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Con “PIZZA, BIRRA, FASO” e “MONDO GRUA” una discesa nella marginalità metropolitana argentina, tra sporcizia e rassegnazione. “ La radialità delle strade e delle ferrovie che convergono da tutta l’Argentina
su Buenos Aires testimonierebbe da sola le funzioni di guida svolte dalla
città rispetto al proprio territorio nazionale…tutto ritorna, prima o
poi, a Buenos Aires…”, con queste parole il geografo Giacomo Corna Pellegrini,
in un articolato saggio sulle città dell’America Latina, sottolineava
l’accentramento storico e socio-economico e lo sbilanciamento (peraltro
giudicato “incongruo”) della metropoli argentina rispetto agli immensi
territori periferici del paese. Il nuovo cinema argentino non poteva che
(ri)partire da qui, dalla “metropoli” per eccellenza, perché raccontare
Buenos Aires oggi significa puntare il dito sulle contraddizioni, i problemi
e le disparità di un intero paese. E per fare ciò, questo cinema, non
poteva che partire dal basso, dalle fogne, dai bassifondi, dalle periferie
degradate e da storie di ordinaria marginalità. Un cinema povero di mezzi,
esplicitamente alla ricerca di una propria identità, che tenta di mostrare
la povertà materiale e morale imperante, che va letteralmente a rovistare
nella spazzatura e si compiace di mettere in bella mostra i “panni sporchi”.
Tutto questo è ben condensato da “PIZZA, BIRRA, FASO” (letteralmente,
pizza, birra, sigarette), uno dei film più attesi alla rassegna friulana,
inedito in Italia, girato dai giovani Adrian Caetano e Bruno Stagnaro.
A Buenos Aires, uno gruppo di quattro ragazzi sbandati e una giovane donna
incinta vivono di espedienti e di piccoli furti che gli consentono di
racimolare quanto basta per potersi comprare una birra, un trancio di
pizza e un pacchetto di sigarette. Uno dei quattro, l’amante della ragazza
(e, forse, padre del bambino che lei porta in grembo), sogna di fare il
colpo grosso che possa sistemarli una volta per tutte e gli consenta di
andarsene da quella città. Dopo aver racimolato le armi (ma senza saperle
nemmeno usare) e senza un mezzo di trasporto, i quattro, disorganizzati
e spavaldi, prendono di mira una discoteca. Ovviamente finirà in tragedia,
e così la giovane madre dovrà andarsene da sola via dalla città. Realistica
e cruda incursione nella vita di quattro buoni a nulla senza lavoro ne
prospettive, come ce ne sono tanti nella Buenos Aires odierna, maldestramente
dediti al taccheggio ma incapaci di mettere a segno un colpo autonomamente
(e per questo sempre sfruttati dal “capo” di turno che si tiene il grosso
del malloppo). Interessante nella prima parte quando descrive con distacco
“antropologico” e autenticità le misere esistenze di questi “animali metropolitani”
(si badi, tutt’altro che “buoni selvaggi”, come mostra la scena in cui
derubano uno storpio), sbanda nella parte finale quando il racconto si
incanala in forme narrative più abusate (la storia sentimentale, l’ultimo
colpo, il desiderio di riscatto, la fuga, ecc…), snaturando così quella
carica di cattiveria documentaristica a cui presumibilmente si ambiva.
Con “MONDO GRUA”, primo lungometraggio del trentenne Pablo Trapero già
vincitore di svariati premi e riconoscimenti internazionali, invece è
di scena la periferia della città e il basso proletariato che la popola.
Il protagonista è Rulo, un cinquantenne disoccupato con qualche acciacco
fisico (visibilmente soprappeso e affetto da una disfunzione che gli produce
dei fastidiosi colpi di sonno) che cerca di tirare a vanti come può in
una città caotica e apparentemente indifferente. Per mantenere la madre
e il figlio bulletto (che passa il tempo “cazzeggiando” tra il suo complesso
rock e le avventure con le ragazzine) deve imparare a manovrare la gru
sperando di ottenere un posto di lavoro. Quando Rulo conosce Adriana,
la proprietaria del piccolo chiosco in cui compra il panino nella pausa
pranzo, e inizia con lei una relazione, emergono alcuni particolari sul
suo passato. Si viene a conoscenza che da ragazzo, negli anni cinquanta,
faceva parte di un complesso rock che al tempo aveva conosciuta una certa
fama. Insieme ad Adriana e agli amici, ricordando le imprese e i successi
della giovinezza, Rulo sembra ritrovare una piccola nicchia di tranquillità.
La parentesi però dura poco. Perso il posto come manovratore di gru, sarà
costretto a spostarsi fino in Patagonia per riuscire a trovare un impiego.
Anche li però, dopo un periodo iniziale apparentemente promettente, le
cose non andranno tanto bene. C’è qui una tipica idea di realismo (l’immancabile
bianco e nero, le riprese “sporche” di una città che è al tempo stesso
opprimente e noncurante, la recitazione naturalistica da “presa diretta”,
ecc…), ma anche una insolita misura di sarcasmo agrodolce che, pur riuscendo
a stemperare un po’ la drammaticità della vicenda, ha l’effetto di acuire
la sensazione di rassegnazione, di immobilismo, di rinuncia che permea
i personaggi e la realtà sociale che essi rappresentano. . |
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Loris
SERAFINO |
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