PAOLO BENVENUTI
incontro con l'autore di
GOSTANZA DA LIBBIANO



KINEMATRIX: A Bellaria (anteprimaanozero) 2001 lei era parte della giuria, un suo giudizio sui corti in gara…

PAOLO BENVENUTI: "Il giudizio sui lavori visti è un giudizio fortemente negativo. Io sono un pessimo spettatore cinematografico, non vado mai al cinema e quindi vivo nell'illusione che il cinema sia ancora quella cosa splendida che era fino agli anni 50. Mi illudo anche che i giovani continuino a fare un bel cinema, ricco interiormente, pieno di aperture, scoperte, emozioni. In queste occasioni scopro invece che i giovani accumulano un malessere terribile, un senso di aggressività e violenza che la società contemporanea propone e diffonde: i loro filmati sono lo specchio di questo accumularsi. E non parlo dei contenuti ma il problema è che la violenza è espressa dal taglio delle inquadrature, nel montaggio, nel ritmo interno e quindi nell'essenza stessa del linguaggio cinematografico, e questo è terribile. Significa che stiamo respirando un veleno che ci pervade tutti e soprattutto i giovani, che hanno meno difese. Il 99% delle cose che ho visto a Bellaria, e che già erano il frutto di una selezione, rappresentava proprio questa mostruosità: se questo è il mondo del futuro è un brutto mondo, e per questo sono amareggiato".

KMX: E lei pensa che sia possibile una qualche forma di "recupero", magari dei più talentuosi?

PB: "Ma no. Io credo che la soluzione possa essere trovata in qual poco di buono che abbiamo visto e premiato. Si tratta soprattutto di tre caratteristiche: l'impegno del lavoro, quello di un cinema che si fa con pazienza e un grande coinvolgimento e fatica; una severa attenzione per il mondo che ci circonda, per il bisogno di comprenderlo, e infine l'ironia. Abbiamo premiato questi tre elementi, molto rari nel contesto di proposte che invece trasudavano il vuoto, la mancanza di profondità ed una violenza sostitutiva di un generale vuoto di emozioni. Abbiamo cercato così di dare un'indicazione".

KMX: Direbbe lo stesso parlando non di una imitata selezione di giovani ma del panorama del cinema italiano attuale?

PB: "Sì, senza dubbio. Io ho un'opinione molto dura nei confronti del cinema italiano di oggi, che credo sia un cinema di grande superficialità, che rappresenta una superficialità culturale, estetica, contenutistica ma soprattutto emozionale. Si ha paura dell'emozione, mentre il cinema era emozione! I fratelli Lumiere ogni volta che accendevano la loro macchina da presa si emozionavano, avevano uno sguardo di meravigla. Uno sguardo che è quello del bambino, del bambino che è in noi: uno sguardo che il cinema italiano ha perduto, e questa è una cosa terribile. Ci sono alcuni che difendono con le unghie e con i denti questo diritto di avere ancora uno sguardo di bambino - un bambino malato, perché viviamo in un mondo malato - ma pur sempre un bambino. E io stimo e apprezzo questi autori, che sono pochissimi in Italia. E sono Straub e Huillet - che non sono neppure italiani - che da trentacinque lavorano in Italia, fanno film italiani ma vengono considerati ancora come non italiani, come se ci si vergognasse di loro, e questo la dice lunga sul nostro cinema. E poi stimo molto il lavoro che fanno Ciprì e Maresco in Sicilia: per il resto vedo una grande nebbia".

KMX: E Marco Bechis?

PB: "Ecco: Marco Bechis è una persona che stimo. Non ho visto GARAGE OLIMPO, però conosco ALAMBRADO che ho amato moltissimo. Non ci conosciamo ma ho letto una sua dichiarazione in cui sosteneva e insisteva sul concetto di stile e linguaggio, sul rigore dello stile. Sentirlo dire da uno come Bechis che fa un cinema di forte impegni civile è di un'importanza enorme, perché etica ed estetica sono la stessa cosa".

KMX: "A questo proposito, una cosa che abbiamo notato nel panorama del cinema italiano di oggi è la facilità con cui la critica e gli autori stessi confondano il cosa con il come. Il contenuto è ritenuto sufficiente a "fare il bel film", il film emozionante. Il riferimento è abbastanza chiaro, uno su tutti: LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti, per non parlare di Benigni e LA VITA E' BELLA. Il semplice fatto di aver parlato di temi così universali e "forti" sulla carta ha fatto dimenticare ciò che veramente ci sembra centrale: l'emozione, appunto.

