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CSS Teatro stabile di innovazione
del Friuli
Venezia Giulia LA CACCIA
di Luigi Lo Cascio Vincitore del Biglietto d'oro per il teatro 2008
Udine,
28/02 - 01/03 2010
Nicola Console, Luigi Lo Cascio,
Alice Mangano, Desideria Rayner |
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di Simona PACE |
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La parola e il gesto, la voce e il corpo
dell'attore, si trasformano ne "La Caccia", personalissima e acuta rilettura
che Luigi Lo Cascio propone dell'ultima e più complessa tragedia euripidea
"Le Baccanti", in piacere aptico, in esperienza vivida, corposa, quasi
esigenza tattile. Lo spazio immersivo, supportato da un'originale e sofisticata scenografia, riduce la distanza prossemica tra palco e astanti, e quella interpretativa tra testo e spettatore, chiamato ad accogliere, immergendosi in una pura soggettività, il punto di vista del protagonista Penteo, tiranno di Tebe. L'uso metonimico della prospettiva isolata di un unico personaggio, tradotto in scena in graffiante monologo, giustifica allo stesso modo la scelta del tema trattato, la caccia, e la concreta necessità di decidere un'unica variazione e di percorrere una delle tante direzioni tracciate dal testo originale di Euripide scontando, come evidenzia lo stesso Lo Cascio, l'impossibilità di una rappresentazione omnia, totale e totalizzante dei motivi tutti della tragedia. La caccia, quindi, il leit motiv di questa imponente ed elegante riscrittura, capace di rivisitare e scavare nella profondità del mito senza mai esaurirne né tradirne l'essenza, rivelandone anzi la capacità di attualizzazione e di decrittazione della contemporaneità. Caccia come volontà di accerchiare, di stanare, catturare la preda; come gioco dialettico, scontro tra persecutore e perseguitato: Penteo e Dioniso, l'uomo e il dio, entità ineffabile per definizione. Il giovane sovrano di Tebe, forte dello spirito razionalistico e apollineo pilastro della civiltà greca classica, rifiuta di adeguarsi al culto di Bacco foriero di scompiglio e indecenza e ne disconosce le origini divine (Dioniso dio del vino, del teatro, del piacere fisico e mentale, secondo la leggenda, nasce dall'unione tra Zeus e Semele, donna mortale) arrivando a intentarne la caccia appunto, che si configura e prefigura come concreta e irreparabile ossessione. Tormentato dall'inquietudine, Penteo da cacciatore diventa vittima di ciò che prima combatteva e quindi necessariamente di se stesso. Il confronto con Dioniso, qui fantasma mentale e bisogno che lo seduce velatamente, scardina la sua coscienza granitica, la sua solida posizione conducendolo irrimediabilmente verso la follia e la morte. Al ribaltamento del rapporto di forza delle due figure corrisponde anche un capovolgimento tragico della dimensione dell'eroe: da sempre preservato dai codici del mito, adesso è umiliato, deriso e definitivamente sconfitto. Ma la caccia è qui, anche e soprattutto, metafora della visione. I due antagonisti sono a loro volta gli elementi costitutivi del processo percettivo, si configurano come soggetto e oggetto scopico, il cui sovvertimento nella logica della caccia, è inevitabile. Se prima era lo sguardo a fondare e modellare l'immagine, adesso è l'immagine che costruisce l'occhio che la vede. Le immagini proiettate sulla lavagna/schermo multimediale, trovata scenografica innovativa e sofisticato apparato visivo con il quale l'attore e lo spettatore dialogano costantemente, conferiscono un'indubbia evidenza alla fattualità dello sguardo annebbiato e distorto di Penteo, compromesso dall'intervento della divinità e ne esplicitano le disfunzioni della visione. Le vertigini, le sfocature, le allucinazioni suggerite attraverso la video arte (e l'utilizzo del suono elettronico) permettono allo spettatore di penetrare e addentrarsi nella soggettività stravolta e ormai guasta del personaggio protagonista, proiettandone gli incubi, i desideri più intimi e le pulsioni