20.mo festival del cinema africano
Milano, 15 / 21 marzo 2010

 

festival d'asia, africa e america

 

di Matilde CASTAGNA

"Un gesto di ospitalità non può che essere poetico" (Jacques Deridda)


Vent'anni di parola data allo straniero. Come se lo straniero fosse innanzitutto colui che pone la prima domanda e colui al quale si rivolge la prima domanda. Come se lo straniero fosse l'essere in questione, la questione stessa dell'essere in questione, l'essere-questione o l'essere in questione della questione stessa. Ma anche colui che, ponendo la prima domanda, ci mette in questione.
Ospitare lo straniero, come se ancora (incredibilmente) fosse un suo diritto è un senso dell'ospitalità ormai quasi estraneo e straniante nella quotidianità del nostro territorio liquido. In un tempo in cui la Lega fa da padre-padrone, per il ventesimo anno il Festival d'Africa, Asia e America Latina propone invece il recupero di uno senso ormai perso, nell'accezione più antica del termine hostis-ospite, in cui nostro desiderio misura il tempo dal suo annullarsi all'arrivo dello straniero. Lo straniero, lo xenos, non è qui più l'escluso, il selvaggio, il diverso, ma la chiave per varcare la (nostra) soglia del privato. è il suo arrivo che attendiamo necessariamente; è dalle sue labbra che pendiamo per una parola di liberazione.

Quella stessa liberazione che gli ospiti stranieri della Cittadella di Haiti non possono dare al protagonista di MOLOCH TROPICAL. Non a caso nessuno di loro raggiunge il cuore della fortezza, simbolo di una nazione dove la storia umana è stata scritta per la prima volta da schiavi vittoriosi. Il regista Raoul Peck (Ministro della Cultura e della Comunicazione ad Haiti dal 1996 al 1997 e Premio Irene Diamond per i Diritti Umani nel 2001) vi ambienta la vicenda di un presidente democraticamente eletto che si prepara ad una cerimonia di Stato. La deriva sukoroviana del personaggio diventa espressione della riflessione politica sull'utopia e la solitudine del potere. Questione quanto mai attuale, non soltanto per la recente tragedia che ha portato Haiti alla ribalta delle cronache, ma, e soprattutto, per la vivida rappresentazione dell'utopia come topos, intesa qui in senso greco come non-luogo o nessun luogo, il fuori-luogo dell'unità spazio-temporale interiore dell'uomo di potere che, completamente scollato dalla realtà che lo circonda, diventa schiavo della propria follia mentre al di fuori delle sue mura è in corso un rivoluzione. Una battaglia per la 'democrazia' che non ha fatto prigionieri, come la definisce il regista nel suo intervento all'Istituto di Cultura Francese dopo la proiezione del film. Ne è simbolo la figura del prigioniero, l'ospite senza nome che viene invitato a cena dal Presidente dopo un lungo (deduciamo) periodo di tortura e sevizie. Finisce arso vivo, moderno Bruno la cui morte si prende in ostaggio il suo ospite-ospitante, e che attraverso il patto, indissolubile, di morte e memoria, priva il suo carnefice del diritto di suicidio e liberazione. Haiti si rivela l'ombelico della storia, ne diventa il paradigma. è una bella lezione per la nostra visione occidentocentrica del mondo.

La grammatica del film diventa atto politico nel toccante MUGABE AND THE WHITE AFRICAN di Lucy Bailey e Andrew Thompson la cui telecamera documenta a riprese nascoste la coraggiosa resistenza di una famiglia di agricoltori bianchi dello Zimbabwe e la lotta contro il regime di terrore instaurato dal presidente Mugabe che con la riforma agraria del 2000 ha rivendicato ogni diritto sulle loro terre. I Campbell da allora ha vissuto nella minaccia di violenze intime da parte di bande armate di neri che piantonano i loro campi giorno e notte con incursioni mirate al farli desistere dalla loro lotta di opposizione legale. Alla sacralità del suolo si contrappone l'Idea di sacralità della legge e non saranno la manipolazione politica, i rinvii a giudizio strumentali al potere, l'illegalità dittatoriale e nemmeno i pestaggi a sangue a fermarli. Dal tribunale dell'Unione Africana in Namibia sono state riconosciute in doppia sentenza la violazione di protezione fisica e la validità del loro atto di proprietà terriera, ma al loro rientro in Zimbabwe la fattoria è stata rasa al suolo da un incendio di natura dolosa. Dapprima costretti a fuggire, i Campbell sono ritornati nel paese e continuano oggi a lottare per i loro diritti, ma soprattutto, dichiarano, per i diritti di una nazione intera.

Occorre infatti assimilare la natura della follia alla natura dell'ospitalità, in relazione a quello scatenamento incontrollabile contro il più vicino che è la risultante stessa di una contraddizione nella legge umana secondo la quale sempre la legge viene posta, o opposta a qualche natura di tipo diverso. L'opposizione linguistica e razziale è storia comune di una nazione vicina allo Zimbabwe, protagonista nell'edizione dei mondiali di calcio 2010. Presentato nella sezione tematica in rassegna 'Africa nel Pallone' Cinema e Calcio in Africa in attesa dei Mondiali, MORE THAN JUST A GAME di Junaid Amhed (Sudafrica 2007) riporta la testimonianza di cinque attivisti politici poco più che maggiorenni confinati a Robben Island dal regime dell'apartheid. Il primo scontro fra le guardie carcerarie e i detenuti ha campo sul piano linguistico. In MOLOCH TROPICAL è la madre del presidente la sola figura a parlargli in una lingua nativa, in creolo e non in francese e quella della madre è anche l'unica figura a rappresentare per il presidente un minimo contatto con la realtà nel suo ultimo giorno di governo. Dalla nostra lingua madre, dal nostro ethos, non possiamo di fatto prescindere. è curioso in questo senso notare come nel più recente INVICTUS si sia deciso di sorvolare sulla differenza linguistica fra le due parti in conflitto. Al di là del supporto tecnico e dello stile di realizzazione, entrambe le narrazioni hanno in realtà un minimo comun denominatore: lo sport come chiave di resistenza e libertà interiore. In MORE THAN JUST A GAME i prigionieri trovano nel calcio un nuovo senso per vivere; in INVICTUS il rugby diventa il simbolo di vita nuova per la nazione unita di Mandela. Eppure è come se lo sguardo di Junaid Ahmed affondasse una radice più profonda nei valori, nelle norme, e nei significati che abitano la lingua.

