
KINEMATRIX: Di cosa si sta occupando in questo momento
GIANNI AMELIO: Sto scrivendo un film che dovrei girare alla fine
dell’estate, ma non posso dirti di più perché non so nemmeno
io bene cosa verrà fuori. Sono praticamente alla prima stesura
della sceneggiatura. So per esperienza che mentre scrivo mi vengono idee
diverse, nuove. E so anche che mentre giro, il film sarà ancora
diverso dalla sceneggiatura. Riprendo a lavorare dopo molto tempo non
per problemi dovuti a quella che di solito viene definita “stasi creativa”.
In realtà durante questi anni ho tentato di realizzare delle cose
che poi non sono andate in porto per questioni legate a problemi produttivi
che ora spero siano finiti.
KMX: Qui al meeting di Bergamo in questi giorni è stato
proiettato il suo COLPIRE AL CUORE, il suo primo film per il cinema tra
l’altro girato proprio a Bergamo. Rispetto ad allora, come è cambiato,
se è cambiato, il suo modo di avvicinarsi ad un novo film. C’è
maggiore consapevolezza, più sicurezza dei propri mezzi o è
sempre una nuova avventura che non si sa mai bene in dove andrà
a finire.
GA: Rispetto ad allora ho acquisito una sicurezza di tipo più
emotiva nei confronti del progetto film in se. Allora ero al mio primo
film ed era abbastanza naturale che avessi dei timori anche non strettamente
legati al fatto puramente creativo, dovevo dimostrare qualcosa mentre
adesso non devo più dimostrare niente.. Oggi sono anche più
saggio. Non penso che siano finiti i problemi ma penso che abbiano cambiato
natura.
KMX: In COLPIRE AL CUORE c’è gia molto del suo cinema successivo.
Penso al rapporto difficile tra un adulto e una persona più giovane
che poi ritornerà in film come IL LADRO DI BAMBINI, LAMERICA o
anche in COSI’ RIDEVANO. Inoltre in questi film emergono fortissime certe
problematiche legate al contesto storico-sociale del momento come il terrorismo
o il problema dell’immigrazione e così via. Nei suoi film ha funzionato
molto bene questa rappresentazione della “Storia” con la S maiuscola “filtrata”
però sempre attraverso una vicenda personale, intima. È
un modo di parlare di certe problematiche sociali senza scadere nella
retorica tipica del cinema di “impegno civile”. Cosa mi può dire
al riguardo.
GA: Io trovo un po’ ricattatorio fare un cinema che si presenti
al pubblico forte per il fatto che tratta un tema sociale importante.
Mi pare sconveniente ricattare il pubblico dicendo “adesso io ti sto facendo
una lezione su questa cosa che ti deve interessare per forza perché
descrive un fatto importante come può esserlo il terrorismo, l’immigrazione”
eccetera. Qualunque evento di natura pubblica finisce per avere delle
ripercussioni sul privato. Chi fa il mio mestiere deve fare i conti con
il proprio tempo, sente l’aria che tira ma non deve credersi superiore
agli altri e dare delle lezioni agli altri. Più che insegnare qualcosa,
penso che sia importante che un film ti spinga a porti delle domande.
Allo spettatore non “serve” un film che da delle certezze ma che gli pone
di dubbi, che gli pone delle inquietudini. Siccome io ho la possibilità
di raccontare delle storie, inevitabilmente in esse si sente l’aria del
tempo. Sono storie intimistiche in cui la storia personale si fonde con
quella sociale come del resto accade in ognuno di noi. In IL LADRO DI
BAMBINI non volevo fare un film sull’infanzia abbandonata. Volevo raccontare
la sofferenza dei rapporti umani in generale. E’ come se in quei tempi
si sentisse un bisogno di pulizia, un bisogno di nuova aria da respirare
e questo lo ho raccontato in una storia piccola piccola di un carabiniere
che accompagna due bambini distrutti dagli eventi della loro famiglia.
Riguardo a LAMERICA, non intendevo sondare il problema degli albanesi
che arrivano a migliaia su una nave, ma è un film che cerca di
riflettere su come noi viviamo un tale evento. È un film sull’Italia.