PB: "Certo! Perché il come e il cosa sono la stessa cosa! E la separatezza tra questi due elementi è un'eredità terribile che noi italiani ci portiamo dietro da cinquant'anni, da quella critica "contenutistica" che si è sviluppata nel dopoguerra con La rivista del Cinema Nuovo, con Aristarco, ecc. Adesso assistiamo ad una presa di posizione culturale che è un'eredità di questa posizione critica, per cui i cosiddetti critici dei quotidiani, che si sono formati a quella scuola e che sono legati alla sinistra politica, danno per scontato che quello che conta di più è il contenuto e non la forma. Anzi: se qualcuno si interessa troppo della forma è un "formalista". E' questo il grosso equivoco… e poi - magari - non fanno nulla per denunciare quello che è l'imbroglio stesso insito nel linguaggio cinematografico: il cinema è strutturalmente un trucco. Quindi, se questo trucco è dichiarato, fa parte del gioco, del rapporto tra cineasta e spettatore il problema non esiste. Il problema è quando si nasconde questo trucco, quando si vuole vendere lo smog per aria puro: sto pensando ad esempio all'uso nefasto che si fa in Italia del doppiaggio, per cui lo spettatore pensa di avere un rapporto di grande intensità con un attore, mentre in realtà si relazione ad una faccia che appartiene ad uno, mentre la voce appartiene ad un altro. E questo, secondo me, appartiene ad una più generale logica di imbroglio, dietro la quale si nasconde la gran parte degli autori del cinema italiano. Io, infatti, mi sto battendo da anni per riportare l'attore - con il suo lavoro, con la sua intensità e la sua carica emozionale - al centro dell'inquadratura. Ma questa cosa, in qualche modo, dà fastidio: io sono un elemento di disturbo e faccio un cinema che disturba: disturba perché, nel momento in cui si dovesse riconoscere che il discorso che faccio io - e che fa anche Straub - ovvero di riportare la realtà autentica dentro l'inquadratura, ciò significherebbe negare, annullare tutto il resto e rimettere in discussione tutto, compreso il linguaggio cinematografico che si è sviluppato negli ultimi cinquant'anni. E questo metterebbe in crisi l'industria stessa del cinema italiano: un'industria che è basata proprio sulla falsità, per cui un lavoro di riflessione seria sull'autenticità ne metterebbe immediatamente in crisi la struttura".

KMX: Ha parlato di riportare l'attore al centro dell'inquadratura: una volontà evidentissima nel lavoro che ha fatto per GOSTANZA DA LIBBIANO con Lucia Poli…

