LA BAMBOLA DI CARNE
Letizia Renzini
Nero. Inizia la proiezione del film Die Puppe di Lubitsh su uno schermo al
centro del palco.
La pellicola cinematografica si deforma ampliandosi su due schermi laterali
per poi sfumare in uno sfondo rosso, nello stesso momento in cui sulla
destra della scena compare una consolle e inizia un dj set a cura di Letizia
Renzini. Sulla sinistra, come un’ombra cinese, un corpo, quello di Marina
Giovannini, inizia a muoversi lentamente fino a raggiungere un ritmo
frenetico, ad attorcigliarsi su se stesso con movimenti sempre più veloci,
quasi convulsi.
La pellicola continua, alle spalle delle due donne in scena, mescolandosi
con un’animazione che presenta una serie di ragni neri, stilizzati, che si
muovono e si moltiplicano fino a far tornare tutto nero.
Le didascalie del film muto compaiono puntuali seguendo lo scorrere della
trama e sembrano rapportarsi in modo interrogativo con quello che accade in
primo piano, ma senza ricevere risposta, senza avere un rimando con il
presente, con quello che sta accadendo in diretta: si tratta di due
dimensioni temporali che scorrono una accanto all’altra ma senza interferire
tra loro, senza che qualcosa le attraversi per metterle in contatto.
Ha inizio un passo a due della danzatrice con la musicista: si muovono
lentamente, con movimenti semplici, sincronizzati, robotici, rigidi,
scattosi, con gli occhi spalancati, fissi. Poi si scambiano di posto e la
danzatrice propone la sua musica al mixer.
I costumi sono semplici, forse un po’ scontati: pantaloncini corti blu e una
canottierina bianca.
Alle loro spalle, l’interminabile frame fisso del momento cruciale del film:
la Bambola rotta, riversa sulle scale, senza un braccio.
Finisce il passo a due, ognuna torna al suo ruolo, mentre il film continua a
scorrere: nessuna è stata eccelsa nei panni dell’altra. Quale il fine di
questo scambio di ruoli? Dimostrare che una danzatrice può avere
dimestichezza con la musica? O che una musicista può avere coscienza di
muovere il suo corpo? Che ogni ruolo ha le sue peculiarità tecniche?
Il film continua, ancora, inarrestabile: la bambola viene sostituita con una
donna vera, in carne ed ossa, inizia un gioco di segreti e ammiccamenti,
ironia e scaltrezza.
Allo sguardo del pubblico viene presentata una lunga animazione in bianco e
nero che occupa i tre schermi costruendo una sorta di scenografia domestica
che rimanda, nello stile, al mondo dell’infanzia: una poltrona sullo schermo
di sinistra, un orologio a pendolo al centro, un candelabro sulla destra,
con piccoli dettagli che si muovono.
La danza, assente per una considerevole porzione di tempo, riprende
all’improvviso: Marina Giovannini torna in scena con un costume androgino,
color carne, che le avvolge interamente una mano ed un piede. Si muove come
se il suo corpo fosse attraversato dalla corrente elettrica, ad una velocità
che non sembra poter essere umana: un assolo vorticoso che lascia senza
fiato e fa venire la pelle d’oca.
Il film continua: Lancelot cerca di spogliare la sua bambola, lei ha fame ma
non può mangiare per non farsi scoprire, lo sposo è perplesso davanti al
libretto di istruzioni della bambola che ha appena sposato.
Viene portata una piccola montagna di bambole giocattolo davanti alla
proiezione: le due performer le prendono e le lanciano sparpagliandole per
il palco. Il fine ultimo di questo atto, di questo “rito”, non viene
svelato.
Finalmente la Giovannini ricompare in scena da sola, per offrire un
intervento intimo, delicatissimo: con un rettangolo di plexiglass rosso
trasparente mette di volta in volta in evidenza una parte del suo corpo.
Prima lo mette davanti ai piedi, poi al braccio, poi al lato del corpo,
della gamba, della pancia: piccole fotografie a raggi infrarossi che
mostrano le parti di un corpo vivo, fatto di pelle, di sudore, di muscoli. I
movimenti fluiscono lentissimi, con una grazia celestiale: sembra
impossibile credere che nella sequenza precedente fosse proprio questo
stesso corpo ad aggrovigliarsi su se stesso in modo concitato, frenetico.
Riprende il film. Al centro del palco viene portata la consolle che poggia
su un supporto cavo: all’interno c’è il corpo della musicista, anche la
danzatrice si infila nello stesso spazio angusto mentre due telecamere
riportano in diretta le immagini dell’interno proiettandole sugli schermi
laterali.
Il film continua imperterrito sullo schermo centrale: la bambola si spaventa
alla vista di un topo e Lancelot capisce che si tratta di una donna vera, si
abbracciano e scappano insieme.
Nello stesso istante la Giovannini e la Renzini escono dal cubo per un
applauso finale vestite da bambole.
Usciti dal teatro una serie di schermi presentano delle riprese di passi e
coreografie che vedono la Giovannini come protagonista: viene spontaneo
domandarsi cosa abbia spinto ad un interazione così poco riuscita quando le
capacità artistiche e tecniche di questa danzatrice avrebbero potuto da sole
tener banco per uno spettacolo di altissimo livello?
Il film ha continuato il suo corso in secondo piano, da un lato il
virtuosismo degno di nota di una danzatrice strepitosa, dall’altro la musica
sperimentale di una musicista piena di talento, e poi le animazioni, la
montagna di bambole, i vestiti da bambole indossati alla fine: tutto si è
riflesso costantemente su se stesso, con un autoreferenzialità scontata,
morbosa, delegando il capolavoro di Lubitsch al ruolo di semplice sfondo.
Corpi, videoproiezioni, luci, musica elettronica: sono ingredienti
indispensabili alla danza contemporanea?
è ancora necessario tutto
questo “rendere manifesto”, tutto questo “creare contaminazioni”? I diversi
linguaggi non hanno bisogno di sovrapporsi se non di al fine creare una
sintesi accurata, priva di ovvietà, priva di rimandi scontati. Sempre più
spesso queste commistioni azzardate si allontanano dall’obiettivo di creare
dei cortocircuiti, delle combinazioni dall’armonia esplosiva, e approdano ad
una sorta di “troppo”, di “tilt totale”. |