Saremo, nel 2046, più felici?
“L’amore è tutta una questione di tempismo”
La domanda del titolo, come forse può apparire ovvio a chi conosce il cinema
di Wong Kar-Wai, non trova risposta nel suo nuovo meraviglioso film, 2046
appunto.
Dopo la perfezione geometrica e la rarefazione di
in the mood for love, Wong
cambia stile e, in parte, varia i contenuti ma non si snatura e (ci) parla,
sempre e comunque, dell’amore. Amore proteiforme perché eterno, modificabile
nelle forme ma immutabile nella sostanza, coacervo di felicità inenarrabili
e di cocenti amarezze. Fiamme e vampe di passione, in un 2046 ignoto e
disposto al sogno, destinazione (ideale) di treni mentali e (reale) di un
Paese dalla vita pulsante ma dissonante, sballottato dai casi della Storia
così come, sventrati dalle passioni e dai desideri, sono i personaggi di
Wong.
Film, questo 2046, che dividerà e ha già diviso, poiché Wong non si rispetta
e non rispetta quelli che avevano amato il suo precedente opus: là il non
detto e la frustrazione delle tenerezze corrisposte ma eticamente
impossibili/inaccettabili, qua la chiacchiera hollywoodiana da hardboiled e
il cinismo disincantato di esseri umani che, non compresi i sentimenti né la
loro sistematizzazione, ne vituperano persino il ricordo. Il personaggio, il
giornalista Chow ora pure scrittore e in lieve crisi artistica, eppure è lo
stesso, e non sono passati che tre anni dal 1963 in cui, in maniera
tacitamente disperata, si chiudeva
In The Mood For Love. Cos’è cambiato? cos’è successo, frattanto? Non
bisogna chiederselo così come non bisogna aspettarsi un seguito (con tutte
le conseguenze che questa parola, naturalmente, implica): da raffinato
metteur en scene quale è, Wong non dispiega mai una soluzione e si
abbandona, e noi giocoforza con lui, a una riflessione, o meglio a una
rappresentazione che implicitamente accoglie una riflessione, sul tempo che
passa (perduto, sì, ma anche da perdere), sulla memoria, sul ricordo, sul
senso dell’evanescenza delle nostre esistenze, sul mondo che è eterno
femmineo, ‘casto e divo’, remoto e futuribile, fragile, salmastro (il sale
delle lacrime piante e da piangere), di porcellana. Lo stile, dunque,
stavolta non si impenna ma, anzi, va semmai a infangarsi nella messinscena,
cerca l’intoppo cronologico e le pastoie del ritmo più ipnagogico possibile
(come Magrelli sulle pagine di "FilmTv" ha brillantemente suggerito).
Stilisticamente, non si avverte il bisogno di chiarezza, fra andirivieni
temporali ellissi flashback e jump cut: è giusto immergersi
fin da subito nella sublime liquidità di un film che scorre e non sa dove
andare, lasciandosi libero e aperto a tutte le soluzioni. Arie melliflue –
da Casta diva a
Siboney – favoriscono la
dispersione e il disorientamento, gli sbalzi di umore e la (dis)attenzione.
Il melodramma e il noir hollywoodiano, ricercato nelle scenografie e nel
décor all’interno di una stilizzazione tutta orientale, confonde le tracce,
depista il fiuto spettatoriale, annacqua i temi (senza sbiadirli), decanta
le emozioni; la voce fuori campo (aggiunta dopo la, a quanto pare,
semi-disastrosa proiezione di Cannes) commenta e straparla: che Wong sia
impazzito? o siamo piuttosto noi, destinatari del suo far meraviglia, a non
comprendere come il metalinguaggio a cui Wong si è autodisciplinato (nel
film si parla di romanzi scritti, in fieri e da scrivere) debba anche
passare dal vetusto stereotipo e dal banale? e ci potrebbe essere favola,
ora delicata ora struggente sempre lucida, senza l’artificio della
narrazione?
Un recente film mi impone un paragone ininfluente: come Michael Mann,
passato dal dispersivo e ritardante
Heat al compresso Collateral,
Wong agisce in maniera inversamente speculare e, dopo lo sfuggente eppur
compatto In The Mood For Love,
ci consegna un oggetto filmico che si dispiega e si perde deliberatamente,
si contorce su sé stesso, si sfalda in farraginosi sottointrecci per
mantenere, sotto sotto, una coerenza e, se non altro, un’idea di cinema che
ha il rigore e lo specifico della visione come fondamenta. Un film che
piacerà meno e che, dai più esigenti, dovrà farsi piacere. A tutti i costi.
Non importa sapere se, nel 2046, sogni e desideri si possono realizzare
(anche a patto di non recuperarsi per sempre) e se dunque saremo più felici:
con il suo film, Wong sembra suggerirci che l’amore, inconoscibile al tempo
e viceversa, è causa di sola infelicità ma è semmai la sua razionalizzazione
(cinematografica, nel caso del regista) a procurare gli abbrivi emozionali
positivi che tanto cerchiamo nei rapporti umani in generale e in quelli
sentimentali in particolare.
2046, mi pare (e forse mi sforzo) di capire, è un film su anime in pena per
anime in pena che – forze attraenti danno origine a esiti opposti – procura
liberazioni e dispensa catarsi; e ogni suo lacerto, nel suo farsi/vedersi,
rende felici.
01/11/04 |