FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO
21.ma edizione

Milano, 21 / 27 marzo 2011

 

di Matilde CASTAGNA

Commozione alla serata d'apertura del Festival di Africa, Asia e America Latina che anche per il 2011 è approdato a Milano dopo una rigida selezione di opere provenienti dai tre continenti extra-europei. Commozione e sconcerto. Senso d'attesa e sospensione. Parlare d'Africa improvvisamente è diventato reale, sempre meno storia di un mondo altro, remoto e dimenticabile. D'un tratto ci si accorge di un Terzo Mondo che si trova dietro casa (nostra) ad una distanza talmente risibile da poter essere cancellata in pochi mesi. Per decenni si è vissuti nell'idea che niente di tutto questo sarebbe potuto arrivare così vicino da toccarci: l'Europa (e gli Stati Uniti) da una parte, e tutto il resto dall'altra, culturalmente e fisicamente lontano. Nel minuto di silenzio in sala per le vittime dell'apocalisse giapponese nessuno ha il coraggio di rivelare all'altro che questo non può più essere vero. C'è paura. Troppa poca ancora la distanza per mettere a fuoco gli eventi che da inizio anno stanno (s)travolgendo il nostro sistema Terra. E allora forse non ci resta che ridere.

'E tutti ridono…', l'ironia è la vena che più convince di questa nuova edizione del festival, a partire dalla piéce d'apertura della sezione tematica dedicata: "A Woman, A Gun and a Noodle Shop" (San qiang pai an jing qi) di Zhang Ymou ("Hero"; "I pugnali volanti"), remake in mandarino sottotitolato dello statuario Blood Simple (1984), quel gioiellino grunge, neo-noir che ha lanciato le carriere di Joel e Ethan Coen, ovvero i più quotati registi in fatto di humour e grande cinema ad Occidente. Il triangolo amoroso del film originale si trasferisce dall'honky-tonk di una piccola cittadina del Texas a un ristorante di noodle nella provincia del Gansu. Il risultato è un mix atipico fra la comicità dei close-up esasperati con risate in stile Coen e il grande respiro dell'immaginario di Ymou nel deserto del Gobi digitalmente trasformato per l'occasione dalla fotografia di Zaho Xiadoing in un paradiso di rocce a strisce, bianche e arancioni. Zhang Ymou qui si diverte parecchio, con la macchina da presa e con i suoi sventurati personaggi, giocando i loro abiti multicolore contro il grigiore della terra e indugiando sui diversi momenti della loro grottesca esistenza, tra pugnalate alle spalle e inversioni di cavallo. Peccato per il poco impatto emotivo, che riduce la memoria filmica a spese di una sensazione di (e)straniamento.

Cosa che non capita allo spassosissimo "Tere Bin Laden" dell'indiano Abshishek Sharma (da premiare), per mia parte di gran lunga sulla carta e sullo schermo la sceneggiatura più intrigante e l'idea più sfiziosa della rassegna. Nel Pakistan di oggi, un giovane reporter è disposto a pagare qualsiasi prezzo per emigrare negli Stati Uniti, dove sogna una nuova vita. Peccato che ogni suo tentativo venga grottescamente (leggete: indianamente) respinto. Disperato, starebbe quasi per arrendersi, quand'ecco la fortuna pararglisi di fronte: il perfetto sosia di Bin Laden alleva polli non lontano da casa sua. E qui ha l'idea che cambierà la sua vita… Una (in)credibile rappresentazione di cinema hollywoodiano che guarda oltre i confini di Lahore, ammiccando a quell'Occidente, che, a ben vedere, è la parte più credulona e pronta ad essere presa in giro.

