biennale danza

ARSENALE DELLA DANZA 2011

 

Project, don’t look now

Performing Arts Research

and Training Studios (Belgio)

15 maggio ore 20.00

 

di Gabriele FRANCIONI

Project, don't look now: scheda

Ideazione Xavier Le Roy
direzione del progetto Xavier Le Roy, Mårten Spångberg
con Camille Durif Bonis (FR), Nestor Garcia Diaz (ES), José Paulo dos Santos (BR), Vedis Kjartansdottir (IS), Radouan Mriziga (MR), Simon Portigal (CA), Victor Perez Armero (ES), Michiel Vandevelde (BE), Cyriaque Villemaux (FR), Mohamed Toukabri (TN), Miriam Wolf (USA), Youness Khoukhou (MR)

26/30

Ismael Ivo ha avuto il merito, in questi sette anni, di indicare, stabilire e confermare rapporti d’interscambio culturale con istituzioni nazionali -Canada, Brasile, Olanda, Belgio- fortemente connotate nel senso di una sperimentazione spinta e di un’apertura a forme estreme di rappresentazione scenico-coreografica quali possono essere la danza hip-hop o la capoeira o impegnate in una riattualizzazione del panorama complessivo della danza contemporanea

Il radicale, e ormai irreversibile, atteggiamento critico, inaugurato da Carolyn Carlson e ribadito da Ivo, apre la strada anche  alla possibilità di portare in scena lo stesso ragionamento “teorico” sulla natura della danza, sul suo ambivalente rapporto con il pubblico, addirittura su matrice/natura/senso dei passi, dei gesti, delle figurazioni.

 

“Project, don’t look now” rende esplicita questa possibilità di allestire uno spettacolo come metatesto fatto di segni e ri/pensamenti (o ripiegamenti) sugli stessi, collocando lo spettatore in una posizione controvoyeuristica di oggetto spesso osservato - lo abbiamo notato anche in "Pororoca" e "Babilonia" - e quindi indeciso sul da farsi.

Luci sempre accese in sala, quasi imbarazzanti, salvo brevi momenti di passaggio da un “quadro scenico” all’altro.

A corredo, segmenti di dodecafonia anomala - nientemeno che la “Lyrische Suite” di Alban Berg- finalizzati a rendere l’insieme ancor più arditamente concettuale.

Il risultato di due settimane di workshop è, di fatto, un work in progress che non vuole terminare e non deve definirsi in alcun modo.

S’inizia significativamente con una specie di non-danza dei non-vedenti, quindi con l’interrogazione su come possa il movimento organizzato coinvolgere gli altri sensi di un ballerino e influenzarne il vocabolario espressivo.

In pratica: per capire come nasce un segno/gesto coreografico, dobbiamo immaginarci una condizione primordiale, in cui ri-nasciamo al mondo, all’inizio CIECHI, ma con gli altri sensi iper-sviluppati.

In questa fase la parola si sostituisce al vedere e l’interrogazione metatestuale è assolutamente esplicita.

Danzano le parole, si muove il Logos.

Lo spettacolo si sviluppa ossimoricamente - ancora, come "Pororoca" - in forma di “tableaux vivents” dinamici.

I ballerini si raggruppano in numero di quattro e, accovacciati a terra, discutono (sul senso del fare e del danzare).

Raggiunti da una donna, combattono per qualcosa che sfugge a tutti.

A seguire - quindi secondo uno schema A/B/B/A, dove A sono le scene in piedi e B quelle a terra - tutti si rialzano, ma hanno acquisito il senso della vista (coscienza del senso della danza) e cercano altrove, ovvero nell’osservazione dello spazio vuoto che li circonda, i verba, le parole, ovvero i movimenti primari del corpo, per poter finalmente passare alla fase di ESECUZIONE, dopo aver terminato quella di CONCEZIONE.

Letteralmente, essi “vedono” nel vuoto le parole/gesti, quasi fossero presistenti al loro cogitare: la danza esiste già, nel vuoto, nell’aria e deve solo essere presa, còlta, quindi riprodotta.

I ballerini - per l’ennesima volta: come in "Pororoca" - non espongono tutti un fisico asciutto (non devono averlo) e correttamente ci mostrano un armamentario svogliato di jeans e t-shirts.

D’ora in avanti, e sino alla fine, tornano uno schema in B (appostamento a terra, rivolti verso il pubblico) e un’A prolungato, durante il quale verifichiamo che ormai la danza ha preso forma anche di relazioni tra gesti/parole, sviluppandosi in discorso e confusione di corpi.

Da singolo vocabolo a frase, inizia l’interazione, che è tutta un contact primario.

Màrten Spangberg non si preoccupa di deliziare il pubblico, strappato anzi con violenza (basterebbero Berg e le luci alte) al suo ruolo passivo.

Il discorrere metatestuale è una chiara eredità, sia per il coreografo con base a Stoccolma che per Ismael Ivo, degli anni Settanta, che sembrano aprirsi un varco (non solo nella Danza) negli anni Dieci del Terzo Millennio.

Interdisciplinarietà è la parola d’ordine, al punto che Xavier Le Roy, da cui viene l’idea originale di PROJECT, DON’T LOOK NOW, è laureato in biologia e Spangberg è anche un noto critico.

 

Performance gemella di "Pororoca", a nostro avviso, dove conta esclusivamente il coinvolgimento dello spettatore nell’analisi del senso primario della coreutica.

Nella - decadente? - epoca del “WEB 2.0” è già entrata in crisi la nostra identità virtuale  e la ricerca del corpo a corpo è sentita da più parti come necessaria, vitale.

A Firenze, non a caso, si apre in questi giorni una mostra (“Identità Virtuali”) che ragiona criticamente sul precocissimo sfarinarsi della maschera trasparente che il world wide web era andata costruendoci attorno/sopra/davanti negli ultimi tre lustri.

Benvenuti Anni Dieci, benvenuto DON’T LOOK NOW!

SITO UFFICIALE

 

biennale danza 2011

arsenale della danza
11 maggio > 25 giugno 2010