biennale teatro 2011

 

Socìetas Raffaello Sanzio

Sul concetto di volto nel Figlio di Dio
ideazione e regia Romeo Castellucci

 

13 ottobre h19, Teatro Piccolo Arsenale

 

di Gabriele FRANCIONI

Socìetas Raffaello Sanzio: scheda

con Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella e con Dario Boldrini, Silvia Costa e Silvano Voltolina musica originale Scott Gibbons collaborazione all’allestimento Giacomo Strada realizzazione oggetti Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso suono Marco Canali in alternanza con Matteo Braglia luci Fabio Berselli produzione esecutiva Socìetas Raffaello Sanzio coproduzione Theater der Welt 2010, deSingel international arts campus/Antwerp, Théâtre National de Bretagne/Rennes, The National Theatre/Oslo Norway, Barbican London and SPILL Festival of Performance, Chekhov International Theatre Festival/Moscow, Holland Festival/Amsterdam, Athens Festival, GREC 2011 Festival de Barcelona, Festival d’Avignon, International Theatre Festival DIALOG Wroclav/Poland, BITEF (Belgrade International Theatre Festival), spielzeit'europa I Berliner Festspiele, Théâtre de la Ville–Paris, Romaeuropa Festival, Theatre festival SPIELART München (Spielmotor München e.V.), Le-Maillon, Théâtre de Strasbourg/Scène Européenne, TAP Théâtre Auditorium de Poitiers- Scène Nationale, Peak Performances@Montclair State-USA in collaborazione con Centrale Fies

30/lode

Per farla finita col giudizio di dio.

Ecco l'angoscia umana in cui lo spettatore dovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro (Antonin Artaud).

 

Interno, bianco soggiorno clinico: un vecchio avvolto in un accappatoio-sudario siede davanti al televisore e guarda un documentario. Guarda gli animali.

Il figlio gli porta dei medicinali, sta per uscire. I piccoli gesti quotidiani, ritmati con pazienza, vengono violentati da un attacco diarroico dell’ anziano, che crea subito una frattura, una sincope.

La macchia marrone dilaga sull’ accappatoio.

Attorno, le geometrie precise di un arredo astratto: divano squadrato (bianco); tavolino rettangolare (bianco); letto ospedaliero (bianco).

L’ accenno vago a una linea di forza esterna - l’appendiabiti che dovrebbe essere vicino a una porta, quindi a una via di fuga- è quasi abbandonato dalla luce, dietro.

Seguono: il rito lento e cadenzato della nettatura, i guanti in lattice indossati dal figlio, il secchio d’acqua, i pannoloni e la leggera camicia azzurra medicale.

Tutto crea una situazione, descrive una condizione e non stabilisce alcuna premessa drammaturgica.

Incombente, la riproduzione di un volto cristologico (Antonello da Messina), è l’unico fattore esterno che pone domande, stabilendo una linea diretta con i due umani in scena, infilzati dallo sguardo del Cristo, terminando la sua funzione sull’asse occhi-spettatore.

La malattia, inarrestabile, provoca altri due attacchi, altre macchie scure su sfondi chiari, altre pulizie, altra trattenuta disperazione.

Il limite viene quindi raggiunto/l’urlo lanciato.

Sul figlio piegato e dolente, mentre il padre è in una pozza di feci, cambiano le luci: se risposta doveva essere data (allo sguardo, a quella interrogazione), essa sta nella sconfitta priva di speranza del figlio, che chiama, prossima, la morte del padre.

 

è persino imbarazzante doversi esprimere con parole sull’opera di Romeo Castellucci, laddove sarebbe sufficiente un’assunzione di verità a priori e condivisa, grazie alla quale si rinuncia al logos e si comunica diversamente (attraverso grafie, suoni).

Ribaltando l’irrappresentabilità dell’icona, mettiamo in atto l’irriferibilità della/alla parola, muovendoci dentro l’assoluto artaudiano dal quale, se vogliamo parlare di contemporaneità dell’arte, è impossibile prescindere.

Questo ragionamento castellucciano sul volto del figlio di Dio non fa altro che espellere Dio stesso dalla scena.

Vi rimane, immota ma non compassionevole, umanissima ma inattingibile, la restituzione del Figlio fattane da Antonello da Messina, la quale, un giorno, uscendo letteralmente da un libro, ha condotto lo sciamano romagnolo sul terreno di nuove indagini.

Calata in un gelido ambiente da sit-com spento dal biancore mortale di un arredo a metà tra ospedale e living room (che sono la stessa cosa), la faccia del Cristo non riscalda il nitore borghese della dualità tragica esperita: il figlio pulisce il padre incontinente tante volte quante potrebbero essere le stazioni di un’intollerabile via crucis.

Ne esce sconfitto, tra lamenti alogici di pura phonè paterna terminale e puzza di merda.

Ecce homo, sì, ma per entrambi.

Va quindi verso la bocca dipinta da Antonello, vittima del vuoto di dio, spento dalla mancata e sperata cristo-fania, in attesa del nulla.

