
Oggi
si è svolta la lezione di cinema della regista giapponese Naomi Kawase.
Ripercorrendo le immagini dei suoi film, l’autrice ha spiegato come molto
del suo cinema sia frutto di una sperimentazione continua fatta sulla
recitazione degli attori, oltre che sull’inquadratura. Infatti, l’uso
frequente di non professionisti ha condizionato molto il suo modo di fare
cinema, adattandolo alle necessità del caso.
Ma
non solo: molto di quello che la Kawase riproduce sullo schermo è in realtà
frutto della sua esperienza autobiografica e di una ricerca interiore
che parte da problemi molto profondi e radicati. Infatti la regista giapponese,
dopo la separazione dei genitori, ha trascorso la sua infanzia con i prozii.
Ma tutto il suo cinema è incentrato sulla “creazione” di un rapporto mai
vissuto con i genitori carnali. E anche le storie che sembrano apparentemente
lontane dalla sua vicenda personale, rappresentano delle tappe fondamentale
del suo viaggio alla ricerca delle cose perse e dei sentimenti falliti.
Allora il cinema diventa un momento di riflessione solenne e l’immagine
è una parola che serve a comporre il dialogo tra il suo mondo interiore
e quello reale dell’esteriorità. Anche per questo la ricerca estetica
che accompagna i suoi racconti è in stretta relazione con l’intensità
del loro contenuto: perché niente di ciò che viene rappresentato può sfuggire
al bisogno ed al desiderio di essere un ponte tra la sua vita pubblica
e privata.
L’Infinity
Festival ha dedicato una personale al cinema di Naomi Kawase presentando
tutta la produzione cinematografica di questa giovane regista giapponese
(33 anni).
Oltre
ai vari documentari, spicca tra i molti titoli il lungometraggio che l’ha
portata al successo: infatti con MOE NO SUZAKU la Kawase nel 1997 si è
aggiudicata il premio FIPRESCI al Festival Internazionale di Rotterdam
e la Camera d’Or a Cannes.
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