Rivincita delle donne, in due degli altri lungometraggi della stessa sezione. Nel primo, "Une femme pas comme les autres" di Abdoulaye Dao, Burkina Faso, una donna d'affari burkinabé rivendica il diritto alla poligamia di fronte ai continui tradimenti del marito. La tradizione proprio forse non vorrebbe così, ma c'è poco da fare quando a pagare i conti di famiglia è la (sola) donna che lavora. Sorriso e ironia per denunciare una condizione di fatto anche per l'iraniano "Fire Keeper" di Moshen Amiryoussefi la cui protagonista, Sorah, deve fare i conti con la nascita dell'ennesima figlia femmina dopo la quale decide di bandire il proprio uomo dal letto nuziale. Lo riaccetterà solamente a patto che si faccia sterilizzare.

E sempre le donne sono le protagoniste del vincitore del festival (Primo Premio come Miglior Lungometraggio Finestre sul Mondo) in cui la regista iraniana Naghmeh Shirkhan, alla sua opera prima, racconta con vivida documentazione di sentimenti il tessuto di rapporti umani fra madri e figlie. Di "Neighbour" la giuria ha detto che: "E' stata (quindi) raggiunta l’unanimità per un film che è un’opera prima ed è portatore di un messaggio di modernità e di speranza nei confronti della donna iraniana, il film ci fa scoprire la complessità di rapporti tra figure femminili che si muovono in un mondo lontano da quello d’origine". Non mi ha trovato invece d'accordo la conclusione del giudizio "Un film che ci fa scoprire un nuovo cinema iraniano". Per fortuna, per chi si ricorda del bellissimo "About Elly" passato di recente, anche se per poco tempo, nel circuito maggiore di distribuzione, non è affatto nuova questa capacità iraniana di raccontare i vuoti, le distanze, i sottesi, l'irrisolto delle relazioni con una delicatezza al cui confronto ogni nostro tentativo (moderno) di cinema di genere appare molto rozzo. L'impressione è un nostro grosso sforzo a fronte di una sincerità innata che traspare dalla pellicola della Shirkan, e da Shirin, Leyla e Parisa. La prima, insegnante di danza, soffre di un passato segnato da un forte contrasto con la madre; la seconda, sua vicina di casa, si trascina in una storia d'amore irrisolto e trascura la figlia, Parisa. Dall'incontro fra le due nascerà un percorso di riavvicinamento, a colmare quella dimensione di vuoto che le caratterizza. Nonostante la marca quasi documentaristica del film, il calore che ne sprigiona è un segno di speranza per chi quel vuoto lo sperimenta quotidianamente, nella lontananza dal paese natio.

Una simile delicatezza si ritrova anche in "Son of Babylon" di Mohamed Al-Daradji, che ci racconta con la medesima, dignitosa emozione, il suo Iraq a pochi giorni dalla caduta del regime di Saddam Hussein. Girato interamente in location, questo film on the road ripercorre il macabro tragitto di nonna e nipote in un difficile viaggio dal Kurdistan, a piedi verso sud, attraverso una Baghdad in fiamme fino a Nassiriya, nella speranza di rintracciare il loro rispettivo figlio e padre, Ahmed, scomparso senza nemmeno una parola da dieci anni, dal giorno in cui si è arruolato per combattere nell'esercito di Saddam. Premio del pubblico (e quindi probabilmente il più meritato) e Città di Milano 2011, il film è un toccante, imperfetto, racconto della realtà. Imperfetto come la realtà può solamente essere, nonostante ogni nostro sforzo umano. Immaginate di dover girare un film in una nazione occupata, in un luogo privo di governo certo, di un sistema di legge e giustizia, abbandonati dall'industria cinematografica. La sola difficoltà logistica sarebbe da capogiro. Il venti per cento dei giornalieri è stato danneggiato durante le riprese - questo perché il negativo doveva essere impacchettato e spedito a Londra quotidianamente per lo sviluppo. Nessuno in Iraq avrebbe potuto garantire per l'incolumità della pellicola. E poi ci sono loro, i due attori protagonisti, veri come da noi non ne esistono più. La nonna, Shazada Hussein, ha negli occhi scuri di madre universale la stessa fiera resistenza di Anna Magnani in "Roma, città aperta". L’attrice (nella vita vera) ha perso il marito fra le schiere di Hussein. Il nipote, Yasser Talib: occhi di zaffiro e faccia imbronciata, controllato a vista dalla nonna disperatamente innamorata di lui, ha la stessa indole impetuosa ed esuberante di 'Ladri di Biciclette'. Non si darà per vinto nemmeno quando quello che il viaggio li porterà a dissotterrare devasterà entrambi, ma non spegnerà il loro desiderio di riconciliazione con il mondo e con tutti quelli che incontrano. Al Daradji ha ricreato qualcosa che ricorda le icone della nostra Europa post bellica. Dopo decenni di regole dispotiche e dieci anni di sangue, polvere e dollari da un'armata 'liberatrice' di droni inumani, l'Iraq ha ora la possibilità di ridisegnarsi, e nella faccia di Talib, mentre suona il flauto del padre e cammina verso il sole di Babilonia, leggiamo l'immagine di un rinnovamento in cui poter tornare a credere.