PB: "Innanzitutto bisogna dire questo: il film nasca da una scommessa. Questo film poteva esistere solo nel caso in cui fosse scattata una sorta di scintilla tra il testo ed una grande attrice: il problema era proprio trovare una grande attrice che sposasse il testo e lo facesse suo. Non è stato un percorso semplice: a ricerca era molto limitata, perché ci serviva una donna di sessant'anni e toscana; doveva essere toscana perché, lavorando io solo in presa diretta, non potevo poi doppiare. Il secondo problema è che a me non interessano gli attori, interessando le persone: devo avere in primo luogo con la persona. Se stabilisco questo rapporto qualcosa scatta. Quando con Paola - la mia compagna e collaboratrice - abbiamo incontrato Lucia, prima di tutto siamo stati a casa sua: l'abbiamo vista nella sua quotidianità, abbiamo bevuto un caffè insieme, abbiamo parlato con sua figlia, l'abbiamo vista nel suo ruolo di madre e persona normale; con lei abbiamo stabilito subito un rapporto di grande familiarità. Dopo l'abbiamo vista lavorare in teatro, e lì abbiamo avuto dei problemi, perché quello che vedevamo era l'esatto contrario di quanto ci sarebbe servito per il film: e io era veramente disperato. Ma Paola mi ha detto: "stai attento, perché Lucia è vera, non è un'attrice fasulla; il suo problema è che ha bisogno di un regista. Se tu riesci a trovare il giusto rapporto con lei qualcosa scatterà". Devo dire che Paola ha avuto molta più fiducia di me nei risultati di questo percorso, e poi in effetti la cosa ha funzionato.
Abbiamo lavorato un mese prima dell'inizio delle riprese, e insieme, io e Lucia, abbiamo cercato e poi trovato il registro giusto per farla entrare nel personaggio di Gostanza. E quando ho sentito che questo stava succedendo che Lucia, ad esempio, stava recuperando i suoi ricordi di bambina che andava a trovare gli zii e i nonni che abitavano in campagna, per cui ricordava gli echi delle parole, dei racconti e delle frasi dei vecchi contadini. E così lei ha anche cominciato a visitare i paesini attorno a San Miniato - dove giravamo - alla ricerca dei luoghi che Gostanza nomina, per introiettare nel suo sguardo quei luoghi: tutto questo per far sì che, nel recitare, nominando un paese questo non fosse esclusivamente un nome astratto, ma qualcosa di concreto, reale. Quando ho visto che Lucia si muoveva in questo modo, che si appropriava di Gostanza anche attraverso il paesaggio, i luoghi, la luce, gli umori, la lingua allora ho capito che Gostanza stava rinascendo e diventando qualcosa di importante, da filmare.
A quel punto il mio lavoro è stato semplicemente cercare di capire quale fosse il modo giusto per fotografare Gostanza: il mio problema era osservare questa donna - non più Lucia Poli ma Gostanza a Libbiano - che riviveva il suo dramma il suo processo. Allora mi sono posto accorto che non potevo osservare quella donna, gli inquisitori e il processo con lo sguardo dell'uomo del 2000: dovevo fare uno sforzo enorme e recuperare lo sguardo del 1500. La scelta dell'inquadratura, del campo, dell'angolazione e della posizione della macchina da presa rispetto al soggetto è stato il risultato di un grosso lavoro fatto sullo sguardo del Cinquecento. Ciò è stato possibile grazie alla storia della pittura toscana di quell'epoca che mi ha permesso di recuperare quello sguardo, e mi riferisco specialmente ad uno dei più grandi pittori di allora, del secondo Manierismo toscano, ovvero Angelo Bronzino. Ho trovato poi nella complicità di Aldo di Marcantonio - il mio direttore della fotografia - una collaborazione assolutamente perfetta, che ha reso possibili i risultati del film".

KMX: Era proprio su questo che noi ci interrogavamo, e ci piacerebbe che lei scendesse oltre nei particolari a proposito della posizione della m.d.p.. Ci sembra infatti che si tratti di un uso assolutamente particolare, lontano ad esempio dal ricorso ad una prospettiva esclusivamente centrale…