profonde. Vedere e vedersi dunque, istituire il processo di percezione dell'Identità sull'atto della visione. E la caccia diventa quindi scontro tra Identità e Alterità. L'Altro è lo Xénos, l'Hostis, è il nemico, lo straniero, altro da noi stessi ma anche irrimediabilmente dentro di noi. Dioniso è il dio straniero per eccellenza, è oggetto scopico sfuggente e soggetto di uno sguardo indecidibile. E' l'Altro che scardina la scorza della ratio indebolita, è un fantasma circolante senza forma o confini. Si nega allo sguardo, dissimula la propria presenza, sfugge; non compare mai sulla scena. E' una figura liminale, comunque seduttiva. La scelta di Lo Cascio, abile orchestratore e attento regista, di esibire l'irrapresentabilità di Dioniso, dio ibrido, duplice, insieme divina mania e follia distruttiva, si incastra perfettamente con le ragioni della postmodernità, rimandando appunto allo scenario epistemologico contemporaneo, a quella sorta di modernità liquida, come la definisce Zygmunt Bauman, in cui ci si confronta con la sindrome “dell'eclisse del nemico”. Se prima, il controllo dell'Altro coincideva con un atto di appropriazione e definizione morfologica che lo rendeva analogo all'Identico (ecco perchè tanti nemici antropomorfi nella storia classica e moderna della letteratura e delle arti), adesso il nemico è invisibile, indistinto e indeterminabile, è anche in noi. La Caccia ha la sorprendente capacità di trasfigurare l'antico e la tragedia per renderli attuali, vivi, per arrivare allo spettatore di oggi, qualsiasi tipo di spettatore. Penteo non è solo l'ombra, l'evocazione di un personaggio mitico, è anche (e qui ancora la bravura di Lo Cascio nell'intrecciare e tessere mondi e ragioni distanti) individuo frantumato e disorientato, soggetto postmoderno. Quel soggetto che, ancora, Jameson definisce schizofrenico, confusamente euforico, insidiato dal “sublime isterico”, prodotto di una società senza più pilastri (quella che ricorda il fallimento degli ideali dell'Umanesimo greco) in cui la contraddittorietà diventa convivenza, inclusione, contaminazione. In una dimensione in cui la collettività viene rigorosamente a mancare a sfavore dell'emergere solitario dell'uno, confuso e irrisolto, la funzione conoscitiva del coro, voce della comunità, nella struttura della tragedia e il suo intervento risolutivo oltre che esplicativo ed etico, lascia il posto a moniti impersonali, brandelli grotteschi, contrappunti demistificatori: i “coroselli”, parodiche pubblicità, che frammentano la narrazione rendendola ancora più contingente e squisitamente originale. La presenza ossimorica poi, puramente multimediale, del personaggio dell'erudito studioso del mondo greco, impersonato da uno straordinario Pietro Rosa, ragazzino prodigio, afferma ancora in maniera giocosa e piacevolmente irriverente l'impossibilità di penetrare e “catturare” la materia tragica prima e la contemporaneità dopo, attraverso l'esercizio critico. Il presuntuoso ma simpatico giovanissimo ermeneuta si rivolge allo spettatore garantendo di risolverne i vuoti conoscitivi (assolutamente voluti dall'autore) del testo, assicurandone la comprensione. Comprensione che verrà invece interamente rilegata in superficie, nella stupefacente evidenza delle scosse emotive suggerite e nella superba capacità attoriale di Lo Cascio. La frammentazione, l'ibridazione di più linguaggi scenici e artistici che si traduce in intertestualità, in proteiformità e presentificazione del tempo rendono il testo, programmaticamente sperimentale (mirabili i giochi di creazione linguistica, anche attraverso l'uso degli endecasillabi) e volutamente corrosivo e lo spettacolo, rivoluzionari oltre che straordinariamente accattivanti. L'ultima notte di Penteo messa in scena da Lo Cascio diventa viaggio nella psiche umana, cortocircuito fruitivo dalle capacità sinestetiche e espressione di un'Arte pura, ancorata al visibile ma quasi strepitosamente tattile. |
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