il suo - per quanto la definizione sia oltremodo forzata - è, in un certo senso, con definizione mutuata da un genere americano, un "cinema giudiziario". Questo tipo di cinema, in linea di massima, è costruito sulla base del continuo ricorso al flashback, data la necessità di ricostruire gli avvenimenti che hanno portato al procedimento giudiziario che è alla base del racconto vero e proprio. Lei, al contrario, non ha usato il flashback: ha legato tutti i riferimenti al passato al discorso diretto di Gostanza… PB: "Certo! E' stata una scelta precisa, fatta a monte e
persino contro le opinioni di molti amici e collaboratori. La scommessa
del film è l'attore: deve essere l'attore a far vedere queste cose,
attraverso la potenza evocatrice delle sue parole. O l'attore esiste e
quindi lo mettiamo al centro dell'inquadratura con tutte le sue potenzialità
espressive, oppure è solamente un oggetto e quindi, per raccontare
le storie, è giusto usare il flashback. Ma dal momento che io credo
nell'attore, nel suo lavoro, credo che un grande attore sia in grado di
farti vedere ogni cosa, tutto quello che vuole. E non lo dico solo perché
credo nei grandi attori, ma perché credo in mia nonna: mia nonna,
quando ero piccolo, mi raccontava le favole, e quando lo faceva io vedevo
il lupo, Cappuccetto Rosso, il bosco: vedevo tutto. E allora, se mia nonna
era capace di tutto questo perché non dovrebbe esserlo un grande
attore? Questa è la scommessa: una scommessa che presuppone però
anche una grande stima nei confronti dello spettatore. Non ci dimentichiamo
che il cinema di oggi disprezza gli spettatori, li violenta e sputa continuamente
loro in faccia: io credo invece che lo spettatore abbia la sua dignità
e la sua intelligenza e cultura, e che spesso sia molto più intelligente
di me che faccio il film. Io devo rendere conto del mio lavoro allo spettatore
e rispettarlo e, in più, chiedergli di diventare complice del mio
percorso: solo se io ho uno spettatore attivo, partecipe, critico e pronto
ad emozionarsi, allora io attraverso il mio cinema creo un tutto che va
oltre il mio film e diventa una sorta di miracolo tra la sensibilità
di chi guarda e quella degli attori attraverso il gioco del cinematografo,
del buio, della sala, delle luci, delle ombre. E' una sorta di sintesi
in cui lo spettatore diventa in qualche modo protagonista delle sue stesse
emozioni, della sua esperienza. KMX: Ecco: dal momento che ci sono altri registi che vengono ritenuti "rigorosi" - anche se a nostro avviso, pur ripetendoci, ci sembra soprattutto sul cosa e non sullo stile - ci sembra però che, in mancanza di un'onestà intellettuale tale da presupporre un simile lavoro, si preferisca invece non caratterizzare l'ambito culturale. Facciamo ancora una volta l'esempio dell'ultimo film di Moretti, LA STANZA DEL FIGLIO: il cinema italiano, per raggiungere un ascolto maggiore, per superare i confini nazionali, fa una scelta di "universalità generica": temi come la morte, il dolore, non supportati da scelte caratterizzanti, sono appigli un po' troppo facili. Se adesso stiamo vivendo, proprio in ragione di questo, un periodo in cui qualcuno parla addirittura di "rinascita del cinema italiano", ci sembra che una volta - proprio con Rossellini, ecc. - quando il cinema nostrano viveva un periodo di universalità, quella particolare universalità fosse anche particolarmente specifica… PB: "Sono assolutamente d'accordo! Io vengo da quell'esperienza,
da quella cultura, al punto che - proprio come avrebbe fatto Rossellini
- quando, in GOSTANZA DA LIBBIANO, ho avuto bisogno di rappresentare in
maniera precisa la Chiesa, un inquisitore ho usato un vero prete: il primo
inquisitore che si vede nel film, padre Valentino Davanzati, è
un prete vero, che ha prestato il suo volto e la sua esperienza al personaggio
di Soffia, questo inquisitore del Cinquecento. Questa attenzione alla
particolarità mi viene proprio dalla grande lezione di Rossellini,
ma la grandezza del cinema di Rossellini in che cosa consisteva? Nel fatto
che lui partiva da un presupposto per cui la verità è sempre
più forte di qualunque ricostruzione. Il gesto di un operaio che
lavora da vent'anni alla catena di montaggio sarà sempre più
forte di quello di un attore che finge: se penso ad EUROPA '51, dove la
Bergman viene portata alla catena di montaggio e c'è quel momento
in cui lei è accanto ad una vera operaia, Rossellini fa proprio
vedere l'impaccio della donna borghese rispetto all'operaia, e in questo
c'è una ricchezza incredibile dal punto di vista narrativo e soprattutto
emozionale. KMX: Ma allora, a questo punto, il cinema che possibilità, che compiti può avere, come può rieducare lo sguardo del suo spettatore che è diventato generico? A volte si ha il sospetto che i registi, per disperazione, non facciano altro che adeguarsi a questa genericità dello sguardo… PB: "E' vero, è giusto succede proprio così.
Ma non bisogna accettarlo, non bisogna adeguarsi. Non si deve scendere
a nessun compromesso e bisogna, come si dice dalle mie parti, rompere
i coglioni. Io, per esempio, mi sono fissato: giro solo nel formato 1:1.33,
pur sapendo benissimo che nelle sale cinematografiche italiane questo
formato non esiste più. E io, tutte le volte, vado lì, in
cabina, dal protezionista, e lo costringo a fare lo sforzo intellettuale
e culturale di ritirare fuori il vecchio obiettivo, il vecchio mascherino
per ridare al film il formato giusto, che è poi il vero formato
del cinematografo, inventato dai fratelli Lumiere. Questa mia resistenza
rispetto ad una cosa apparentemente secondaria, come la forma del rettangolo
dello schermo, è in realtà una scelta ideologica precisa:
è una scelta di resistenza, perché occorre resistere. presto su KMX la seconda parte...
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