PB: "Sì. Questo è un discorso molto lungo ed è un po' il risultato di tutta la mia esperienza cinematografica: trentadue anni di lavoro sul cinema. Premetto poi che io sono passato al cinema dalla pittura: io sono un ex-pittore che un giorno ha scelto la cinepresa per dipingere i propri quadri. In questo percorso io mi sono interrogato continuamente sul senso dell'inquadratura: per me l'inquadratura è la chiave di volta del linguaggio cinematografico, perché non c'è cinema se non c'è la consapevolezza dell'inquadratura. Il cinema è inquadratura! Poi è anche sequenza, tempo, è anche ritmo, musicalità dell'immagine, ecc. Ma l'elemento chiave del linguaggio cinematografico è l'inquadratura, e questo non lo dico io ma l'hanno detto i fratelli Lumiere, lo dicono coloro che hanno inventato il cinema. Se vuoi prendete le migliaia di film dei Lumiere scoprirete che ognuno di questi altro non è se non una grande ricerca sull'inquadratura, dove il rapporto tra base e altezza del rettangolo dell'inquadratura, diagonali e mediane, è un rapporto di controllo costante e tutta la composizione interna delle figure che, nella realtà, si muovevano liberamente, rispondevano perfettamente a delle linee interne compositive perfettamente rigorose, geometriche. Pensate a L'ARRIVO DEL TRENO: l'arrivo del treno si muove sulle diagonali, è una struttura compositiva la cui architettura è all'interno della diagonali del rettangolo. Questo rapporto tra sguardo, architettura interna del rettangolo e realtà è il cinema: il cinema è questo. Se un autore cinematografico non passa attraverso questo percorso non fa cinema ma semplicemente impressiona della pellicola.
A questo punto che cos'è per me l'inquadratura? L'inquadratura è la consapevolezza del perché la m.d.p. è lì e non da un'altra parte: a coscienza etica ed estetica della scelta.
E' stato Rossellini ad avermi illuminato su tutto questo: i giorni che ho passato vicino a lui sono stati per me forse il momento più importante della mia formazione di regista. Lui aveva un atteggiamento scientifico, faceva un cinema scientifico, intendendo per scientifico un atteggiamento identico allo sguardo del biologo che attraverso il microscopio studia i comportamenti dei microrganismi. Dunque: il biologo non si pone un problema estetico ma di conoscenza; la distanza, l'angolazione e il punto di vista che sceglie deve essere funzionale alla comprensione di ciò che sta analizzando. Attraverso questo ragionamento di Rossellini era possibile arrivare alla formulazione di un postulato: un oggetto può essere ripreso da infiniti punti di vista, ma ce n'è uno solo giusto, quello che dà il maggior numero di informazioni sul soggetto stesso. Alla fine io devo trovare il punto di vista, devo piazzare da m.d.p. proprio in quel punto nel quale il soggetto dà il massimo della sua potenzialità espressiva. La cosa è interessante è che nel momento in cui trovi quel punto scopri che è anche il più bello: la bellezza è un dono che la natura ti dà nel momento in cui scopri il punto di vista più funzionale. Non faccio un discorso di oggettività ma di soggettività consapevole, per cui tutte quelle inquadrature da lontano, da vicino, dall'alto, ecc. che avete visto in GOSTANZA DA LIBBIANO era tutte determinate da un problema di conoscenza, nato dalla volontà di comprendere quale fosse il punto di vista attraverso il quale il soggetto forniva il maggior numero di informazioni. Ad esempio l'inquadratura della tortura riflessa, quella dell'ombra, era funzionale alla ricerca del maggior numero di informazioni: non c'era solo il problema di raccontare la tortura, ma anche il problema di raccontare qualcos'altro, ovvero che questa donna fosse anche crocifissa; e infatti quella è anche l'immagine di una crocifissione. Ecco allora perché quel punto di vista - che è poi quello della corda, dell'appeso - era anche quello grazie al quale lo spettatore poteva ottenere non solo le informazioni tecniche ma anche quelle allusive, simboliche".

KMX: Il suo - per quanto la definizione sia oltremodo forzata - è, in un certo senso, con definizione mutuata da un genere americano, un "cinema giudiziario". Questo tipo di cinema, in linea di massima, è costruito sulla base del continuo ricorso al flashback, data la necessità di ricostruire gli avvenimenti che hanno portato al procedimento giudiziario che è alla base del racconto vero e proprio. Lei, al contrario, non ha usato il flashback: ha legato tutti i riferimenti al passato al discorso diretto di Gostanza…

