biennale teatro

40. Festival Int. del Teatro
il giavellotto dalla punta d'oro

Fondamenta Nuove, martedì 3 marzo
 

di Gabriele FRANCIONI

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- Il Giavellotto dalla Punta d'Oro

Epitome tragica dell’impossibilità di tradurre la fantasmaticità aurale del Mito in Parola o Cosa e allo stesso tempo icona narrativa dell’impossibilità del desiderio femminile di trovare fine, rinunciando alla natura artemidale di quello, il racconto inedito di Roberto Calasso mirava altissimo, là dove si discettava, in anticipo, quasi sulla cosità della Cosa heideggeriana. O della natura sfuggente dell’Ente. O della qualità ineffettuale del desiderare.

La resa in forma di Logos dei personaggi mitologici e delle loro scorribande per i territori della Metafora, è una pretesa vana, che si autodenuncia proprio quando - e quanto - maggiore è lo sforzo di produrne una versione estesa, scorrevole, apparentemente leggibile, “spiegata”.

Procri, la splendente ateniese adultera -ma anche vittima degli strali di Gelosia- figlia di Eretteo e datasi in sposa a Cefalo (cacciatore) poi rapitole dalla dea Eos, intraprende una sorta di viaggio iniziatico per i territori dell’ eros, dove la selva di Creta, la natura ferina di Minosse e l’incontro con Artemide stessa sono tappe di un cangiante labirinto sessuato in cui il concedersi e il cacciare devono condurre a una meta, che è poi il ritorno ad Atene.

Quando la bellissima Procri, dunque, dopo aver ricevuto un doppio dono -2 giavellotti d’oro e 2 cani più potenti degli dei- da Minosse e Artemide stessi, torna in patria e riabbraccia Cefalo regalando a quello gli strumenti della caccia, stabilisce e fissa l’ attimo della propria fine.

è vero, lei ha molto tradito, concedendosi con piacere massimo se massima era la natura illecita del darsi - in primis a Minosse - ma il suo percorso, che traccia la linea del racconto, scatena e fissa le coordinate di una dinamica apparentemente multiversa, ma in realtà a senso unico: l’oggetto amato sfugge sempre, mentre nel concedersi è assoluta e totale la distanza da chi ci possiede.

Una catena destinata a rimanere aperta, dunque, quella in cui il lascivo Minosse - che fa sue tutte le ateniesi di passaggio per Creta, amando nessuna - improvvisamente rivede in Procri l’unica donna veramente desiderata e mai avuta (Britomartis, poi gettatasi in mare e salvata dai pescatori all’insaputa del re dell’isola, quasi immaginandosi quella rinascere sotto le spoglie della giovane cacciatrice).

La quale, però, non lo ri-ama, così come (vedremo) non è ri-amata da Cefalo, a sua volta lasciato da Eos e compulsivamente attratto dai simulacri (di Hera e altre) o da Aura o Nefele, inseguite come nebbia  tra i pini ateniesi, ma, appunto, immateriali ed altrettanto sfuggenti.

In tale contesto, insomma, la regale e potente Procri, pienamente se stessa solo nell’ incontro con Artemide, quindi nella sua natura di cacciatrice, è lo snodo di un movimento irresoluto stabilito dalla teoria infinita di figure/nomi mitologici che percorrono, volutamente intasandole, le strade di un mirabile scandaglio del desiderio impossibile: privata della sua forza (giavellotto e cane in mano a Cefalo), decide di creare uno iato, appunto, tra il possibile i l’impossibile e di porsi, fisicamente e simbolicamente, come momento di discontinuità in tale catena desiderante

Geme nascosta dietro al pino sbirciando Cefalo intento a chiamare Nefele, il cane Lailaps la punta abbaiando, e lo stesso Cefalo la trafigge col giavellotto pensandola altra preda.

Tutto il resto è affabulazione - correttamente ripresa dall’adattamento teatrale di Giorgio Marini - mentre qui conta il sostare di fronte a cotanta morte.

Solo qui, solo ora il testo di Calasso e l’ordalia di nomi costituenti le facies del Mito, svelano la matrice di un pensiero debole, di cui si parlava all’inizio. 

L’oggettivizzarsi del desiderio, come pure quelli del Logos che rincorre simulacri (persino capaci di procreare!), dee, semidei ed umani per affibbiare loro un nome e un contesto, per renderli “cose controllabili”, muoiono con Procri e tutto ritrova, se vogliamo, un senso.

Il problema della traduzione sub specie teatrale (quindi abbozzi di scenografie, gestualità abortite, recitazione “eccessiva”) è quello del voler dare comunque un nome, anche qui, una caratterizzazione ai tipi  messi in campo, che non è richiesta.

Passino lo sminuzzamento del verbo, la decostruzione della frase, il gioco multilinguistico, la forza seduttiva dei corpi delle Ninfe o della stessa Procri.

Il problema è che ciascuno è troppo se stesso e non il rimando generico cui andrebbe riferito; è troppo cosa oggettivizzata e nominata, e su questi personaggi eccessivi  i coriandoli del verbo tagliuzzato svolazzano ineffettualmente, non aderendo ai corpi, perché, appunto, troppo corpi e non metafore.

Si sarebbe, forse, dovuto creare un movimento continuo, una rincorsa a perdifiato di corpi desideranti chi non ti desidera, invece che seguire alla lettera Calasso.

Perdersi nel pulviscolo, piuttosto che rendere troppo visibili e tangibili cose come la vescica di capra, gli iper-giavellotti, il comico Minotauro ipertroficamente adagiato sulla parete di fondo (un motivo in più - per noi - per soffermarci sulle grazie delle varie  Federica, Rossella, Silvia, Elena, Serena, Maria Grazia, Letizia e Anna Paola, finalmente non nomi mitologici…!).

L’ erotismo, pure, è a bassa temperatura, nonostante qualcuno possa pensare il contrario, mentre sarebbero state opportune danze continue, girotondi afrodi(oni)siaci in chiaroscuro, mentre la luce acceca la scena quasi sempre.

Brava Anna Paola Vellaccio (Procri), calibrata Aide Aste (Artemide).

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il giavellotto dalla punta d'oro

Fondamenta Nuove, martedì 3 marzo