An-architettura?
La mia riflessione parte da un interrogativo sospeso a cui non sono capace
di dare una risposta: cosa mi ha spinto ad affrontare il tema
dell’Architettura tentando di definirne la natura? Da spettatore munito di
sguardo consapevole e pieno d’aspettative mi sono immerso negli spazi
dell’11.Biennale di Architettura illudendomi di riuscire a cogliere i
caratteri architettonici peculiari di ciò che si trovava in mostra.
Dopo innumerevoli tentativi ammetto di non esserci pienamente riuscito, ogni
cosa al suo interno si è rivelata più complessa di quanto appariva
superficialmente e soprattutto poco idonea al contesto di cui si pensa debba
essere portavoce. Credo sia determinante, in seno alla fruizione stessa
delle opere, l’influenza esercitata sul pubblico visitatore dal contesto che
in un certo modo ne determina il contenuto: ci imbattiamo infatti in
“oggetti” per definizione architettonici solo in quanto inseriti all’interno
del luogo specifico della Biennale Architettura. Si tratta dunque di una
riflessione nata dalla difficoltà d’approccio a questa Biennale e al tema
che intende sviluppare.
Cosa succederebbe invece se, aldilà di ogni pregiudizio o aspettativa, ci
limitassimo ad esperire lo spazio che ci avvolge, facendone vera e propria
esperienza fisica, individuale, soggettiva e provando a rispondere alla
provocazione posta dallo stesso titolo della Biennale “Out there: beyond
building” ?.
A ciò segue la messa in dubbio della nozione d’architettura strictu sensu,
intesa come mera costruzione, spostando così radicalmente l’oggetto di
riflessione e d’indagine: in fondo architettura è pure il tema dello sguardo
creatore di percorsi assolutamente individuali. Un' esperienza
psicogeografica limitata al chiuso dell' Arsenale, se vogliamo.
Un atteggiamento che ai miei occhi appare “decostruttivo” guida la
sperimentazione architettonica di questa Biennale, la quale si fa testimone
della fluidità di questo mondo dove ogni confine viene annullato. L’invito
di Aaron Betsky, direttore della biennale, è stato infatti quello di
generare una nuova concezione d’architettura più vasta ed ampliata, che si
nutra dell’ibridazione con i linguaggi delle altre discipline.
Sembra questa l’occasione adatta per parlare di un’architettura che sia
spazio per la vita sociale degli individui, che sia fatta al tempo stesso di
sensibilità, di una condizione immateriale, effimera, non necessariamente
costruita, e perciò an-architettonica.
U.S.A.
Analogamente possiamo affermare che essa è anche “comportamento”, come viene
esemplificato dal Padiglione degli Stati Uniti: un orto è rsituato dentro il
recinto interno a testimoniare la volontà di abolire l’edificio
architettonico già presente, insieme a tutta la sua retorica museografica.
Grazie ad un tipo d’intervento che riconosciamo appartenere al dizionario
dei procedimenti “artistici”, la nostra attenzione si rivolge ora alle
intenzioni e alla poetica-guida del progetto. Inoltre notiamo interposto tra
il padiglione e lo spazio esterno una sorta di diaframma ad indicare forse
una separazione, una rottura.
Latvia
Un’attitudine analoga va letta nel Padiglione della Lituania. Esso consiste
di un tubo metallico collocato in un luogo di passaggio del pubblico:
scultura che sfugge la sua dimensione oggettuale ponendosi come enunciato
architettonico. Siamo davanti a un’architettura che s’interroga su se
stessa, che si materializza come solo “spazio” , quello che circonda il
fruitore e che lui stesso occupa. Vediamo che la questione appare qui
ribaltata nella procedura e nella modalità di fruizione, in quanto in uno
spazio così articolato il pubblico diviene il vero oggetto dell’esperienza
che l’architetto/artista gli organizza intorno.
La Biennale apre quindi un dialogo virtuoso tra le arti
“Interdisciplinareità”, dunque, come carattere predominante e distintivo
della proposta di Betsky, in grado di fungere da piattaforma comune alle più
svariate sperimentazioni nazionali. Ne deriva che stavolta non ci troviamo
più di fronte agli allestimenti di riproduzioni in scala d’edifici
(modellini o plastici), piuttosto a vere e proprie istallazioni in senso
strettamente artistico come quella firmata dal noto binomio Herzog e De
Meuron al Padiglione Italia.
Significativa di una rinnovata attitudine alla materia è la presenza nella
sala introduttiva del Padiglione di una struttura leggera che ci appare
costruita su relazioni. Si tratta infatti di un sistema di oggetti (sedie)
collegati tra loro, che vediamo librarsi in aria restituendoci l’idea di uno
spazio-esperienza. È un invito a sperimentare l’istallazione stessa fatta di
un dentro e un fuori che vediamo fondersi grazie alla possibilità di
passaggio da parte di un pubblico che così lo determina.