PB: "Certo! E' stata una scelta precisa, fatta a monte e persino contro le opinioni di molti amici e collaboratori. La scommessa del film è l'attore: deve essere l'attore a far vedere queste cose, attraverso la potenza evocatrice delle sue parole. O l'attore esiste e quindi lo mettiamo al centro dell'inquadratura con tutte le sue potenzialità espressive, oppure è solamente un oggetto e quindi, per raccontare le storie, è giusto usare il flashback. Ma dal momento che io credo nell'attore, nel suo lavoro, credo che un grande attore sia in grado di farti vedere ogni cosa, tutto quello che vuole. E non lo dico solo perché credo nei grandi attori, ma perché credo in mia nonna: mia nonna, quando ero piccolo, mi raccontava le favole, e quando lo faceva io vedevo il lupo, Cappuccetto Rosso, il bosco: vedevo tutto. E allora, se mia nonna era capace di tutto questo perché non dovrebbe esserlo un grande attore? Questa è la scommessa: una scommessa che presuppone però anche una grande stima nei confronti dello spettatore. Non ci dimentichiamo che il cinema di oggi disprezza gli spettatori, li violenta e sputa continuamente loro in faccia: io credo invece che lo spettatore abbia la sua dignità e la sua intelligenza e cultura, e che spesso sia molto più intelligente di me che faccio il film. Io devo rendere conto del mio lavoro allo spettatore e rispettarlo e, in più, chiedergli di diventare complice del mio percorso: solo se io ho uno spettatore attivo, partecipe, critico e pronto ad emozionarsi, allora io attraverso il mio cinema creo un tutto che va oltre il mio film e diventa una sorta di miracolo tra la sensibilità di chi guarda e quella degli attori attraverso il gioco del cinematografo, del buio, della sala, delle luci, delle ombre. E' una sorta di sintesi in cui lo spettatore diventa in qualche modo protagonista delle sue stesse emozioni, della sua esperienza.
Per quanto riguarda poi un discorso più in particolare, gli spettatori sono stanti mentre io sono solo: io posso avere un'esperienza ovviamente limitata, ma in una sala di cento persone ci sono cento esperienze, per cui mi trovo di fronte una vastità incredibile di conoscenze. Vi faccio un esempio: se io faccio un film storico, in costume, e metto ad un personaggio del 700 un paio di scarpe dell'800, in sala ci sarà sicuramente uno, che magari fa il calzolaio per cui ha una cultura tra virgolette limitata, però sulle scarpe avrebbe da dire molte più cose di qualsiasi professore universitario. Se vede che le scarpe che ho messo in scena - perché è lì che lui andrà a vedere, perché ogni spettatore riconosce ciò che conosce - non sono corrette si va oltre la semplice mancanza di rispetto nei suoi confronti, perché dirà: "ma come, se su questa cosa in cui ho esperienza lui mi prende in giro, chissà quanto lo fa nelle cose che non capisco, per cui non mi fido!". Allora io devo fare un lavoro immane, enorme: qualsiasi cosa io faccia vedere io devo assolutamente rispettare colui che su quella cosa è un esperto. Quando ciò accade, chi capisce di essere rispettato sa anche di essere di fronte a qualcuno che, col suo lavoro, può insegnargli anche qualcosa che non sa. Ecco, se questo è rigore allora io sono un regista rigoroso".

KMX: Ecco: dal momento che ci sono altri registi che vengono ritenuti "rigorosi" - anche se a nostro avviso, pur ripetendoci, ci sembra soprattutto sul cosa e non sullo stile - ci sembra però che, in mancanza di un'onestà intellettuale tale da presupporre un simile lavoro, si preferisca invece non caratterizzare l'ambito culturale. Facciamo ancora una volta l'esempio dell'ultimo film di Moretti, LA STANZA DEL FIGLIO: il cinema italiano, per raggiungere un ascolto maggiore, per superare i confini nazionali, fa una scelta di "universalità generica": temi come la morte, il dolore, non supportati da scelte caratterizzanti, sono appigli un po' troppo facili. Se adesso stiamo vivendo, proprio in ragione di questo, un periodo in cui qualcuno parla addirittura di "rinascita del cinema italiano", ci sembra che una volta - proprio con Rossellini, ecc. - quando il cinema nostrano viveva un periodo di universalità, quella particolare universalità fosse anche particolarmente specifica…

PB: "Sono assolutamente d'accordo! Io vengo da quell'esperienza, da quella cultura, al punto che - proprio come avrebbe fatto Rossellini - quando, in GOSTANZA DA LIBBIANO, ho avuto bisogno di rappresentare in maniera precisa la Chiesa, un inquisitore ho usato un vero prete: il primo inquisitore che si vede nel film, padre Valentino Davanzati, è un prete vero, che ha prestato il suo volto e la sua esperienza al personaggio di Soffia, questo inquisitore del Cinquecento. Questa attenzione alla particolarità mi viene proprio dalla grande lezione di Rossellini, ma la grandezza del cinema di Rossellini in che cosa consisteva? Nel fatto che lui partiva da un presupposto per cui la verità è sempre più forte di qualunque ricostruzione. Il gesto di un operaio che lavora da vent'anni alla catena di montaggio sarà sempre più forte di quello di un attore che finge: se penso ad EUROPA '51, dove la Bergman viene portata alla catena di montaggio e c'è quel momento in cui lei è accanto ad una vera operaia, Rossellini fa proprio vedere l'impaccio della donna borghese rispetto all'operaia, e in questo c'è una ricchezza incredibile dal punto di vista narrativo e soprattutto emozionale.
Il problema è - come già dicevo - che il cinema italiano è malato di superficialità, di pressappochismo e presunzione: questo è il vero problema, assieme al fatto che qualcuno abbia deciso che l'ombelico del signor Nanni Moretti è più importante di molte altre cose. Siamo ancora là, da vent'anni, a girare attorno all'ombelico di Nanni Moretti e a dire che quello è il cinema italiano. Io non sono d'accordo.