In noi c’è ancora il problema del rapporto con gli altri che arrivano
nelle nostre città. La memoria storica, che agli italiani fa difetto
spesso e volentieri, dovrebbe suggerirci che anche noi abbiamo vissuto
certi problemi. In quel film si voleva gettare un ponte ma non tra Italia
e Albania ma tra due Italie. Quella di oggi che ha perso la memoria di
quello che è stata e l’Italia degli anni in cui per miseria e povertà
si cercava sbocco altrove. “Lamerica” del titolo si riferisce sia all’Italia
che cercano gli albanesi, ma anche il sogno, l’utopia, il porto di salvezza
che cercavamo anche noi italiani quando eravamo un popolo che aveva bisogno
di sopravvivere. In COSI’ RIDEVANO il problema dell’emigrazione interna
viene vissuto non come ritratto storico che si limita solo a quegli anni,
anni comunque importanti a cavallo tra i ‘50 e i ’60 che hanno significato
il passaggio da una società contadina ad una industriale, ma è
anche una riflessione sull’oggi. Oggi che l’Italia è una nazione
ricca, una nazione che ha superato i problemi di allora, forse scontiamo
un prezzo per quello che è diventata. Probabilmente, dico nel mio
film, abbiamo dovuto sacrificare al benessere che oggi abbiamo, qualche
sogno più sottile che forse ci siamo pure dimenticato di aver avuto.
In quel film si parla molto della forza liberatrice della cultura, dei
libri, dei tesori che ci sono nascosti nei libri, del riscatto che puoi
avere attraverso i libri. Oggi questo voglia di riscatto non c’è
più e magari oggi uno ti ride in faccia se poni certi valori davanti
ad altri.
KMX: Veniamo al “mestiere di regista”. Ci racconta come è
giunto a questa professione. È stato un obiettivo fortemente voluto
o ci si è trovato per caso.
GA: Sarò franco, non ho mai dubitato in nessun momento della
mia vita che non avrei fatto il regista. Nemmeno da ragazzino. Già
a dieci, undici anni andavo dicendo che da grande avrei voluto fare il
regista anche se allora non sapevo bene il significato del termine, come
non lo sapevano coloro che mi stava intorno. Del resto erano anni lontani,
ti parlo degli anni cinquanta, per di più in una provincia del
sud, un piccolo e sperduto paese di montagna dove non c’era nemmeno una
sala cinematografica. Ed erano anni in cui non c’era nemmeno la televisione.
Eppure io mi innamorai subito del cinema, mi è bastato andarci
una o due volte quando i miei genitori mi portavano a Catanzaro; mi sono
detto che quello era ciò che avrei voluto fare. Per me non era
uno scherzo. Crescendo, questa mia convinzione è diventata un obiettivo
concreto. Ho cominciato come critico, scrivendo recensioni. Mi ricordo
che le mie prime recensioni le ho scritte a quattordici anni e a sedici
gia avevano pubblicato alcuni miei pezzi. Da questo punto di vista sono
stato molto fortunato ma anche molto intraprendente. Anche l’università
è stata un mezzo per arrivare a questo mestiere. Ho scelto Filosofia
ma se al tempo fosse esistito il DAMS ci sarei andato sicuramente. Lo
sbocco pratico lo ho trovato facendo l’assistente volontario, il tuttofare,
quello che va a compare le sigarette, ovvero la gavetta. Ho cominciato
a fare queste cose a diciannove anni e poi non ho mai smesso. Ho fatto
cinque anni di gavetta, poi ho fatto televisione fino a quando ho cominciato
ha scrivere per il cinema. Soggetti, sceneggiature anche sotto falso nome
per sopravvivere, poi i cortometraggi. Al cinema vero e proprio sono arrivato
nell’82 con COLPIRE AL CUORE, avendo cominciato a lavorare nel cinema
nel ’65, ben diciassette anni dopo. Prima avevo fatto cose per la televisione
anche rispettabili. Comunque è stata una gavetta dura, non ho improvvisato
niente, non ho cercato ne potuto correre o precorrere i tempi. E cosi
sono arrivato al cinema in una età non proprio verdissima. Successivamente
ho fatto anche altre cose. Queste altre cose le ho fatte perché
le volevo fare, venendo sempre a patti con gli inevitabili compromessi
che poi si hanno in questo mestiere. Perché non si deve credere
che questo sia un lavoro che si deve per forza fare in libertà.
