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CAPTURING THE CITY

Venezia, Piccolo Arsenale, 20 marzo 2010

 

di Gabriele FRANCIONI

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28/30

Introduzione

 

Ismael Ivo spinge la ricerca dei suoi stagisti oltre i limiti fisici di uno spazio performativo e dello spazio corporeo dei danzatori, tentando un'operazione ardita e stimolante in cui l'approccio psicogeografico viene interiorizzato non dal singolo, ma da un folto gruppo di artisti impegnati a trasferire la memoria collettiva di luoghi veneziani - il mercato del pesce di Rialto in primis - entro la ritualità di gesti resi "danza" e a farli rientrare in teatro, dove assumono anche la facies di una rivisitata versione del Butoh, incrociata a elementi di performance art.

 

 

Un'operazione, sulla carta, impossibile.

 

L'innesto di public art e metodologia d'indagine debordiana dello spazio urbano, da una parte, e danza giapponese, dall'altra, ha invece un'intima coerenza: il meccanismo di base è comunque quello del ribaltamento interno/esterno e viceversa:

A) entità psichica che interagisce con lo spazio esterno, oggettivizzandosi, diventando altro nell'invenzione di Hijikata e Ohno (quello spazio/un oggetto/un animale);

B) spazio esterno o pubblico interiorizzato (soggettivizzato) nella visione di Guy Debord.

 

Flash Mob

 

L'audience è immediatamente inserita in questo meccanismo, quando è ancora nel foyer virtuale della calle: in un lampo di flash mob, corpi s'abbandonano a terra e sono congelati dal comando vocale di Ryuzo Fukuhara, come nelle subways londinesi o di New York. Cadono/cadiamo in una rete onirica, per poi ondeggiare a mo' di anguille verso l'entrata.

 

 

Dopo l'incipit, quasi risvegliatesi dall'avere sognato l'intera città di Venezia e uno dei suoi fulcri simbolici, le menti trasferiscono questo sogno collettivo nell'ambiente riassuntivo e sintetico del teatro.

 

Ciò che avviene dopo, in un mix continuo di posizionamenti e schegge coreografiche che ricollocano continuamente il pubblico sul palco o lontano da esso, non è altro che la ri-creazione di quel sogno.

 

The city

 

Venezia - oltre la semplice riproduzione iconografica zenitale "a delfino" - è un pesce, come vuole Tiziano Scarpa, o una donna che si offre, con i canali d'entrata e le navi-fallo e le gondole sezionate orizzontalmente a segnare l'evidente equivalenza con l'organo femminile ("Occhi sulla graticola", Einaudi, 1996).

Venezia è dunque un pesce, una donna e una città senza mura.

è quindi un animale, un'offerta, un'apertura.

Un incessante svilupparsi di linee d'entrata e uscita e di scambi d'acqua, liquidi e materie, che un tempo passavano principalmente per Rialto, dando per sottintesa la necessità del rito popolare (e colto) che celebrava e celebra anche oggi la Messa a morte degli animali come sacrificio vitale. 

 

 

 

"Capturing the City"

 

Nulla va perso nella gestualità sacrale che fa del pescespada mozzato il calice pieno di sangue portato in giro per la chiesa laica posta sotto la copertura del vuoto architettonico detto "mercato".

Immaginiamo olfatto e gusto, ma il resto (l'ascolto di una ricetta col nero di seppia/la visione diurna del lacerto cittadino strappato e appeso in forma di video/ il tatto di sirene tatuate) rivive qui dove si costruivano navi, si progettavano oggetti per l'acqua e la pesca.

 

 

Tra la messa in rappresentazione del pesce avvolto nella pellicola e la morte a singulti nelle vasche di rosso metallo sanguinante del simmetrico finale, sta tutto lo spettacolo, che utilizza -reinterpretandola- la gestualità sincopata e simil-butoh dell'animale in transizione tra due stati.

 

"I'm just an experiment...for I feel like an experiment", apre e chiosa Marta Lastowska in più lingue, dopo essere passata dal palco - dove era diventata l'animale, secondo logica Butoh - alla gradinata, che è banco d'esposizione di branzini umani, capaci di risalire di schiena le alzate che portano in scena. 