Castellucci, nell’incontro del giorno dopo, parla di e/scatologia, di necessità di gettare luce divina sull’elemento scatologico e viceversa.

Cosa che accade in scena: ritiratisi i due umani nel silenzio di una generale e totale messa a nudo, scomparsi dietro il viso sottratto a un corpo, il Corpo generatore di tutta l’Arte, qualcosa di antropomorfo, ma che va oltre una chiara identificabilità, lancia escrementi da dietro contro la riproduzione alta sette metri e mezzo.

Retro-eikonoklastèia, per così dire, che riduce a brandelli il Cristo, poi strappato del tutto.

Rimane una grafia, che è la contro-invocazione e l’urlo assoluto, per quanto muto, di tutti coloro che si ritrovano conficcati in fondo all’umana gerarchia, dopo aver attraversato la panteoria del pathos. L’urlo, a caratteri luminosi deposti entro la cornice invisibile definita da Antonello, dice: “(non) sei tu il mio pastore”.

Sul palcoscenico scorre ormai solo un fiume di feci, che, esondando, ha spostato altrove la clinica geometria dell’ambiente composto nel Quadro-1.

Anche in quanto a campo espressivo, il tutto ha già esondato oltre l’argine, incuneandosi in una deriva retorica di pura metafora (il padre svuota una tanica di liquido fecale sul letto, a mo’ di chiosa) di grande effetto. Che non è, ovviamente, racchiuso solo nell’odore della merda, sottolineato, al solito, da immarcescibili non vedenti raccolti a capannello fuori dal Teatro Piccolo Arsenale.

Nemmeno l’essente privilegiato, Dio, come direbbe Severino, ha qui la forza di resistere al nulla. Il non-niente, l’essente, la Cosa, implode nel buco nero del suo opposto, portandosi dietro/dentro l’intera filosofia occidentale.

Siamo tutti, Cristo e Dio inclusi, indegni di essere.

 

Come sempre per Societas Raffaello Sanzio- non una compagnia, non un regista, ma la vita stessa oltre ogni mera e volgare rappresentazione- tutto va resettato, a cominciare dalla testa dello spettatore, dalle sinapsi del pubblico e dei critici. Questo accade da tre decadi, purtroppo, poiché qui, pur non discettando di “creatività a termine” di un singolo,  dell’istrione che si ripiega su se stesso dopo essersi auto-parlato, ma di un auto-farsi, appunto, della Vita, il pubblico sembra ancora ostinatamente sorpreso e sospeso, dopo un evento castellucciano, alla ricerca disperata e disperante di un appiglio, di un “colui” da attaccare o, di converso, cui attaccarsi.

Comico palingenetico o dio buffo, Romeo Castellucci è ancora un problemos per la misera porzione di Occidente che si ostina a non voler guardare, quindi destinandosi a non vedere.

Ovunque hanno compreso come il fondatore di S.R.S. sia, molto semplicemente, colui che fa Artaud, che respira con lui, che lo mette e rimette in vita.

Di A.A. come mandante, egli è, anzi, l’esecutore totale.

Possibile che nessuno l’abbia capito?

Non sempre piovono automobili, ma proprio per questo è chiara la diretta discendenza del cesenate. L’iperrealismo, correttamente ricondotto da qualcuno al Purgatorio della trilogia, sembra non appartenere al teatro della crudeltà, poi ti accorgi però che il pugno alla bocca dello stomaco è ancora più forte.

Ogni volta ci dev’essere qualcosa di diverso e, stavolta, è pura diabolica puzza di morte, senza multi-sollecitazioni multisensoriali.

è un passo dentro la recherche de la fecalité: dove Romeo diventa Pier Paolo.

Quasi apice della trilogia e apertura di un ragionamento sulla facies inattingibile/in(di)mostrabile del volto divino (ne sarà sviluppo IL VELO NERO DEL PASTORE, a breve a Romaeuropafestival, che porta il problemos dentro la Comunità), SUL CONCETTO DI VOLTO NEL FIGLIO DI DIO è l’esposizione, quasi l’installazione di uno spazio  totalmente non-teologico.

Sia perché, tautologicamente, non v’è (più un) dio, sia perché, con Derrida, in esso si fa morte del sistema della rappresentazione, declamata silenziosamente e compiuta sotto l’accecante luce piatta di una scena fissa o natura morta sistemata come un achrome di Piero Manzoni.

Non c’è Dio, non c’è un deus ex machina, nessuno tira le fila, che, lasciate andare, cadono e semmai tirano giù letteralmente il tentativo rappresentativo-iconizzante del cristo antonelliano.

Manifesto installativo che non seda  il perenne desiderio di rivolta castellucciano, cui aderiamo da sempre, il lavoro presentato a Biennale Teatro è il punto più alto della rassegna.

 

Il teatro è ciò che avviene tra l’attore e lo spettatore (Jerzy Grotowski).

Il teatro definitivo avviene nel corpo dello spettatore (Romeo Castellucci).

 

SITO UFFICIALE

 

biennale teatro 2011

Socìetas Raffaello Sanzio

 

10 ottobre > 16 ottobre 2011