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SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO

IL VELO NERO DEL PASTORE

di Romeo Castellucci

Liberamente ispirato alla novella di Nathaniel Hawthorne

Musica di Scott Gibbons
Con: Silvia Costa e Diego Donna
 

Giovedì 17 novembre
Ore 20.30 – Teatro Ariosto (Reggio Emilia)

 

di Giovanna ORI

 

28/30

 

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Dal cataclisma che tutto iniziò la materia deflagra e si ricompone in moto perpetuo, scultura sonora, vivant face à nous. Ecco così l’abbrivio prende forma e stupore percuotenti.

 

<<”Non riesco davvero a immaginarla, la faccia del buon reverendo Hooper, dietro a quel pezzo di crespo”, osservò il sagrestano. “Non mi piace”, brontolò una vecchia, zoppicando dentro il luogo di culto. “Si è tramutato in qualcosa che fa paura solo nascondendosi il volto”. “Il nostro parroco è impazzito!”, esclamò Goodman Gray, seguendolo oltre la soglia.>> [1]

 

Il sipario indietreggia come a prendere rincorsa. Il sipario non apre, a dire il vero pulsa, si protende in avanti per meglio retrocedere. Ci inghiottirà, attraendo e risucchiando. Oramai sei con lui, sipario-tenda-blu-Spectator. Il drappo serra la bocca del palcoscenico e poi la libera, perché ora corre all’indietro. I corpi crudi sguisciano fuori, da sotto il drappo quasi senza testa: corpo animale caprino e corpo donna inerme. I corpi si alternano, enunciati del tendaggio pregno. Il teatro li crea e li risputa nel dondolio titillante del drappo.

 

Vibrazione totale, sconquasso senza fine.

Il rigurgito è la cifra, istruzione di ascolto inscritta nel testo.

 

Ecco la ragazza spoglia. Svelata di spalle, a distendersi sotto la bacheca popolata  di topi. Il soma ed i topi. Il corpo soggiace percorso da caducità crudele.

 

<<Da sotto a quel velo nero si alzava perciò alla luce un’ambigua cappa di peccato e rimorso che avvolgeva il povero pastore, tanto da impedire che affetto e simpatia potessero raggiungerlo. Si diceva anche che lì sotto spettri e demoni si annidassero accanto a lui. Tra tremiti interiori ed esterne paure, il pastore camminava continuamente al’ombra del suo velo, brancolando nel buio della sua anima, oppure scrutando il mondo attorno a sé attraverso quella cortina che lo immalinconiva. Persino il vento senza legge, si diceva, rispettava il suo spaventoso segreto, e mai un suo alito sollevava quel velo>>[2]

 

Il sipario apre orizzontale a noi inglobati da fuori.

Tempesta di lampi e incursioni di croci di luce. Strazio di donna e botti a ripetizione: instabilità. La deflagrazione la percuote e la getta riversa su sé stessa, più di cinquanta volte. Il candore della camicetta si tinge di sangue.

 

Lui arriva e sono vicini, poi è lui da solo lì davanti: la deflagrazione riprende il suo giro, più di cinquanta volte. Scorre per noi le mot “LoveSong”, scolpita nella nebbia che avvolge l’orizzonte e ci benda gli occhi.

 

Brusio ovattato per la vestizione rituale dell’ uomo che si immola al velo nero, mini sudario.

 

La macchina-deus entra e avanza in direzione della platea. Dirige imponente dall’alto il luminoso l’oblò-rosone, segno di ammiraglia supremazia: la chiesa, casa di Dio. Lacera il buio e trascina con sé un’aurea di fremito, che pervade al di là, da noi, oltre la scena.

 

Il mostro avanza con spifferi di fumo lancinanti. Pensiamo ad un drago alitante: botti e sconquassi, futuristici olezzi sonori.

 

<<In tal modo il reverendo Hooper trascorse una lunga vita, esteriormente irreprensibile, ma circondata da foschi sospetti: dolce e amorevole, sebbene non amato e oscuramente temuto, era un uomo separato dagli altri uomini, da loro scansato quand’erano felici ed in buona salute, ma sempre chiamato in loro soccorso al momento della mortale agonia.>>

 

L’uomo è senza più sguardo, inghiottito dal Nautilus acefalo, dissolto nel telaio animato. Ascesa del peccato come riflesso pervasivo.

 

<<”Perché tremate soltanto per me?”, esclamò, volgendo il viso velato intorno alla cerchia degli spettatori impalliditi. “Tremate anche l’uno dell’altro! Gli uomini mi hanno scansato, le donne non hanno mostrato alcuna pietà, i bambini sono fuggiti gridando, e soltanto per il mio velo nero!”>>[3]

 

Luci infilate, disposte contro il sipario chiuso, esplodono una ad una nel tremolio del suono.

 

Canti di uccelli come Cantico delle Creature.

 

Si conclude così, al buio, nel distacco da sofferenze e peccati che dal mondo terreno riflettono e trasudano.

 

<<L’erba di molti anni è cresciuta ed è appassita su quella tomba, la lapide è coperta di muschio e il volto del buon reverendo Hooper non è che polvere, ma ancora fa paura pensare che si è dissolto sotto quel velo nero.>>[4]

 

I due testi, teatrale e letterario, poggiano su piani distinti e mai lontani. Non si riducono l’uno all’altro. Vivono di luce propria. Prefigurano abissi che si profilano in caduta libera, per dirci dell’ irriducibilità del senso che si genera dalla scena/sottosipario.

 

Il teatro come addensamento sull’orlo del precipizio, dondolio di riflessi che smantella i piani della significazione. I protagonisti, gli attori col pubblico intero, aprono, dipanano e attivano il rito del sentore comune. Una specie che non si da pace.

 

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([1] IL VELO NERO DEL PASTORE. Parabola, Nathaniel Hawthorne, dal libretto/opuscolo dello spettacolo, pag.6
[2] Op. cit. pag. 15
[3] Op. cit pag. 17

[4] op. cit. pag 17

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