 

Altare, cubo, onde sonore...

 

Da questo momento in avanti, lo spettacolo fa interagire danza e performance: i ballerini alternano momenti sul palco e in mezzo alla platea, fin sulle sedie. Agiscono passi e gestualità nervosi, con improvvise aperture degli arti, per poi definire un più fluido intrecciarsi dei corpi, quando impegnati nel corridoio tra i posti a sedere. Più tardi mimeranno dei pescatori che trascinano la rete ormai piena.

 

 

 

Sandra Français rimane sul palco, descrivendo movenze sinuose, sulla sinistra, mentre Ivelice Brown si colloca in fondo alla scena, poi avanza. Altri -nella costante riproduzione personale e condivisa, privata e collettiva dei momenti vissuti al mercato di Rialto - si assestano sugli schienali dei posti per il pubblico.

Essi diventano lo spazio e l'animale.

è in questo momento che ascoltiamo l'audio della ricetta, raccolto dai ragazzi dello IUAV.

 

 

Un nuovo schema prevede la proiezione del video con la testa mozzata del pescespada (1); alcuni ballerini e ballerine che entrano ed escono da una specie di traliccio (forse) a moduli romboidali, quasi una rete metallica protrusa nello spazio (2);un danzatore da solo, sul palco, e una ragazza altissima tra il pubblico (3).

 

è alta la temperatura emotiva dell'insieme, perché i sensi vengono stimolati in una simultanea riproposizione dell'esperienza audio-visiva vissuta a Rialto.

 

  

 

Lenta agonia

 

Il pubblico è quindi invitato sul palco, separato in due tronconi laterali. Catene di ballerine - o le stesse, ma isolate - mimano l'agonia coreografica del pesce. In particolare una performer che interagisce con Sandra Français (quest'ultima tatuata con scaglie di hennée sulla schiena) rende perfettamente la sequenza di movimenti che avvicinano alla morte. Splendido un suo ribaltamento all'indietro del capo, gli occhi come quelli dell'animale, ormai fissi e una sequenza finale di scatti degli arti inferiori, che la disarticolano completamente.

 

 

 

Emozionante.

 

 

Français opta per un'agonia più fluida nei movimenti, ma con grande occupazione dello spazio, ovvero grande uso degli arti superiori e inferiori. 

A destra "i pesci" sono in una teca morbida che è acqua(rio?).

 

  

 

In the Net/ictùs, a ritual last supper

 

Suoni sintetici introducono l'ultimo stadio del percorso di "Capturing the City".

La rete questa volta è in corda e il richiamo all'intrappolamento degli animali si fa più diretto.

 

 

I ballerini, lottando contro la griglia bidimensionale che li stringe, creano un fluido movimento che, una volta di più, non si basa su dei passi precisi, ma sulla libera interpretazione -che il Butoh suggerisce- dello spazio circostante.

Ciascuno, quindi, cerca di creare una cinesi agitando la corda intrecciata e di ricevere dall'oggetto-rete una spinta uguale e contraria.

Ancora una volta è Sandra Français che fa un'ultima capriola dentro uno dei "buchi" della rete, per poi tenderla ancora e rilasciarla definitivamente.

 

 

 

Il finale - "Ritual"- è la celebrazione sacra dell'intero tragitto performativo, officiata da Ryuzo Fukuhara, che porta un pesce tra i denti, scendendo lentissimamente i gradini del palco.

Ai lati gli altari alti delle vasche grondanti liquido ematico e ballerini-pesce.

Avvolto in una garza, l'animale è come Gesù portato nel Sepolcro.

 

Poiché il pesce è notissimo simbolo eucaristico e in greco ("ictùs") è l'acrostico di Jesus Xristos Theou Uios Sator - Gesù Cristo, figlio di Dio salvatore - l'impostazione ritualistica dell'intero spettacolo, con una conclusione da ultima cena, risulta assai pertinente.

 

 

 

Sui gradini davanti al pubblico, l'ultima (s)cena vede raccolti tutti i ballerini attorno alla celebrante Marta Lastowska.

"For I feel like an experiment...".

 

 

 

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CAPTURING THE CITY

Venezia, Piccolo Arsenale, 20 marzo 2010