In un certo modo è la stessa sensazione di 'superficie' che si percepisce nella scelta della proiezione di PRECIOUS di Lee Daniels come film d'apertura dell'intero festival. Forse lo scarto linguistico è per noi (europei) troppo debole in tema di estraneità, intendendosi qui per lingua il linguaggio delle immagini in termini di semiotica del visivo. Figlio legittimo di un cinema in larga parte europeo o comunque americano, l'occhio non vede la soglia, non la percepisce, e non essendone allertato, gode soltanto di ciò a cui è già abituato. Nonostante il film sia un (gran) bel film, gli attori bravi attori, persino si finisce col commuoversi, è come se poco c'entrasse con il resto della rassegna, fatto salvo il capitolo 'razzismo brutta storia' ma nemmeno di effettiva differenza razziale si tratta. Meriterebbe una recensione a sé stante, questa pellicola che ci racconta dell'adolescente Precious, obesa, analfabeta, incinta per la seconda volta di un padre che la violenta ripetutamente sotto il tetto di famiglia nei sobborghi miseri di Harlem…

è vero che il premio al miglior cortometraggio (mediometraggio) africano è andato a UN TRANSPORT EN COMMUN di Dyana Gaye, in cui la regista sembra voler fondere due anime e due linguaggi di matrice lontana. Dyana intenta un curioso esperimento di trasposizione del genere musical in un ironico viaggio su un taxi collettivo del Senegal fra Dakar e Saint-Louis. A turno i passeggeri si raccontano, cantando. Il risultato è una pellicola sicuramente originale, ma un po' straniante e che forse eccede in lunghezza a fronte dell'esiguità della storia narrata dai singoli personaggi.

Un legame particolare fra Africa e America è invece tema della ricerca documentaristica condotta da Clarissa Duque in Venezuela attraverso uno 'strumento musicale' presente in entrambi i continenti: il tamburo d'acqua, i TAMBORES DE AGUA. L' 'Encuentro ancestral' vuole essere l'incontro fra il Venezuela e le sue radici, fra il Venezuela e il Camerun, ma è anche l'incontro fra la donna è la sua femminilità, è l'acqua come origine della vita. La regista si pone il problema di trovare il filo rosso a ritroso dal nuovo al vecchio continente, per ridare senso alle radici sopite. L'energia che ne scaturisce è travolgente, e le splendide immagini delle comunità d'origine africana nella zona di Barlovento ci ricordano che c'è qualcosa che non dovrebbe essere perduto.

In primis la memoria. L'importanza della storia come memoria è anche alla base della delicata indagine di Thet Sambath, giornalista di un quotidiano di Phnom Penh che per dieci anni di vita, a sue spese e nel tempo libero, trascurando moglie e figli, ha inseguito una sola ossessione: rispondere al perché dell'uccisione della sua famiglia, dei suoi genitori e di due milioni di persone durante il regime dei Khmer rossi che negli anni Settanta ha sconvolto il suo paese, la Cambogia. Lo fa guadagnandosi a poco a poco la fiducia delle persone, cerca i testimoni, gli esecutori degli eccidi, li interroga, stringe amicizia, si fa indicare i luoghi delle fosse dove i corpi ribollivano notte e giorno, chiede loro di simulare le uccisioni, chiede loro di raccontare, perché non ci si dimentichi. Nel frattempo riesce a farsi ricevere da Nuon Chea, il braccio destro di Pol Pot, il 'fratello numero 2', diventa suo ospite e confidente (in quanto ospite non gli verrà chiesto nulla della sua identità, che rivelerà a Nuon Chea solo poche ore prima della cattura da parte della autorità avvenuta nel 2009). Con ENEMIES OF THE PEOPLE, Sambath consegna alla storia un materiale unico e, forse, una risposta che porta inscritto l'enigmatico sorriso delle statue di Angkor.

Che hanno la stessa, delicata, bellezza della pellicola premiata dal festival come miglior lungometraggio per la categoria 'Finestre sul mondo'. è giustamente e a pieno titolo anche premio del pubblico città di Milano, UNE VIE TOUTE NEUVE di Ounie Lecomte, film splendido e toccante opera prima che racconta il dramma (autobiografico) dell'abbandono. Jinhee e il suo papà vivono soli in un villaggio in Corea e sono molto uniti, quando un giorno il padre accompagna Jinhee in viaggio allo scopo di affidarla ad un orfanotrofio. Il saluto mancato, la falsa promessa del ritorno, l'inaccettabile peso del tradimento, impediscono a Jinhee di rassegnarsi al proprio destino.

SITO UFFICIALE

 

20.mo festival del cinema africano
Milano, 15 / 21 marzo 2010