Io penso che la libertà vera di questo mestiere sia scegliersi
le sbarre giuste per la propria prigione, oppure le catene fatte di un
certa metallo, ma essere liberi di poter creare ciò che vuoi non
significa nulla, anzi può essere anche controproducente. A volte
il consiglio di qualcuno che ti indica una strada percorribile, che ti
offre uno spunto su cui lavorare può essere essenziale per poi
poter costruire qualcosa di importante. Non penso che ci sia questa immagine
del regista artista da mettere sotto una campana di vetro o sopra un piedistallo.
Chi fa il regista è a suo modo un po’ “bastardo”, perché
fa un mestiere che è composto di tanti altri mestieri insieme,
deve avere tante competenze. Non è un artista e non è un
artigiano ma tutte e due le cose insieme. È un lavoro in cui si
deve sempre fare i conti con il danaro, con i costi delle cose. Uno scrittore
può scrivere il suo libro e il suo libro esiste anche se non trova
un editore che lo pubblica. Un film non esiste se non trovi i mezzi economici
per realizzarlo. Questa è la difficoltà specifica di questo
mestiere. Non sei regista se non fai un film ma per essere regista ti
devi muovere in tutta una serie di gineprai che sono non di natura pura
e aulica ma cose estremamente pratiche. Devi essere anche una persona
molto pratica, far tornare i conti, devi portare i soldi a casa altrimenti
altri film non ne fai più. E’ un mestiere strano, fatto di tante
abilità, non definibile e nemmeno insegnabile, anche se esistono
Scuole di Cinema. Qualcuno lo può imparare e non smette mai di
imparare. È affascinante anche per questo, ti ci puoi buttare dentro
con totale ignoranza per poi imparare strada facendo.
KMX: A proposito della libertà di un regista, come sono
i suoi rapporti con i produttori?
GA: La mia esperienza mi dice che non è una cosa che io
devo cercare in natura come esistente il cosiddetto produttore “illuminato”
che per amore del cinema ti da i miliardi e ti permette di fare il tuo
lavoro in totale libertà.. Uno così mi farebbe paura, così
come mi farebbe paura un produttore troppo colto. Per me il produttore
deve essere uno che sa fare i conti, un praticone, che è giusto
che ci voglia guadagnare su quello in cui investe. Poi devi sapere che
non esiste qualcuno che mette soldi di tasca propria in un film, non funziona
così in realtà. C’è semplicemente qualcuno che riesce
a trovare soldi altrui per fare qualcosa che si chiama film e dalla quale
cosa comunque lui ci guadagna già. Non c’è produttore che
non intaschi già prima di fare il film una fetta dei soldi che
ha trovato. I soldi può averli trovati bussando a qualche televisione,
andando da qualche banca, oppure attraverso finanziamenti pubblici sfruttando
certe leggi sul cinema che consentono sia agli esordienti sia ai cosiddetti
autori di poter fare dei film con dei prestiti pre-lavorazione.. Non esiste
la figura di quel produttore che poi va a chiedere l’elemosina se gli
fai perdere dei soldi, perché non si metterà mai nella situazione
di poter perdere dei soldi. Io penso che anche il regista debba saper
essere un po’ produttore di se stesso, anche se io personalmente quando
giro preferisco che siano altri ad occuparsi di queste cose. Io e il produttore
in realtà ci occupiamo di due facce della stessa medaglia, vorremmo
fare entrambi la stessa cosa ovvero fare un film non disprezzabile, non
volgare, non ignobile, non brutto e che abbia anche dei spettatori che
lo vadano a vedere. Far quadrare il cerchio non è facile e a volte
le cose vanno male e in quel caso non è colpa di nessuno.
KMX: L’ultimo bel film che ha visto?
GA: Avrei voluto vederlo al cinema qualche anno fa ma ero occupato
con le riprese di COSI’ RIDEVANO. Ho potuto comunque vederlo poco tempo
fa in tv. Si tratta di TEATRO DI GUERRA di Mario Martone
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