KMX: Ma allora, a questo punto, il cinema che possibilità, che compiti può avere, come può rieducare lo sguardo del suo spettatore che è diventato generico? A volte si ha il sospetto che i registi, per disperazione, non facciano altro che adeguarsi a questa genericità dello sguardo…

PB: "E' vero, è giusto succede proprio così. Ma non bisogna accettarlo, non bisogna adeguarsi. Non si deve scendere a nessun compromesso e bisogna, come si dice dalle mie parti, rompere i coglioni. Io, per esempio, mi sono fissato: giro solo nel formato 1:1.33, pur sapendo benissimo che nelle sale cinematografiche italiane questo formato non esiste più. E io, tutte le volte, vado lì, in cabina, dal protezionista, e lo costringo a fare lo sforzo intellettuale e culturale di ritirare fuori il vecchio obiettivo, il vecchio mascherino per ridare al film il formato giusto, che è poi il vero formato del cinematografo, inventato dai fratelli Lumiere. Questa mia resistenza rispetto ad una cosa apparentemente secondaria, come la forma del rettangolo dello schermo, è in realtà una scelta ideologica precisa: è una scelta di resistenza, perché occorre resistere.
Questa resistenza, da sola, però non è sufficiente. Ci sono altre due cose da fare - e in questo senso, in quanto giovani e come rivista, faccio anche voi un invito - e, in primo luogo, una battaglia costante e quotidiana per la denuncia della mafia che governa la distribuzione cinematografica italiana. La distribuzione cinematografica italiana è gestita dalla mafia, e non sto scherzando, nel senso che il sistema distributivo è esattamente lo stesso sistema che è stato inventato nel 1943-44 dagli Stati Uniti quando sono sbarcati in Italia. Per sbarcare in Sicilia, gli USA si sono alleati con la mafia italo-americana e grazie a questa alleanza è stato possibile occupare il Sud Italia senza sparare un colpo o quasi: il prezzo di questo compromesso lo stiamo ancora pagando, perché la mafia ha potuto vivere e svilupparsi in Italia senza che nessuno seriamente intendesse combatterla. Perché, fin da allora, la mafia era seriamente collegata al sistema politico: gli USA, al momento dello sbarco, si fidavano solamente di due istituzioni italiane, la mafia e la chiesa. E' per questo che hanno dovuto inventare un partito che rappresentasse entrambe queste istituzioni, ed è ovviamente la Democrazia Cristiana: la DC ha governato per cinquant'anni in Italia perché l'America si fidava delle due realtà da essa rappresentate. All'interno di questa storia, nel 1947, noi abbiamo firmato un trattato di pace: e non dimentichiamoci che, allora, noi eravamo una nazione vittoriosa perché, in qualche modo, Badoglio si era alleato con gli americani. Bene: il nostro trattato di pace è più penalizzante di quello tedesco. In uno degli articoli di questo trattato l'Italia ha sottoscritto una clausola per cui il cinema americano aveva il diritto di occupare il 90% degli schermi nazionali, e questa clausola era un impegno per mezzo secolo. Questo impegno è decaduto nel 1997, ma il signor Veltroni - che all'epoca era vicepresidente del Consiglio e responsabile per i Beni Culturali - ha rifirmato quell'impegno, per cui ce lo ritroviamo per altri cinquant'anni. Questa è la cosa che non si dice abbastanza e invece bisognerebbe dirla! Questa organizzazione mafiosa della distribuzione italiana obbliga i registi sottostare a queste regole, per cui il rimanente 10% delle sale italiane è da suddividere tra tutte le altre cinematografie, per cui potete immaginarvi se può rimanere spazio per un cinema alternativo come quello che propongo io: è praticamente impossibile. Se io riesco a conquistare uno schermo è già una vittoria! Se poi, come è successo con GOSTANZA DA LIBBIANO, ne conquisto cinque è un trionfo: il fatto che il film sia uscito a Roma, a Milano, a Firenze e a Torino è molto, quando io parlo di resistenza parlo di questo, non parlo in astratto. E' una guerra in corso tra formazioni partigiane e formazioni di occupazione.
L'altro problema è la scuola: in Italia non esistono scuole di cinema. La Scuola Nazionale di Cinematografia CNC…

presto su KMX la seconda parte...



Andrea DE CANDIDO
Gabriele FRANCIONI