trieste film festival

23.ma edizione

 

Trieste 19 / 25 gennaio 2012

 

Masterclass con Istvan Szabò

"Faces in film history: the power of close-ups”

di Roberta ISERNIA

Il famoso regista ungherese Istvan Szabò ha avuto il piacere e l'onore di dare il via alla serie di eventi collaterali del Trieste Film Festival, essendo da programma il primo ospite d'onore a incontrare la platea del capoluogo giuliano.
Una quarantina persone, tra le quali molti studenti di arte cinematografica provenienti dall'est Europa, si sono accalcati nella saletta riservata al masterclass intitolato “Faces in film history: the power of close-ups”.
Il cineasta ungherese, fra calorosi applausi, ha raggiunto il palco e con l'estrema flemma che lo contraddistingue ha salutato il pubblico e si è addentrato in una tanto profonda quanto sagace analisi della potenza del primo piano come strumento di linguaggio nell'arte del cinema.
Szabò si è particolarmente soffermato sullo studio del viso umano, spiegando agli astanti il suo personalissimo processo di selezione degli attori: secondo il regista ogni faccia deve rispecchiare la propria epoca, il momento storico che si trova a vivere.
Purtroppo alla fine della sua analisi Szabò, non più giovanissimo, è apparso affaticato e conseguentemente lo spazio per le domande del pubblico è stato ridotto a una manciata di interventi.
Ma non c'è da mettere in dubbio che anche solo in poco più di un'ora il regista ungherese ha lasciato un segno indelebile negli annali del Trieste Film Festival.

Premiatissimo alfiere del giovane cinema uscito dallo studio B. Balázs, esordì ancora liceale coi cortometraggi Concerto (1961), Variazioni su un tema (1961) e Tu (1963), prima di affermare una personalità lirica matura, sviluppando gli stessi temi nei film L'età delle illusioni (1964, primo lungometraggio realizzato), Il padre (1966), uno dei più importanti del nuovo cinema magiaro, metafora di un ossequioso senso di venerazione dell'indiviadualità, e Film d'amore (1970). Tornato al cortometraggio con Sogno di una casa (1972), lo allargò poi aVia dei Pompieri 25 (1973), dipingendo con maestria un quadro vario e drammatico del caseggiato budapestino della sua infanzia, realizzando che ogni uomo è il prodotto dell'ambiente in cui vive ma esortandolo a guardare il passato per capire e migliorare il presente e il futuro. La stessa fusione non gli riuscì nel ridondante Racconti di Budapest (1977), cui seguì La fiducia (1979, Orso d'argento a Berlino), incontro d'amore nella Budapest del 1944 occupata dai nazisti, che tratta del tema della solitudine e dell'incapacità di comunicare. Accantonati i riferimenti autobiografici, in Mephisto (1981), metafora del rapporto tra arte e potere, si rivolse quindi con sorprendenti risultati – vincendo tra l'altro il premio Oscar e rivelando l'attore austriaco K.M. Brandauer – alla parabola artistico-politica dell'attore tedesco G. Gründgens; del 1985 è l'eccellente biografia Il colonnello Redl. Capitolo conclusivo della trilogia storica su potere, arte e decadenza è La notte dei maghi (1988). Felice la riuscita di La tentazione di Venere (1991), commedia drammatica ambientata nel mondo del teatro d'opera e Dolce Emma, cara Böbe, premiato a Berlino nel 1992. Del 1999 è Sunshine (con R. Fiennes), sterminata saga di una famiglia ebrea, che riconferma per l'ennesima volta il tema centrale del suo cinema: la memoria di ogni uomo e di tutti.

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Trieste 19 / 25 gennaio 2012