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Gianfranco Bettin

Questo non l'ho mai letto a nessuno

Venezia, Fondazione Buziol, 11/03 2010

di Gabriele FRANCIONI

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Gianfranco Bettin riassume, nella sua storia d'impegno politico e letterario, la complessità del territorio veneziano che stratifica, tra centro storico e terraferma, una quantità infinita di dinamiche attinenti l'interazione tra l'Altro, il foresto, e i locali.

Depositari, questi ultimi, di una storia e di una lingua divise tra l'orgogliosa autonomia pre-napoleonica e la sofferta appartenenza a un contesto nazionale che ragiona(va) sull'idea di condivisione. 

Già prosindaco di Mestre e alter ego riconosciuto di Massimo Cacciari, l'autore di "Gorgo,in fondo alla paura" (Feltrinelli, 2009) ne è sempre stato il braccio armato per quanto riguarda l'attuazione di politiche sociali in terraferma.

Filosofia e letteratura, come da nessun'altra parte in Italia, al servizio della gente, in un'ottica di traduzione della "res publica" platonica mai tentato prima.

Una sorta d'idealismo pratico che, dopo 17 anni, viene minacciato dal potenziale ordine nuovo di cui sarebbe espressione un ministro di scuola craxiana, doppelganger mal riuscito del Gianni De Michelis dell'Expo (eufemismo), col quale sarebbe impossibile dialogare (altro eufemismo).

Venezia ha bisogno di 10, 100, 1000 Bettin e, di riflesso, di altrettante Fondazioni simil-Buziol, specialmente in questo pericoloso o drammatico momento storico.

 

Crossover/dialogon/multi(di)versità: tutti termini che funzionano per l'uno e per l'altra e che desideriamo continuare ad ascoltare per molti anni ancora, ora che la città ha dato prova, con un 2009 già eletto a exemplum di come gestire la Cultura, di essere all'avanguardia della politica nazionale.

Bettin, non a caso, legge stralci anch'essi drammatici, tesi, foschi ma pieni di speranza, di un viaggio tra le macerie dell'ex-Jugoslavia post-guerra civile, alla ricerca di nomi e persone scomparsi, cancellati in un lampo senza senso, ma anche di una sorta di neo-lingua che sia vero meticciato orale: inglese, slavo, veneziano e italiano rimbalzano sul muro di un racconto serrato che investe il lettore/ascoltatore con placida forza.

 

Questa è una peculiarità bettiniana: sembrare pensiero debole mentre mostra i denti, esprimere dolcezza nascondendo il martello di un'idea forte.

 

Il folto pubblico presente a palazzo (Mangili Valmarana, da 2/3 anni nuovo fulcro del policentrismo culturale veneziano) si fa coinvolgere dall'incedere soft dell'autore, che con sguardo rivolto verso il basso, accende il ricordo della ricerca di un viso, quello di Sonia ("lei è comunque morta..."), di una Jugoslavia persa per sempre, dell'utopia e dell'equilibrismo di Tito.

 

Il racconto è comunque più un percorso interiore, che sovrappone piani e costruisce l'immagine sfumata ma fortissima di Sonia, quasi evitata da Rada - la sorella minore - e dai genitori Milo e Stasha, icone della trasformazione da uno stato delle cose a quello successivo, d'età indefinibile, attoniti nel territorio incerto tra due epoche.

 

La lettura ipnotica di Bettin mescola i termini e crea effettivamente, sottovoce, la neolingua in cui rientrano gli Skunk Anansie e Skin e Ronaldo e tanto altro, ingialliti nel momento in cui la loro scintillante modernità è parlata sullo sfondo di edifici distrutti o pensata al confine tra due nazioni.

 

C'è qualcosa che lega questa serata a quella che l'ha preceduta, con Enrico Palandri anch'egli reduce di una guerra, combattuta in Italia, dopo la quale si è chiamato fuori, per elaborare il senso di una vittoriosa sconfitta generazionale.

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Gianfranco Bettin

Questo non l'ho mai letto a nessuno

Venezia, Fondazione Buziol, 11/03 2010