CHAIN OF FEATHERS
Mauro de Candia
Penombra. Si scorge una scenografia composta da
due soli elementi: una sorta si scala di legno sulla sinistra e una scultura
modulare di legno sospesa a mezz’aria, sulla destra.
De Candia indossa un corpetto panna e dei pantaloni di velo, linee colorate,
verdi e blu, vengono proiettate sul suo corpo e sulla struttura a forma di
scala alle sue spalle.
L’atmosfera è sognante, il danzatore si appende ai piani di legno come in
volo, come se questa operazione non gli abbia richiesto il minimo sforzo.
Una proiezione con l’immagine di un albero inizia ad ondeggiare sul palco
seguendo i movimenti del corpo: dapprima lentissimi, poi più veloci, ma
sempre mirabilmente fluidi, sinuosi, come se le braccia non creassero nessun
angolo con i gomiti.
Ogni movimento é propagato da una piccola scintilla che prende il via
all’interno del corpo, fino ad arrivare alle mani, alle dita, da cui a loro
volta sembrano partire delle nuove spinte, che si irradiano facendo ritorno
come un’onda nel profondo del danzatore.
Eccolo sdraiato sulla schiena, con le braccia sospese: danza ogni singolo
dito delle sue mani, tessendo piccolissimi arabeschi invisibili.
Ad un tratto la scena resta vuota, la scenografia immobile, attraversata da
proiezioni sulle tonalità del verde: la vera protagonista è la musica, con i
bassi molto sentiti e un motivo orientaleggiante.
De Candia si ripresenta con un copricapo dorato e una veste che si allarga
con protuberanze su una spalla e su un’anca: inizia un ballo concitato,
produce versi con la bocca, contorce il viso in espressioni sguaiate, poi
sgrana gli occhi, sorride in modo rocambolesco, sembra mimare delle visioni
oniriche, delle chimere, sembra che il suo corpo sia pervaso da un’energia
che ha il sopravvento su ogni tentativo di controllo. Lascia il corpo libero
di assumere ogni sfumatura, di farsi trapassare da ogni impulso, lascia la
mente sgombra da ogni interferenza con la realtà: sembra totalmente
proiettato in una dimensione altra.
La danza si snoda lungo traiettorie di luce disegnate a terra, poi lungo un
corridoio di luce tridimensionale sul fondo del palco.
La musica del pianoforte lascia posto a suoni digitali, a voci robotiche che
parlano mentre delle animazioni grafiche si muovono all’impazzata sulla
scena: il danzatore compone pose immobili, come se si trasformasse di volta
in volta in una piccola statuina.
Poi si leva le protuberanze e inizia ad assumere le movenze di una
marionetta. Sembra un androide uscito dal film “Blade Runner”.
Una luce accecante viene sparata negli occhi del pubblico.
Il tempo sembra restare sospeso per la durata di un respiro profondo.
Una cascata di riso bianco cade dall’alto: bianca, fragorosa, enorme,
liberando un pulviscolo bianco, che crea una nebbia delicatissima.
De Candia inizia a muoversi sul riso, si sdraia sul tappeto bianco e i
chicchi si appiccicano sulla sua pelle sudata disegnando delle sagome sul
suo corpo, lasciando delle impronte sul palco, arrossandogli la pelle: una
visione raccolta, sentita, fatta di riso, di pelle, di sudore, di respiri.
La danza mette in comunicazione De Candia con qualcosa che noi non possiamo
vedere, è partecipe di un rito mistico che lo spinge ad estraniarsi da tutto
il contesto, si ha l’impressione di essere dinnanzi ad un varco, di
affacciarsi ad una dimensione altra in cui il ballerino è totalmente
immerso.
Un ultima nota al pianoforte, e poi un fracasso di vetri rotti.
La scena rimane illuminata e tutti gli spettatori prima di uscire si
avvicinano increduli, cercando di riprendere contatto con la realtà. |