Belgio, Portogallo e Giappone
Infatti è dall’apporto delle arti visive sulle riflessioni interne
all’architettura contemporanea che nascono i lavori dei Padiglioni Belgio,
Giappone, Portogallo.
Il padiglione belga si fa maggiormente notare
per via della struttura metallica, solida e al tempo stesso legger,a che
costituisce una seconda facciata; notiamo come essa si riveli elemento
dialogante con la prima e con lo spazio esterno che l’accoglie. Tra
l’edificio preesistente e le facciate aggiuntive, tra le stanze interne e il
giardino esterno, esiste un’enfatica interazione il cui scopo sembra essere
quello di creare uno spazio fluido, non delimitato, volto a capovolgere in
questo modo il loro tradizionale rapporto. Di conseguenza, il progetto non
coinvolge piani e modellini, ma uno spazio che appare “vuoto”, svestito. Il
tutto è rafforzato dalla presenza di coriandoli sparsi un po’ ovunque ed
evocativi di una leggerezza del “contesto” diafano (per via della luce
bianca diffusa), cui partecipiamo e a cui, con la nostra sola presenza
fisica, conferiamo immanenza e pienezza.
Altro curioso aspetto dell’intervento realizzato per il Padiglione Belgio
dallo studio Ofice Kersten Geers David Van Severen (Bruxelles) è il titolo “
1907…after the party”: la data riportata fa riferimento da una parte
all’anno in cui fu costruito il padiglione e dall’altra al volume interno
dell’edificio in metri cubi, alludendo così anche ad uno spazio fisico e
concreto.
È così che attraverso la concezione spaziale espressa dal progetto e dalla
sua scrittura museografica si è portati in prima istanza a riscoprirne il
luogo fisico, l’edificio in se, la sua architettura spoglia intesa come
costruzione.
Di segno opposto appare la proposta del Padiglione spagnolo.
Esso, che con i suoi progetti sembra apparentemente esaudire le aspettative
del pubblico, rivela invece ben poco di veramente architettonico.
Ogni cosa al suo interno appare stupefacente, avanzata tecnologicamente,
“bella” e fatta per essere ammirata; il linguaggio utilizzato è quello
classico che prevede l’esposizione di foto giganti dei progetti, piante
dettagliate degli stessi, modellini ben curati, una sala circolare e buia,
quella centrale, ricoperta di schermi al plasma. Esiste architettura in
questo spazio ? forse assistiamo solamente a qualcosa che ne vuole essere la
traduzione, puro rimando ad essa, che invece vive altrove, semplice e
corrotta manifestazione di un’idea d’architettura. Notiamo come la ricerca
della perfezione in tutto ciò che viene mostrato insieme alla tecnologia
avanzata messa qui al servizio della presentazione di “architetture”, metta
da parte il contenuto più autentico, la riflessione sull’essenza
dell’architettura.
Quella di Junya Ishigami al padiglione giapponese può considerarsi la
proposta più suggestiva.
I suoi edifici in scala 1:1, “greenhouses”, sembrano rappresentare un inno
alla fine dell’architettura del mattone.
Fatti d’effimera presenza fisica con i loro trasparenti volumi, occupano le
bianche pareti dello spazio interno. La peculiarità e virtù dell’interno
“decorato” consiste nella capacità di rinviare chiunque lo ammiri
all’esterno dei giardini-serre come ad un tutto unico. Ci si trova a fare
esperienza dunque di uno spazio reversibile e manipolabile, dove ogni cosa
sembra esistere simultaneamente: le piante dentro e quelle fuori, gli
elementi d’arredo, l’architettura, la topografia…Tutto si colloca
all’interno di uno stesso percorso attraverso cui lo sguardo viene guidato;
esterno ed interno non si distinguono più, i loro confini sono diventati
fluidi. L’abitabilità dell’esterno lo testimonia, esso è infatti pensato
anche come spazio domestico popolato da mobili.
Proseguendo col nostro percorso, entraimo nel Padiglione del Portogallo.
Esso si affaccia sul Canal Grande: ecco una superficie specchiata che
nasconde l’edificio retrostante, rivelando invece immagini in movimento del
paesaggio circostante riflesse su di essa.
Risultato notevole, quello prodotto dalla collaborazione tra architetto e
artista, in questo caso Eduardo Souto de Moura e Angelo de Sousa con il
progetto “Qua fuori. Architettura inquieta”.
Appare contenuta già nel titolo un tipo di proposta che intende affrontare
l’esperienza di un’architettura contemporanea marcata dalle questioni
dell’effimerità, della transitorietà, dei continui movimenti spaziali e
temporali. Ancora una volta ci troviamo immersi in uno spazio interno che ci
appare vuoto, transeunte: siamo chiamati ad interagire e fare esperienza di
una realtà riflessa e riflettente dove pareti specchiate sono capaci di
restituire unicamente la nostra immagine. Dunque la sensazione che può
derivarne è duplice: da un lato ci sentiamo avvolti completamente,
dall’altro ci riconosciamo soggetti artefici nel conferire presenza e
sostanza a quel luogo con cui inevitabilmente dialoghiamo.
