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Dopo la visione del film “LA FE DEL VOLCAN” (Argentina 2001) di Ana
Poliak, proiettato in occasione dell’ultimo appuntamento con la rassegna
MI ARGENTINA QUERIDA, si può provare a fare un piccolo bilancio di questo
cosiddetto “nuovo cinema” argentino. Partiamo dal film della Poliak. In
una Buenos Aires fotografata in modo freddo e astratto (il film è girato
con la telecamera digitale) si incrociano i percorsi di Danilo, un arrotino
quarantenne che si sposta per le vie della città con la bicicletta su
cui ha caricato i ferri del mestiere e un fischietto con cui si fa annunciare
dai clienti, e Annie, una ragazzina che dopo la scuola lavora in un salone
di bellezza. Il fare simpatico e istrionico di Danilo conquista presto
la simpatia di Annie e così il film procede, senza un apparente sviluppo
narrativo, seguendo i due che camminano lungo i marciapiedi e le strade
della città e le loro chiacchiere vuote. Ma tra i ragionamenti il più
delle volte insensati e la mimica clownesca con cui Danilo cerca di far
ridere la giovane emergono, come dolorosi corpi estranei conficcati nella
memoria, ricordi legati alla violenza della dittatura militare degli anni
settanta, alla quale molto probabilmente l’uomo non è estraneo. Una volta
ancora, i protagonisti di questa ennesima non-storia, il loro peregrinare
senza meta e senza scopo, si fanno metafora di precarietà. Questi giovani
autori nutrono un evidentemente pessimismo per il futuro del loro paese,
e non hanno un gran bel passato a cui aggrapparsi. Dai loro film, con
i pregi e con i limiti, emerge prepotente questa situazione di perenne
stallo in cui versa l’Argentina. E’ interessante, a questo proposito,
analizzare come questo cinema rappresenta lo spazio vissuto dai personaggi.
Nella maggior parte dei film visti a Udine l’azione si svolge all’aperto
(raramente in interni) e la location preferenziale è la periferia della
metropoli, anonima, degradata, improduttiva, povera (in “EL ARMARIO” nel
paesaggio “post atomico” delle aree industriali dismesse), che potrebbe
fare riferimento ad una qualsiasi grande capitale contemporanea. Il set
d’elezione di questo cinema è quindi quello che Lichtenberger chiamerebbe
“non-place”, paesaggi senza luogo e senza significato, spazi senza identità
e senza storia. In sostanza questi giovani autori nella maggior parte
dei casi operano sullo spazio esterno rappresentato “decostruendolo”,
svuotandolo di riferimenti riconoscibili e riconducibili ad una specifica
realtà geografica (esattamente l’opposto di quello che fa la comunicazione
pubblicitaria turistica). Scelte stilistiche che enfatizzano la provvisorietà
del presente argentino, che acuiscono ulteriormente le vite in bilico
di personaggi che non sanno da che parte andare. La serata vedeva anche
la proiezione del film “RICONCILIATI” (Italia 2002) di Rosaria Polizzi.
Roberto è un ex militante di estrema sinistra che si è fatto vent’anni
di galera con l’accusa di aver ucciso un giudice. Quando esce in libertà
vigilata, decide di incontrare i suoi ex compagni (che nel frattempo si
sono tutti più o meno integrati nella vita borghese, alcuni sono giornalisti,
altri imprenditori o liberi professionisti) per capire chi è stato il
traditore che a al tempo fece il suo nome alla polizia. Il suo ritorno
in libertà scombussola ancora di più la vita familiare (già non propriamente
serena) della moglie di uno di questi “amici”, Malena, avvenente argentina
giunta in Italia nei primi anni ottanta con una figlia in grembo (il padre
è un desaparecido) e fortunosamente scampata ai torturatori della dittatura
militare (i fantasmi di quel periodo ancora la perseguitano sotto forma
di incubi) e con la quale Roberto aveva avuto a suo tempo una relazione.
Si ritroveranno tutti una sera a cena nella casa di Malena (compresa la
madre di Roberto, ex partigiana) a fare i conti con il proprio passato,
mentre la generazione dei figli, indifferente ai tormenti dei genitori,
se la spassa tra le chiacchiere del doposcuola e le serate in discoteca.
E alla fine c’è pure spazio per la fame nel mondo e per la proliferazione
delle armi da guerra. Il film della Polizzi (nata in Argentina ma fin
dagli anni sessanta residente in Italia, a Udine si è potuto vedere anche
il suo ultimo documentario VOGLIA D’ITALIA) è una produzione italiana
e purtroppo si vede: cervellotici parallelismi tra vent’anni di storia
italiana e argentina che si risolvono con un acquazzone (purificatore?)
dopo che, come in ogni talk-show che si rispetti, tutti a turno hanno
potuto esprimere la loro opinione sui fatti. Stile televisivo, tono didascalico,
inevitabili scivoloni nel comico involontario. Tante anche le chiacchiere
(bla bla bla del tipo “la nostra generazione a perso”…) ma i silenzi del
film della Poliak sanno fare molto più male. Forse, a questo proposito,
il logorroico cinema italiano avrebbe qualcosa da imparare da quello “giovane”
argentino. |
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Loris
SERAFINO |
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