In "Koukan Kourcia ou le cri de la torturelle" di Sani Elhadji Magori (vincitore della sezione Documentari Finestre sul Mondo), un'anziana cantante popolare ha il dono di convincere le persone a viaggiare, a spostarsi da una nazione all'altra. Negli anni 70, con i suoi canti inneggianti all'esilio, ha spinto molti giovani a lasciare il Niger indirizzandoli verso gli stati più occidentali dell'Africa. Oggi è giunto il tempo di invitarli a tornare attraverso il fascino immutato della sua voce. E' il regista stesso a rivolgersi ad Hussey, con la preghiera di far tornare suo padre, intraprende un viaggio che dal Niger sino alla Costa d'Avorio lo riporterà sulle orme del proprio passato familiare. La metafora di "Mami Wata - sirena del Vodu" che occhieggia dalle varie rappresentazioni alla mostra della Casa del Pane ben rappresenta la simbolica e duplice cesura che da sempre attanaglia l'Africa: il richiamo ancestrale e la separazione della sua gente dalla madre terra. Le domande sottese in questo documentario sono all'ordine del giorno e riguardano l'incomprensione di un esodo verso terre dove la vita si rivela meno dignitosa e piena di difficoltà. Perché allora non tornare? La voce di Hussey richiama il suo popolo a ripercorrere i propri passi, verso il ventre della madre.

E ritornando all'Africa, mancano all'appello i vincitori del miglior lungometraggio e cortometraggio africani. Il primo va ancora una volta ad un'opera, "State of Violence" di Khalo Matabane, che con la maestria della lunga tradizione cinematografica sudafricana ci aiuta a non dimenticare le tensioni irrisolte di uno degli stati apparentemente più sviluppati del continente nero. La violenza che Bobedi rivive sulla propria pelle e attraverso la memoria in prima persona è qualcosa che la vendetta non potrà cancellare, è una radice profonda della sua anima, ma ancor prima dell'anima stessa di Johannesburg e del Sudafrica.

Altrettanto radicato è il messaggio di "Tynie So" (La casa della verità) di Daouda Coulibaly, originario del Mali e cresciuto a Marsiglia, che si ispira al cinema di Ousmane Sembène. Il breve racconto prende vita dalla contrapposizione fra passato e presente, tradizione e modernità. La prospettiva è quella degli antenati che, vegliando dall'alto sulla città di Bamako, non sono contenti di ciò che vedono e decidono dunque di comunicare con gli uomini per l'ultima volta nella speranza che i viventi li ascoltino. Secondo la tradizione bambara, sono gli antenati i detentori della verità e guidano gli uomini sulla via della conoscenza. Un racconto in cui si percepisce l’importanza della memoria, il ruolo ancora fondamentale delle tradizioni e l’urgenza per i popoli, non solo africani, di fermarsi a riflettere sul cammino intrapreso e sul senso dell’esistenza.

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