elogio del dubbio

collezione pinault 2011-2012
Aprile 2011 / Dicembre 2012

Venezia, Punta della Dogana
 

di Elena BORGHELLO

 

 

Collegamenti rapidi: elogio del dubbio

Con questa esposizione, inaugurata il 10 aprile 2011 e aperta fino alla fine del 2012, la curatrice svizzera Caroline Bourgeois ha voluto essere chiara: chi cerca certezze o risposte è nel luogo sbagliato, qui il dubbio viene elogiato.
Prima ancora di entrare siamo accolti da un’alta statua in bronzo del tedesco Thomas Schütte, un uomo imponente il cui mantello gli blocca le braccia e lo rende incapace di reagire…l’anteprima non poteva essere più esplicita.
Subito dopo la biglietteria si accede allo spazio del guardaroba, molto neutro nonostante due disegni di Tatiana Trouvé che passano però inosservati. Non è la prima volta che Tadao Ando, l’architetto incaricato da François Pinault di restaurare Punta della Dogana, crea all’ingresso una sorta di luogo asettico, uno spazio di iniziazione, come un rituale tipico della sua cultura giapponese.
La prima sala è molto ampia ed è l’unica in cui sono presenti più artisti contemporaneamente; in genere infatti ad ogni artista è dedicata una sala, anche se i passaggi tra gli spazi personali sono sufficientemente aperti per consentire una comunicazione e per non perdere la visione dell’insieme.
Spicca subito il cavallo con la testa incastrata nel muro del padovano Maurizio Cattelan, trofeo capovolto già visto in passato ma la cui collocazione è stata modificata dalla curatrice attuale: ora l’impressione è che il cavallo stia saltando verso la laguna, non più verso la sala adiacente come nell’allestimento precedente, l’idea di fuga prevale su quella di tentare invano di saltare altrove.
La sala è poi occupata al centro e lungo le pareti dalle opere minimaliste del non-scultore (visto che non voleva definire i suoi lavori con la parola tradizionale “sculture”) Donald Judd: varietà di materiali, gioco tra pieno/vuoto, modulazione, protagonismo dell’oggetto rispetto allo spazio. Va segnalato che le opere in legno non sono appartenenti alla collazione Pinault ma richieste dalla Bourgeois perché necessarie, a suo avviso, a comprendere meglio l’opera dell’artista. Sicuramente una risposta, seppur parziale, a chi sostiene che questo spazio, così come Palazzo Grassi (altra sede della Fondazione Pinault) sia solo una vetrina eccessivamente autoreferenziale.
Sempre nella prima sala si ammira il canestro/lampadario dell’afroamericano David Hammons, un incrocio tra readymade ed Arte Povera.
Il percorso espositivo prosegue poi al piano superiore, dove ci si trova subito affacciati ad un bordello anni ’40, un quadro ambientale di Edward Kienholz esposto per la prima volta a Los Angeles nel 1962 con la possibilità di entrare e camminarvi all’interno, tra le donne (o meglio quello che resta delle donne) e gli arredi estremamente congeniali. Ora non si può più accedere, ma anche osservando la scena da fuori riusciamo a capire la visione violenta e grottesca che l’artista aveva della cruda società dell’epoca, carica di pulsioni inespresse.
Rimanendo sempre legati alla tematica sessuale, si passa alla sala successiva in cui Paul Mccarthy ci accoglie con due serie: pirati in bronzo con organi sessuali sul viso e donne nude senza identità, immagini forti, tipiche della sua espressione, che ben trasmettono l’idea di uomo-conquistatore e di donna-oggetto.
Dal sesso alla guerra, tenendo come fil rouge la violenza che diviene ora di gruppo, il belga Marcel Broodthaers, dedicatosi all’arte dopo una carriera già avviata come scrittore, divide la sala in due period rooms: la sala dell’Ottocento e quella del Novecento con relative scenografie belliche. Poco chiara, troppi elementi, il rischio è di perdersi nei particolari non cogliendo il senso generale dell’opera. Da qui però si ha una prima visione del cubo di Ando, fulcro centrale della Punta della Dogana e che quindi ammiriamo prima dall’alto.
L’inglese Thomas Houseago con il suo senso di trasformazione, di non-finito, di materialità lascia un po’scettici (d’altronde rientra sempre nell’idea di dubbio, no?...), ma poi è l’americana Roni Horn che risveglia l’attenzione e anche i sensi. Sensuali calchi di fondi di pozzo, realizzati in vetro che grazie alla lavorazione sembra trasformarsi magicamente in acqua nella parte superiore. Sostenuta da Donald Judd, di una generazione più vecchio di lei, come lui sposa i principi del minimalismo e della molteplicità, ma con un tocco che la rende meno fredda e più ipnotica. Il riferimento all’acqua è quasi onnipresente nell’opera della Horn: “Osservando l’acqua vengo colta dalla vertigine del significato. L’acqua è estrema combinazione: un’infinità di forme, di relazione e di contenuti”. In una sala come questa, con il Canale della Giudecca a destra e il Bacino di San Marco a sinistra, si ha davvero l’idea di fluttuare in questo elemento.
Subito si ritorna con i piedi per terra davanti ad All di Cattelan, opera già vista a Palazzo Grassi. La forma incongrua di questi 9 corpi coperti da un lenzuolo, il tutto in marmo, ci lascia increduli e quasi a disagio, anche se la sovraesposizione di quest’opera ne fa il perdere il fascino e il mistero che si dovrebbe provare.
