"EL ARMARIO", O DELL'ESTETICA ESSENZIALE DELLA POVERTA'

Al secondo appuntamento delle "visioni d'altrove" udinesi è di scena il giovane cinema argentino.
Un viaggio-radiografia tra macerie e paludi dell'Argentina odierna.

Si presenta come un qualsiasi giovanotto della sua età, fare un po' timido, fisico palestrato e look alla moda, uno dei più promettenti rappresentanti del cosiddetto "nuovo cinema" argentino.
Stiamo parlando di Gustavo Corrado, il poco più che trentenne regista (che ora vive a Pordenone) giunto a Udine giovedì 10 ottobre per presentare il suo film EL ARMARIO e colloquiare un po' con il pubblico in sala.
Presentato a diversi festival internazionali e sempre accolto da ottime critiche, il film di Corrado è un viaggio nella povertà della periferia argentina di oggi. Ambientato in una fabbrica dismessa divenuta covo di ex operai senzatetto e disgraziati di ogni sorta, è la storia di un barbone che vive solitario in un armadio (l'unica cosa che gli è rimasta dopo lo sfratto). Timido e scontroso, si troverà a dover dividere il mobile con una giovane prostituta che, in cambio del "vitto", gli assicura qualcosa di fresco da mangiare. Dopo l'iniziale diffidenza, il barbone accetterà la strana convivenza anche quando la ragazza comincerà a utilizzare l'armadio come luogo d'incontro con i suoi clienti. Girato in bianco e nero, stilisticamente ricorda certo cinema russo (ma senza abuso di piani sequenza), essenziale e dilatato, surreale e documentaristico, poetico e crudo nello stesso tempo. Del resto, come ha dichiarato lo stesso Corrado alla fine della proiezione "Ero partito con l'idea di girare un film di finzione ma quando mi sono ritrovato in quei luoghi e ho conosciuto direttamente quelle persone (a parte i due protagonisti, tutti i personaggi del film sono reali, N.d.R.) ho deciso di approfondire le loro storie personali. Ho girato questo film con quattro soldi, in totale libertà, non dovevo rendere conto a nessuno del mio lavoro e così ho modificato i miei progetti iniziali e così è venuto fuori EL ARMARIO, un misto di finzione e documentarismo". Il risultato, ci permettiamo di aggiungere noi, non è esente da difetti, ma lascia intendere che il ragazzo ha della stoffa, soprattutto nella capacità di comunicare per immagini essenziali, con fotogrammi chiaroscuri che sembrano tracce sfumate fatte con il carboncino. Una sorta di "estetica del niente", come si evince anche dalle sue parole: "In questo film ho cercato di coniugare una essenzialità teatrale della rappresentazione e dei luoghi con una visione più surreale; non perseguivo un realismo documentaristico, intendevo piuttosto esprimere la mia idea estetizzante della povertà. Volevo unire teatro e finzione. Anche in questa ottica va osservato il personaggio della prostituta che ha le parvenze surreali di un angelo sceso in quell'inferno per dare un po' di sollievo a quelle anime sventurate". Niente di nuovo, ovviamente. In fondo è sempre stato così, quando non si hanno mezzi ma voglia di raccontare vanno bene anche le macerie: "In Argentina ci sono tanti autori desiderosi di raccontare il loro paese attraverso il cinema. La presa di coscienza delle terribili difficoltà in cui versa l'Argentina è uno sprone per questi giovani autori così come, fatti i debiti distinguo, dopo la Seconda Guerra Mondiale in una Italia distrutta dai bombardamenti sono emerse le grandi personalità del neorealismo. Questi grandi autori portavano le loro cineprese tra le case distrutte, raccontavano i drammi della povera gente. Da noi, la catastrofe economica sta sortendo un effetto analogo, anche se ovviamente i risultati non si possono paragonare".
Più che arrabbiati, i giovani cineasti argentini che oggi cercano di raccontare il loro paese sembrano consapevoli.
E' il caso di Lucrezia Martel, la regista del secondo film proiettato in serata, "LA CIÉNAGA".
Tradotto in italiano il titolo significa "la palude", perfetta metafora della borghesia argentina inconcludente e annoiata che la regista mette in scena con stile vischioso e corrosivo simile al clima meteorologico che si respira in quei luoghi.
Una bella fotografia dell'"impasse" storico culturale contemporaneo e insieme una dimostrazione di un cinema che vuole uscire dalle secche di una Storia e di una attualità gravosa.

Loris SERAFINO