Una seconda sala ci suggerisce invece la percezione della struttura e dei
materiali che sostengono il rovescio della facciata. A questo proposito
risulta centrale il ruolo affidato allo spettatore, chiamato in causa a
partecipare all' opera, divenendo conditio sine qua non della stessa.
Si tratta dunque di luoghi, creazioni di spazi artificiali e non, i quali
vivono in virtù della nostra presenza fisica che li attiva e senza cui non
avrebbero ragione di esistere. Questo tipo d’approccio penso faccia
riferimento pure ad esperienze di “arte relazionale” a cui è insita
l’intenzione di ampliare i confini dell’opera, difficili da definire per via
dei rapporti che si instaurano tra essa ed un contesto specifico a cui
inevitabilmente si relaziona.
Germania
Il continuo “crossover” tra arti visive e architettura non sempre porta a
risultati di sicura eccellenza, come nel caso del Padiglione tedesco.
Infatti, al vocabolario artistico contemporaneo si è attinto direttamente e
senza mediazioni facendo un uso a mio parere eccessivo e a tratti improprio
di originali istallazioni.
Francia
Padiglione Francia: impossibile non apprezzare la freschezza della sua
scrittura museografica, nonostante appaia complessivamente poco innovativo
nella proposta.
“Generocité”, questo il nome del progetto, intende portare alla luce un
interrogativo cruciale ai nostri giorni cioè cos’altro può donare
l’architettura alla città, specialmente in termini di spazi pubblici. Quello
che appare uno slogan viene dichiarato un valore ponendo in contrapposizione
dunque “generous” a “generic” . La proposta rischia di essere percepita a
tratti come utopica, pur ponendosi indubbiamente come spunto di riflessione.
Al suo interno, nessun criterio astratto o idealistico: al contrario vediamo
dominare un principio di realtà che spazza via ogni illusione di
cambiamento; il padiglione appare infatti generoso e denso già in termini di
contenuto con un totale di 100 progetti: 55 progetti già realizzati e 45 da
realizzare. Ci troviamo di fronte ai “nostri” plastici di progetti
architettonici accompagnati da rendering esplicativi.
Assistiamo però ad una novità che ha reso la fruizione interessante perché
interattiva: i plastici si trovano inseriti all’interno di teche progettate
ad hoc che è possibile muovere autonomamente, far girare per coglierne
meglio il contenuto.
Irlanda
Altro esempio innovativo di un’attenzione rivolta più alle modalità di
“display” che al suo contenuto a mio avviso poco elaborato, è quello del
Padiglione Irlanda, posto al di fuori del sito canonico della Biennale, in
una sede veneziana come il Palazzo Giustinian Lolin.
“The lives of spaces”: l' enunciazione del titolo ci riporta in un
territorio inesplorato e dal grande potenziale, situato aldilà di ogni
“classica” concezione di architettura.
Emerge da questo progetto un ritratto “spaziale” della società irlandese. La
suggestione che ci viene offerta dal concept del progetto è forte, si parte
dal fatto che allo stesso modo in cui gli spazi possono contenere tante vite
così possono ugualmente viverne altrettante essi stessi.
Polonia
Proseguendo, la dimensione temporale viene nuovamente contemplata nella
proposizione del Padiglione premiato, quello polacco.
Alla base troviamo la sfida alla fede nell’eternità e nell’immutabilità
dell’architettura.
Per conferire sostanza a questa tesi si fa appello al concetto di “modernità
liquida” preso in prestito da colui che la teorizza, Zygmunt Bauman.
Il titolo “Hotel Polonia, the afterlife of buildings” può essere letto come
un’intelligente provocazione che vuole ispirare la riflessione sulla
“durabilità” dell’architettura e sui suoi infiniti usi passati e futuri.
Tutto quello che abita lo spazio del padiglione parla lo stesso linguaggio
nei termini sia di contenuto che di modalità scelta per mostrarlo e renderlo
così accessibile. È indubbio infatti che esista un dialogo tra i sei edifici
(presentati in immagini fotografiche) riportanti i segni dell’implacabile
passare del tempo, e lo spazio stesso del padiglione sottoposto ad un
intervento che gli conferisce una vita alternativa, tramutandolo in un posto
per dormire. Al di là della soluzione scelta, più o meno apprezzabile, il
messaggio si rivela chiaro a livello di contenuto e in linea con il tema che
questa Biennale intende sviluppare: Architecture Beyond Building. La vita di
ogni edificio inizia infatti quando si consegna per l’uso; da quel momento
l’architettura è anche quello che le persone e il tempo fanno dell’edificio.
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