Si arriva poi a Chen Zhen, artista cinese da sempre attento al concetto di multiculturalismo; tra le opere esposte spiccano le 5 sedie trasformate in casette con l’ausilio di candele colorate, parte di un lavoro più ampio e frutto della collaborazione di bambini di strada brasiliani. E’ forse questa l’opera più gioiosa dell’intera mostra, la più costruttiva e quella che trasmette volontà e possibilità di cooperazione, anche se convive nella stessa sala con undici organi di cristallo disposti su un lettino chirurgico, riferimento alla fragilità della condizione umana e sicuramente alla leucemia che colpì l’artista a 25 anni.
Si incontra poi nuovamente Thomas Schütte e il suo approccio antieroico all’arte: se la statua all’esterno comunica impotenza, qui con Efficiency Men (anche questa opera già vista a Punta della Dogana) rimanda all’idea di alienazione, di mancanza di identità, di catena di montaggio.
Si scende poi al piano terra per trovare il ciclo pittorico sull’età assiale di Sigmar Polke: polisemia, trasformazione, unione tra visibile e invisibile, trasparenza. Opera che incuriosisce e stupisce per la tecnica e per i giochi di luce e decisamente molto simbolica dal punto di vista del contenuto anche perché si appoggia a riferimenti classici.
Accanto a Polke, la sala poco illuminata dalla Sturtevant, artista famosa per “copiare” le opere altrui: qui riprende Duchamp, o meglio l’allestimento da lui ideato per l’Esposizione Surrealista del 1938 a Parigi, mettendovi all’interno alcune sue opere chiave, come il celebre orinatoio. Non semplici copie, ma anche duplicazione di alcuni elementi, inserti personali, ripresa meticolosa delle tecniche. Si indaga sul senso della creatività, dell’originalità, della riappropriazione…e sono sempre quesiti aperti.
Poi si cambia totalmente registro per ritrovarsi con un sorriso spontaneo davanti al salvagente e ai giochi gonfiabili coloratissimi e buffi di Jeff Koons…fino a scoprire in fretta che in realtà sono in acciaio inossidabile con catene, reti, legni e pentole attaccate. Lui ci prende in giro senza che ne rendiamo subito conto, è questo il suo modus operandi, critica e ridicolizza la nostra società consumista, la banalità, il senso comune del gusto.
Da questa sala si può entrare nel famoso cubo che rappresenta la grande sala centrale di Punta della Dogana: troviamo due opere di Julie Mehretu, artista etiope e gran viaggiatrice, interessata all’architettura, all’urbanismo e ai paesaggi immaginari. Opera site specific in cui fronteggia con schizzi, riflessi e una moltitudine di segni l’orizzontalità di New York e la verticalità di Venezia (specificando che, viste le molte osservazioni a riguardo, Venezia è più “verticale” di New York perché la si percorre attraversando una fitta rete di calli strette e lunghe, mentre la città americana nonostante i suoi altissimi grattacieli consente di ampliare molto di più lo sguardo in orizzontale grazie a strade larghissime).
Usciti dal cubo, si rientra nel percorso espositivo incontrando l’indiano Subodh Gupta e la sua moltitudine di utensili da cucina, tra i quali spiccano due cucchiai enormi al centro della sala, uno sopra l’altro come se fossero delle persone.
Troviamo poi ancora Tatiana Trouvé, passata inosservata all’ingresso ma estremamente azzeccata ora. Anche lei realizza quest’opera site specific e si focalizza su quella che era la funzione dell’edificio in cui espone, sull’idea stessa di “dogana”: un luogo di passaggio dove le merci non stanziano. Ecco che allora ci fa trovare delle opere assenti, di cui ne deduciamo l’esistenza dalla presenza di quello che invece c’è: materiale da imballaggio, teche, contenitori ecc… La magia e il fascino dell’assenza, ottima esaltazione dello spazio in cui siamo.
Da questa sala si possono attraversare la caffetteria ed il bookshop per sbucare davanti al cuore rosso alto 3 metri di Jeff Koons, oltre al quale, guardando verso l’esterno, si scorge la parte posteriore di Boy with Frog, altra opera site specific commissionata da Pinault a Charles Ray ancora in occasione dell’apertura di questo spazio espositivo nel 2009. Si può anche salire sul Torrino di Punta della Dogana scoprendo in cima un abito da sposa legato ad una specie di tombino e fluttuante come un fantasma, simbolo delle speranze disattese, altra opera di Hammons oltre a quella nella prima sala.
Ritornando nelle sale museali, il rumore dell’acqua ci accoglie prima ancora di vedere la fontana di teste di Bruce Nauman. Artista americano, si concentra sul senso (o meglio, il non-senso) del linguaggio, sull’impossibilità della comunicazione e sulla percezione del corpo. La sala è però dispersiva, risulta non immediato individuare e soffermarsi sui quattro lavori esposti, anche perché una parete viene occupata dal prolungamento di un’opera non sua ma appartenente all’artista della sala contigua.
Sono proprio dei cerchi realizzati con il filo spinato utilizzato a Guantanamo che ci introducono ad Adel Abdessemed, artista algerino ora residente e Parigi. Il contrasto, da cui emerge sempre violenza e prepotenza, può essere la chiave di lettura di queste opere: gli animali imbalsamati e poi carbonizzati ma compattati in un’elegante forma cubica, il raffinato calco in terracotta di una macchina vandalizzata durante le rivolte nelle banlieues francesi, così come i leggii da orchestra in cui compaiono però disegni di uomini intenti a lanciare delle bombe molotov, evidenziate con un brillantino.
Nell’ultima sala ritroviamo la Sturtevant con una copia di Felix-Gonzalez Torres e con un video di un cane che corre ossessivamente senza fine. Forse ci rappresenta? Rimaniamo con il dubbio, dobbiamo rimanere con il dubbio. “Elogio del Dubbio”.

 

collezione pinault

10 Aprile 2011 - 31 Dicembre 2012